Verso le elezioni amministrative

I comunisti e i governi locali e nazionali

 

di Valerio Torre

 

Le elezioni amministrative di primavera sono ormai alle porte e già torna a farsi sentire, da parte della maggioranza dirigente del PRC, il canto delle sirene del pieno sostegno ai governi borghesi degli enti locali: di qui ai mesi a venire sarà tutto un fiorire di interminabili ed animate discussioni, all’interno degli organismi del partito, fra i fautori dell’ingresso ad ogni costo nelle coalizioni e nelle giunte di centrosinistra, da un lato; e, dall’altro, coloro che, come noi, intendono, invece, contrastare questa tendenza.

Certo, visti gli attuali rapporti di forza, sembrerebbe già tutto scritto e che non vi sia spazio se non per gli argomenti che, in genere, ci vengono rovesciati addosso per vincere le nostre resistenze: “siete sempre e solo per il no!”; “avete una vocazione minoritaria!”; “siete i soliti settari!”; “in questo modo fate vincere la destra!”. Ma, a ben vedere, queste accuse altro non sono che la concreta rappresentazione dell’abbandono dei riferimenti teorici e strategici del programma fondamentale dei comunisti e dell’inevitabile rinuncia alla prospettiva rivoluzionaria e ad una politica conseguente; mentre colpisce la spregiudicatezza con cui la maggioranza dirigente del PRC fa uso di argomenti privi di ogni fondamento e connotazione di classe per giustificare la scelta, sempre e comunque, delle alleanze di governo con il centro sinistra.

Dunque, non è certo per idolatria che è necessario fare riferimento ai “classici” del marxismo, ma perché solo il richiamo a quei capisaldi può correttamente orientare la nostra azione politica.

Ed il principio da cui occorre prendere le mosse è quello dell’intransigente difesa dell’indipendenza di classe e dell’autonomia politica dei comunisti, come Marx ed Engels spiegavano stupendamente nell’Indirizzo alla Lega dei comunisti del 1850: «… i piccoli borghesi democratici … predicano al proletariato unione e riconciliazione; gli offrono la mano e tendono alla costituzione di un grande partito che rappresenti tutte le sfumature del partito democratico, cioè tendono a coinvolgere i lavoratori in un’organizzazione … dietro cui si nascondono gli interessi specifici dei piccoli borghesi e nella quale le rivendicazioni specifiche del proletariato, per amor di pace, non dovrebbero essere avanzate. Una simile unione andrebbe solo a vantaggio loro e completamente a svantaggio del proletariato. Il proletariato perderebbe completamente la sua posizione indipendente, che si è faticosamente conquistata, e si ridurrebbe ad essere l’appendice della democrazia borghese. Codesta unione deve dunque essere risolutamente respinta … Che dappertutto, accanto ai candidati democratici borghesi, siano presenti candidati operai … Anche là dove non esiste nessuna speranza di successo, gli operai debbono presentare i loro candidati per salvaguardare la loro indipendenza, per contare le proprie forze, per manifestare pubblicamente la loro posizione rivoluzionaria e il punto di vista del partito». Quale migliore e più efficace “ritorno a Marx” se non questo, a dispetto delle suggestive ma rituali evocazioni che durano lo spazio di un congresso?

E come non ricordare il Marx della Critica del Programma di Gotha, che teorizzava il rifiuto della politica di compromissione perché questa prevede «invece di opposizione politica decisa, mediazione generale; invece della lotta contro il governo e la borghesia, il tentativo di conquistarli e di convincerli»?

Questi principi, che costituiscono i fondamenti generali del programma di un partito comunista, portarono Rosa Luxemburg a dire: «Nella società borghese il ruolo spettante alla socialdemocrazia (come allora si chiamavano i comunisti) è per sua essenza quello di partito d’opposizione; come partito di governo può farsi avanti solamente sulle rovine dello Stato borghese», ed a polemizzare aspramente con Bernstein, che propugnava invece la partecipazione a governi borghesi, dando così luogo a quella corrente, denominata “revisionismo”, di cui il socialista francese Millerand fece pratica applicazione entrando, da ministro dell’industria e del commercio, nel governo Waldeck‑Rousseau.

