Cronaca di una crisi annunciata: il crollo della new economy e il caso Marconi

 

di Marco Veruggio

Le pagine di cronaca economica e sindacale degli ultimi mesi sono state monopolizzate dai resoconti relativi alla crisi della Fiat. Il motivo è evidente: non soltanto questa crisi va a toccare uno dei principali centri di potere del Paese, ma riguarda anche un’azienda che in qualche modo rappresenta e si identifica con la storia dell’industria pesante italiana e che, soprattutto, ha dato e dà lavoro a centinaia di migliaia di dipendenti in Italia e nel mondo. Non altrettanto evidente è per molti il fatto che la parabola di quest’azienda non rappresenta una vicenda a sé stante nel panorama internazionale, ma ripercorre un cammino caratteristico che accomuna centinaia di grandi gruppi finiti recentemente nella morsa della recessione.

Da questo punto di vista il caso di Marconi costituisce un esempio di dimensione minore ma altrettanto significativo di come viene gestita la ristrutturazione di una grande impresa capitalistica in crisi, esempio tanto più interessante in quanto riguarda una delle aziende più in vista della tanta decantata new economy. Marconi Italia fino al 1998 poteva essere additata come un esempio di piccolo miracolo economico nazionale. All’avanguardia nella produzione di apparati telefonici e gestita con sobrietà da un management interamente italiano, poteva vantare un fatturato di 700 mld di lire, di cui il 70% proveniente dalle esportazioni, dirette prevalentemente verso l’Europa del Nord, il Nord Africa e il Medio Oriente. La società era controllata dalla GEC, conglomerato di società con interessi in vari settori: Difesa, Telecomunicazioni pubbliche, Prodotti Consumer (lavatrici, pompe di benzina etc.) e tra le molte società ed attività possedeva in joint venture con Siemens anche la GPT. In seguito la GEC rilevò la quota detenuta da Siemens e fuso la GPT con la Marconi Italiana creando Marconi Communication plc e dando vita a una radicale trasformazione del modello gestionale (vendendo tutto ciò che era old economy compreso il settore difesa inglese). Il management italiano venne progressivamente soppiantato da quello inglese, la produzione esternalizzata e l’offerta ampliata creando tre diverse divisioni di business:

- MARCONI COMMUNICATION, che produce sistemi di telecomunicazione per compagnie di telecomunicazioni e imprese;

- MARCONI MOBILE, creata nel ‘99 per entrare nel mercato della telefonia mobile;

- MARCONI SERVICES, che fornisce servizi di consulenza per la progettazione di reti di telecomunicazioni.

In seguito al boom delle telecomunicazioni i primi due anni della nuova gestione videro Marconi Italia triplicare il fatturato e aumentare il numero dei dipendenti di svariate centinaia di unità (fino ad arrivare a 8000 nel 2000). Il biennio successivo portò a una brusca inversione di tendenza: Marconi plc accumula un debito di circa 4 mld di sterline, il titolo crolla quasi a zero (penalizzando non solo gli azionisti, ma anche molti dipendenti pagati parzialmente in titoli) e arriva il primo annuncio di circa 12.000 esuberi in tutto il mondo. Ovviamente il ramo italiano subì le conseguenze della catastrofe pagandone lo scotto con una consistente perdita di posti di lavoro, tenuto conto che, oltre agli esuberi, vi sono stati numerosi esodi volontari incentivati con il pagamento di 15 mensilità. Al momento in cui scrivo l’ultima ondata di tagli (1.100 unità) è bloccata in attesa di un accordo tra azienda e sindacati sul piano industriale, ma sembra destinata a diminuire. La ristrutturazione procede secondo modalità collaudate: da una parte la riduzione del personale, dall’altra lo “spezzatino”: il gruppo viene smembrato allo scopo di mettere sul mercato i pezzi pregiati. Marconi Mobile Italia, divisione sostenuta dalle commesse militari, viene acquisita da Finmeccanica. Si apre una trattativa per l’acquisizione anche di Tetra e Umts da parte dell’ex Iri, che peraltro rimane in stallo.

