Iraq:
le elezioni piu’ odiate al mondo
di Alberto Airoldi
La vicenda delle elezioni irachene del prossimo 30/1/2005
potrebbe essere il copione di un film di fantascienza, una di quelle utopie
negative che hanno tanto contribuito al successo del genere, da Orwell a Huxley.
Nessuno mai prima d’ora, credo, aveva ipotizzato che la democrazia della
scheda elettorale, il sommo feticcio della democrazia borghese contemporanea,
potesse essere imposta mediante truppe d’occupazione, bombardamenti, massacri
e torture ai danni di una popolazione stremata da anni di guerre e di embarghi.
Mi limito a citare un solo aneddoto: per evitare che gli
elettori votino più volte è stato deciso il ricorso all’inchiostro
indelebile, quello già sperimentato nella farsa elettorale afgana. Il problema
è che, però, un marchio simile significa una condanna a morte certa da parte
della resistenza che boicotta il voto: un marchio indelebile, per l’appunto,
dell’infamia di avere votato nelle elezioni degli occupanti.
Le elezioni
Alle elezioni si arriva con una spaccatura nel fronte dei
resistenti all’occupazione. L’impantanamento, l’inaspettata resistenza
estiva di Falluja, hanno convinto gli Usa a scendere a patti con gli sciiti.
Anzitutto coi moderati filoiraniani come Al Sistani e poi, via via, fino ai
radicali di Al Sadr. Tra gli 83 fra partiti e coalizioni che parteciperanno alla
consultazione spicca la lista di Al Sistani, che raccoglie i due maggiori
partiti sciiti (il Da’wa,
maggioritario anche se diviso in 3 tronconi, e lo Sciri), alcuni partiti religiosi
e una coalizione legata all’ex uomo degli Usa, Ahmed Chalabi.
Quest’ultimo, scaricato dai suoi precedenti sponsor, oltre a vantare il non
trascurabile primato di non essere stato sepolto in qualche galera (come succede
di solito agli ex alleati caduti in disgrazia), si è gettato a capofitto in
un’impresa politica a dubbio sfondo patriottico. Vi sono inoltre alcuni
esponenti kurdi, turcomanni e sunniti, per accreditare l’idea della lista
patriottica (una grande alleanza, insomma). L’appoggio dei radicali di Al Sadr
è controverso: più volte annunciato e ritirato a seguito della repressione di
cui sono oggetto i suoi dirigenti. Un articolo pubblicato il 10/12 su Asia
Times Online dava per acquisita la sua partecipazione “in un modo
discreto. Non pubblicamente”, ma con una consistente quota di candidati. Un
articolo di pochi giorni successivo, di Stefano Chiarini su Il
Manifesto, confermato anche dalla dettagliata analisi del panorama
elettorale pubblicata dall’Osservatorio
Iraq, attribuiva ad Al Sadr una posizione del tipo: “né aderire, né
sabotare”. La campagna elettorale
dei probabili vincitori è stata irrobustita con una Fatwa
(editto religioso) dell’ayatollah Al
Sistani, massima autorità religiosa, che invita ogni iracheno ad andare a
votare.
I due maggiori partiti kurdi (Kdp e Puk) presenteranno una
lista unificata, alla quale non ha aderito la minoranza turcomanna. Vi saranno
anche il famigerato partito comunista collaborazionista e alcuni partiti sunniti,
nonostante la loro richiesta di rinvio delle elezioni.
A essi si oppone la stragrande maggioranza dei sunniti (il 30% della
popolazione), che moltiplicano gli appelli al boicottaggio (dal Consiglio degli Ulema
a svariati appelli di partiti e intellettuali) e la resistenza armata.
Si può pertanto affermare che le elezioni rappresentano
un compromesso tra occupanti, collaborazionisti e borghesia filoiraniana.
La resistenza
Due eventi hanno modificato negli ultimi mesi il quadro
della resistenza, intesa come l’insieme di chi si contrappone in armi
all’occupazione. Il primo è stato la non lineare scelta del movimento di Al
Sadr, il secondo il nuovo assalto a Falluja. Tuttavia chi credeva che questi due
avvenimenti avrebbero potuto fiaccare la resistenza è stato deluso: il paese è
sempre meno controllato, tanto che gli Usa hanno deciso un incremento delle
truppe da 128.000 a 150.000 unità. La scelta di estromettere dalle elezioni i
sunniti ha compattato attorno a loro
gran parte della resistenza patriottica, composta anche da sciiti contrari alla
divisione del paese su basi etniche. La cosiddetta presa di Falluja (una città
rasa al suolo, sembra colpita anche con armi chimiche, ma, ancora, a quanto
pare, non completamente controllata) ha fatto ridislocare i ribelli in altre
località irachene.
Da questa vicenda si possono trarre varie lezioni: la
resistenza ha una forza e un radicamento che non possono essere distrutti nella
situazione attuale; la contrapposizione armata non rappresenta alcuna garanzia
di opposizione irriducibile. Del primo insegnamento dovrebbero fare tesoro i
pacifisti, anche quelli con molti “ma”, quelli che votano mozioni favorevoli
a conferenze di pace e occupazioni multilaterali, per intenderci.