E vale la pena di citare il giudizio che di quella vicenda diede Lenin in Marxismo e revisionismo: «L’esperienza delle alleanze, degli accordi e dei blocchi col liberalismo socialriformista in occidente e col riformismo liberale (cadetti) nella rivoluzione russa ha dimostrato in modo convincente che questi accordi non fanno che annebbiare la coscienza delle masse, non accentuano ma attenuano l’importanza effettiva della loro lotta, legando i combattenti agli elementi più inetti alla lotta, più instabili e inclini al tradimento. Il millerandismo francese, che è l’esperienza più notevole di applicazione della tattica politica revisionista su grande scala, su una scala veramente nazionale, ha dato del revisionismo un giudizio pratico che il proletariato di tutto il mondo non dimenticherà mai». Questo ragionamento leniniano fa addirittura giustizia dell’argomento che, in genere, viene portato a sostegno della scelta del PRC di assumere responsabilità di governo nelle coalizioni borghesi: “non si può essere pregiudizialmente contrari ad una verifica programmatica col centro sinistra”. Ebbene, quella “verifica” l’ha fatta la storia, dal momento che, proprio a partire dal millerandismo e fino ai fronti popolari, nessuna alleanza progressista o riformista ha mai costituito la base per una vera alternativa dei lavoratori, ma al contrario ha preparato e favorito la rivincita dei reazionari; e continua a farla oggi la cronaca della corresponsabilizzazione di Rifondazione nel governo dei tanti enti locali in cui condivide politiche antioperaie e di favore per la borghesia.

Dunque, la visione strategica dei comunisti deve tener ferma la barra del principio dell’indipendenza di classe e dell’autonomia del partito; e da qui partire per le necessarie articolazioni tattiche. Come non citare, al riguardo, il testo di Lenin che più di tutti è oggetto di mistificazione da parte di chi ne brandisce – proprio contro le nostre posizioni – il titolo? Infatti, L’estremismo, malattia infantile del comunismo possiede la singolare caratteristica di essere lo scritto leniniano dal titolo più citato (ma quasi sempre a sproposito) e nondimeno dal contenuto del tutto rimosso.

In questo saggio, Lenin, per il quale la tattica non poteva assolutamente prescindere dai principi strategici, polemizzò aspramente con i comunisti inglesi che propugnavano l’astensionismo rifiutando l’ipotesi di accordo tattico elettorale col Partito laburista nella cornice di un sistema elettorale maggioritario, ed indicò la strada maestra per la conquista della maggioranza del proletariato sottraendolo all’influenza dei riformisti: un blocco puramente tattico con i laburisti al solo scopo di battere i conservatori; ma un blocco caratterizzato dalla più completa libertà per i comunisti di agitazione, di propaganda, di attività politica.

È la tattica, utilizzata con successo dai bolscevichi nel ’17, del “fronte unico”, che non significa affatto accordo politico e sostegno (sia pure critico) ai governi della borghesia, anche se democratici o progressisti (l’unico “sostegno” che, per Lenin, i comunisti devono dare a questi governi è quello della «corda [che] sostiene l’impiccato»). Anzi, governi del genere dovranno essere implacabilmente smascherati di fronte alle masse in quanto strumenti della borghesia.

L’intransigente ed aperta difesa di questi principi – che condusse il bolscevismo al vittorioso assalto al cielo e che poi, nel 1935 in pieno regime stalinista, venne abbandonata in favore dei “fronti popolari”, basati su coalizioni con la borghesia democratica ed antifascista – deve per noi costituire un punto fermo che ci distingua dagli opportunisti che si nascondono dietro al riformismo, all’indirizzo dei quali Rosa Luxemburg pronunciò le seguenti parole: «È fondamentalmente falso e assolutamente antistorico rappresentarsi il lavoro legale di riforma soltanto come una rivoluzione tirata per le lunghe, e la rivoluzione come la riforma concentrata. Sovvertimento sociale e riforma legale sono momenti diversi non di durata ma di essenza … Chi si pronuncia perciò in favore della via delle riforme legali invece e in contrapposizione alla conquista del potere politico e al sovvertimento della società, sceglie in effetti non una strada più tranquilla, sicura, lenta verso un identico obiettivo, ma piuttosto un’altra meta, cioè invece dell’avvento di un nuovo ordine sociale solo inessenziali modifiche del vecchio».