Per Marconi Communication invece si prospetta inizialmente una riduzione drastica dei mercati di riferimento. Ciò significa in concreto che, a partire da una situazione in cui gran parte delle commesse venivano dall’estero (Scandinavia, Nord Africa, Medio Oriente), viene chiesto di assumere come mercati di riferimento esclusivamente Italia (85%), Spagna e Portogallo (15%), mentre i mercati più interessanti verrebbero assorbiti da altre divisioni del Gruppo (ma anche su questo sembra che ci sia la possibilità di un parziale passo indietro).

Alla ristrutturazione sovrintendono le banche. Il piano di salvataggio prevede infatti uno scambio debito/azioni tra gli azionisti da una parte e banche e obbligazionisti dall’altra. Viene creata una nuova società, Marconi Corporation, mentre Marconi plc viene messa in liquidazione. Ai vecchi azionisti rimarrà soltanto uno 0,5% del capitale, con la possibilità di salire fino al 5% tramite l’acquisto di warrant, a condizione che la capitalizzazione di Marconi Corporation, quotata in borsa dal primo gennaio, raggiunga il miliardo e mezzo di sterline. Naturalmente le banche diventano così i più rigorosi e interessati controllori del piano di dismissioni e riduzione del personale.

A questo punto resta da chiedersi come e perché capiti un tale scempio. Non è soltanto un’esigenza scientifica ma una necessità che scaturisce dal dibattito aperto tra i vari protagonisti della vicenda, che, ovviamente, si palleggiano le responsabilità del disastro. Vi è stato chi ha sostenuto una spiegazione “nazionalistica”, addebitandola colpa di tutto all’ingresso del management inglese e presentando il mantenimento dell’ “italianità” di Marconi coma garanzia di per sé sufficiente alla salvezza della società e dei suoi dipendenti. A Genova, dove, dopo centinaia di assunzioni effettuate negli anni passati, sono arrivati centinaia di esuberi, si è dato il caso abbastanza singolare di una lettera anonima attribuita a un sedicente ex dirigente di Marconi Italia, lettera pubblicata da uno dei più noti quotidiani locali e in cui si avallava, più o meno esplicitamente, questa tesi e si criticava aspramente il primo piano industriale presentato ai sindacati dagli inglesi.

E’ innegabile che l’ingresso di questi ultimi abbia determinato un aumento esponenziale della burocrazia interna, allungando la catena decisionale e provocando un appesantimento delle procedure. Si tratta di un fenomeno che andrebbe approfondito, se non altro perché rappresenta la più cristallina confutazione di uno dei dogmi della vulgata neoliberista, cioè che gli sprechi e le lungaggini siano appannaggio esclusivo delle aziende pubbliche. A Genova si sono fatti i lavori di ristrutturazione della sede centrale con uno sfarzo di sapore tutto propagandistico e si è costruito ex novo uno strato di dirigenti/burocrati legati all’azienda da ingenti benefit. Tuttavia ridurre a ciò le cause del tracollo significherebbe compiere una semplificazione assolutamente fuori luogo.

Da circa due anni infatti tutto il settore della cosiddetta new economy sta attraversando una profonda quanto prevedibile crisi di sovrainvestimento. Per anni ci è stato raccontato che gli sviluppi tecnologici avrebbero determinato un’era di prosperità legata a un continuo rivoluzionamento dei bisogni e, conseguentemente, della produzione industriale. In realtà era chiaro che non esiste sviluppo infinito della produzione nell’ambito di mercati finiti e sempre più velocemente saturabili. D’altra parte la contemporanea stagnazione degli altri settori produttivi ha determinato una compressione generalizzata dei salari e quindi della domanda di prodotti di consumo ad alta tecnologia. Del resto i padroni del vapore erano perfettamente consapevoli dell’ineluttabilità di questa situazione. Già qualche anno fa, discutendo sulle prospettive della telefonia di terza generazione, gli esperti preannunciavano che il problema fondamentale sarebbe stato convincere i consumatori della necessità di spendere cifre molto alte per accedere a questa nuova tecnologia. La lentezza con cui l’Umts sta entrando nel mercato testimonia la correttezza di tale previsione (così come la campagna pubblicitaria che l’unico operatore Umts attivo in Italia sta effettuando è talmente poderosa da rappresentarne la conferma più clamorosa). Ma la propaganda del sol dell’avvenire era necessaria per spingere i consumatori a spendere e gli investitori della domenica ad acquistare titoli tecnologici.