Il secondo insegnamento è per quelli sempre pronti a
entusiasmarsi davanti a un Ak 47, poco importa se imbracciato da un religioso
integralista, un operaio comunista o un militante baathista. La svolta di Al
Sadr, per quanto non portata alle estreme conseguenze del sostegno alle
elezioni, è un fatto, e un fatto che non dovrebbe sorprendere, anche se può
spiacere agli entusiasti arruolatori del clero sciita in una presunta grande
alleanza antimperialista. E’ vero, piuttosto, che questa scelta ha senza
dubbio creato ad Al Sadr delle grosse contraddizioni con le masse
sottoproletarie urbane che lo sostengono, le quali non aspirano certo a vedersi
reclutate come massa di sostegno di un futuro governo sciita che deve
barcamenarsi tra occupanti, resistenti e protettori iraniani. La natura
antioperaia di vari gruppi sciiti si era, peraltro, già evidenziata in più di
un episodio di contrapposizione violenta contro manifestazioni operaie o di
disoccupati. Il nostro sostegno incondizionato alla resistenza, che si unisce
alla parola d’ordine: “per un’altra direzione della resistenza”, non
significa un’idealizzazione del fenomeno armato. La contrapposizione armata
contro l’invasore deve essere parte della lotta politica, deve nascere e
svilupparsi dall’azione della masse, e non sostituirsi a esse. Contrariamente
a quanto appare, infatti, esiste anche un processo di lotte sindacali, degli
operai petroliferi, del gas, dei portuali, dei disoccupati vittime della
devastazione del paese, della sua mancata ricostruzione e delle privatizzazioni
(imposte con l’ordinanza 39 del 13/9/2003). Il salto di qualità da guerriglia
a insurrezione, e non l’acquisizione di un rapporto di forza per trattare con
gli occupanti, deve essere l’obiettivo.
Lo scenario post
elettorale
Il vertice di Sharm El Sheik (Berlusconi può rivendicare
di aver imposto la sua idea dei vertici balneari e vacanzieri) ha dato il via
libera alla farsa elettorale, con il suo portato di tragedia, la sua lunga scia
di morti. Parafrasando il celebre motto: un voto, una testa. E’ stato inoltre
deciso il condono dell’80% del debito, a tutto danno di Francia e Russia, che,
però, data la situazione, non potevano aver conservato molte illusioni
sull’esigibilità dei loro crediti. Le elezioni, lungi dal rappresentare un
passo verso la stabilizzazione, costituiscono un ennesimo elemento di
radicalizzazione della situazione. E’ difficile immaginare una soluzione
“afgana” per l’Iraq, cioè il controllo di poche zone strategiche del
territorio: le zone da controllare sono troppo estese. La scomposizione del
paese su basi etniche e religiose è una delle opzioni da sempre mantenute
aperte dagli occupanti. Questa scelta comporta enormi problemi. Il paese è
lungi dall’essere semplicemente scomponibile in un sud sciita, un centro
sunnita e un nord kurdo. La città petrolifera di Kirkuk è kurda, araba e
turcomanna: il controllo del petrolio scatenerebbe una guerra civile. Inoltre la
proclamazione di uno stato kurdo è avversata decisamente dalla Turchia. Per non
parlare di un grande stato sciita nel sud, che diventerebbe una propaggine
dell’Iran. Al Sistani è oggi un interlocutore fondamentale per garantire le
elezioni, ma non è affidabile. E’ l’uomo di Teheran e non è certo
favorevole all’occupazione. Ed è il quasi certo vincitore delle elezioni.
Lo scenario post elettorale potrebbe riservare delle nuove
Falluja: Mosul e Kirkuk. Nella prima ci sono zone intere controllate dalla
resistenza, altre dai Peshmerga kurdi
e altre, infine, dalla minoranza turcomanna. Nella seconda il quartiere arabo si
autogoverna e impedisce a occupanti e kurdi armati di entrare.
A un anno e mezzo dalla fine della guerra gli imperialisti
non controllano il territorio, e quindi nemmeno il petrolio, non riescono a
concretizzare gli appalti per la ricostruzione (anzi, alcune multinazionali se
ne stanno andando). Pare che l’unica carta che siano riusciti a giocare sia
quella di moltiplicare le contraddizioni tra gli occupati. E’ soprattutto la
storia di questi ultimi giorni, caratterizzati da attentati in zone sciite e dal
moltiplicarsi di appelli a non scatenare una guerra civile. Credo che dovremmo
prestare molta attenzione a non accettare una schematizzazione che riduca la
resistenza a un fenomeno sunnita e le elezioni a un processo unanimemente
accettato dalla maggioranza sciita, che vede in esse l’occasione del proprio
riscatto. La resistenza ha una base multietnica, anche se a prevalenza sunnita,
mentre le elezioni volute dagli occupanti sono lungi dall’essere unanimemente
accettate dagli sciiti. Le capacità operative della resistenza, tra l’altro,
sembrano aumentare, come testimoniato anche dal clamoroso attentato del
21/12/2004 contro la base statunitense a Mosul.
Bombardamenti e divisioni possono ritardare
l’unificazione delle forze di resistenza e scoraggiare la mobilitazione di
massa, ma non possono fare uscire gli Usa dall’impasse. E non si vede proprio come la coalizione dei volonterosi e
variopinti paesi imperialisti, con al seguito l’Onu, i governi di
centrosinistra e le Ong, possano riuscire nel miracolo di raccogliere il
consenso di masse massacrate, umiliate, impoverite, e, contemporaneamente,
accaparrarsi stabilmente il petrolio per ripartirselo equamente.
Dicembre 2004