La storia di Marconi si svolge in questo contesto ed è qui quindi che dobbiamo ricercare le vere cause della sua crisi. Cito due soli esempi. Poco dopo la scalata degli inglesi Marconi acquisì una grossa commessa da British Telecom, commessa festeggiata come un vero e proprio “colpaccio”. In realtà il colpaccio l’aveva fatto solo BT, riuscendo a strappare una formula di pagamento del tipo “cresci e paga”. Cosa significa? Significa che la fornitura di Marconi sarebbe stata pagata man mano che le reti realizzate grazie ad essa fossero state messe in funzione e l’investimento avesse cominciato a fruttare. Ma lo scoppio della crisi delle telecomunicazioni ha fece sì che gran parte di tali infrastrutture rimanesse inutilizzato, trasformando l’operazione in un colossale “buco”. A tragedia si aggiunse tragedia quando Marconi decise di dare l’assalto al mercato americano. Vennero acquisite società come Reltec e soprattutto Fore, aziende fortemente sovraquotate in seguito al boom delle telecomunicazioni e alla bolla speculativa, per di più comprate pagandole interamente in contanti. Fore, in particolare, era nota nel settore per la produzione di componenti basate sul protocollo ATM. Nel periodo successivo all’acquisizione però il mercato vide prevalere le reti basate sull’utilizzo del protocollo concorrente IP, meno versatile ma certamente più economico. A quel punto il “gioiello” americano cominciò a svalutare. La mannaia abbattutasi sulla new economy peggiorò la situazione, perché, una volta esplosa la bolla, ricollocare sul mercato le società americane significava rischiare di non recuperare neanche i quattrini sborsati per acquistarle. Sono soltanto due episodi, ma se ne potrebbero affiancare altri. Fino a qualche anno fa, ad esempio, Marconi realizzava direttamente i sistemi di sua progettazione. In seguito si decise di affidare la produzione ad aziende esterne, in un’ottica, come sempre, di abbattimento dei costi. Oggi in Marconi di fatto non ci sono più operai, fatta eccezione per un nucleo relativamente piccolo di tecnici addetti al collaudo. Anche in questo caso la crisi del settore ha avuto i suoi effetti. I costi di produzione infatti cambiano di settimana in settimana in seguito alle fluttuazioni di un mercato sempre più instabile. Ciò significa che spesso, dal momento in cui si chiude un contratto al momento in cui si pagano i fornitori, l’aumento dei costi di produzione può essersi mangiato una buona fetta del guadagno. Per di più la diminuzione dei volumi commerciali contribuisce ulteriormente ad un aumento dei prezzi.

Quanto detto basta a sgombrare il campo da tanti equivoci e tante fandonie che si sono detti e scritti negli ultimi mesi. La vicenda di Marconi deve esser inquadrata nel contesto di una crisi drammatica del capitalismo internazionale, crisi che molti degli stessi analisti borghesi non esitano a paragonare alla Depressione del ’29. Come di consueto le cicliche tempeste che sconvolgono gli assetti della nostra economia sono il risultato di uno sviluppo eccessivo e irrazionale delle forze produttive. Il fenomeno della new economy rappresenta un esempio da manuale di cosa significhi una crisi di sovrainvestimento. Nel giro di pochi anni il sottosuolo delle nostre città è stato traforato in lungo e in largo allo scopo di gettare milioni di chilometri di cavi e fibre ottiche. Oggi gran parte di queste reti giacciono inutilizzate sotto terra e non c’è alcuna certezza che vengano usate in un futuro prossimo. Tutto ciò ha rappresentato un’occasione di arricchimento per un pugno di uomini d’affari, ma, complessivamente, per la nostra società, ha significato un’enorme e imperdonabile dissipazione di ricchezze e di energie, che ovviamente si è andata scaricando sulle spalle dei lavoratori (quelli di Marconi tra gli altri) e delle classi subalterne.

Da un punto di vista capitalistico per uscire dalla crisi è necessaria una ristrutturazione dell’intera economia e, in particolare, dei settori più colpiti, ristrutturazione fatta – lo abbiamo visto – di licenziamenti, compressione salariale e di un’ulteriore accelerazione nei processi di concentrazione del capitale: i gruppi di grandi dimensioni riescono (di solito) a sopravvivere, quelli più piccoli spariscono o vengono inghiotti dai più grandi, liberando quote di mercato a beneficio di questi ultimi. Quando le società in crisi godono di prestigio internazionale o presentano rami produttivi ancora appetibili, si cerca di acquistarne il marchio (ovvero di rilevarne il mercato) smantellando la produzione. A volte – lo abbiamo visto – si procede al cosiddetto “spezzatino”. Si separano cioè i rami verdi da quelli secchi (anche i recenti sviluppi del caso Fiat lo esemplificano). I primi vengono messi sul mercato, gli altri progressivamente smantellati. Da un punto di vista marxiano tutti questi marchingegni costituiscono degli strumenti per ridurre le forze produttive in eccesso e rilanciare l’accumulazione. Scenari di questo genere si presentano puntualmente e con cadenze abbastanza regolari nella storia del capitalismo.

Rimane il problema di come affrontare vicende di questo tipo. Le soluzioni “nazionalistiche” patrocinate da settori di padronato e di ceto politico e sindacale lasciano il tempo che trovano, se non altro perché, come ho cercato di dimostrare, non colgono le vere ragioni della crisi, attribuendole agli “stranieri invasori”. Le pratiche sindacalistiche, che si limitano a trattare sugli ammortizzatori sociali e a ridurre le perdite, non fanno che diluire gli effetti delle ristrutturazioni e, in qualche modo, renderle “digeribili” alle vittime.

In realtà, se l’analisi che abbiamo cercato di condurre è fondata, il nodo della discussione sta nel riconoscere che non esiste “la” soluzione buona per tutti. La ristrutturazione produttiva sotto il controllo del capitale finanziario è una soluzione buona, forse la migliore, per il capitale. Allo stesso modo ci deve essere una soluzione buona per i lavoratori e soltanto per loro e, certamente, non può essere la stessa. Se soltanto riuscissimo a far passare questo semplicissimo concetto avremmo già fatto un grosso passo in avanti verso la migliore soluzione (per noi) del problema. E sarebbe evidente che non c’è uscita dalle crisi aziendali che tuteli i lavoratori se non sono i lavoratori stessi a gestirla, come, più in generale, non c’è politica economica favorevole ai lavoratori se non il controllo sull’economia da parte dei lavoratori stessi.

Scioperi, blocchi stradali, occupazione degli stabilimenti sono le più elementari situazioni in cui i lavoratori cominciano a percepirsi come un soggetti centrale, in grado di imporre il proprio potere e il proprio controllo sul resto della società. Da questo punto di vista la vicenda di Marconi ha rappresentato un vero e proprio “miracolo”. Azienda tradizionalmente poco sindacalizzata e, per lo meno a Genova, un po’ isolata dalle fabbriche più combattive (Ilva, Fincantieri, Ansaldo), Marconi ha visto infatti maturare nel giro di pochi mesi una radicalizzazione e un crescente protagonismo da parte dei suoi dipendenti. Da un anno a questa parte gli spezzoni di Marconi, formati prevalentemente da giovani, sono tra i più vivaci nei cortei sindacali e non solo (recentemente questi lavoratori hanno aperto una manifestazione nazionale no global svoltasi a Genova). Anche questo dovrebbe servirci da indicazione. Qualcuno pensa che rivendicare il controllo operaio sulla produzione sia pura utopia. Ma fino a qualche mese fa sarebbe stata utopia immaginare gli impiegati genovesi, tradizionalmente moderati, di Marconi occupare la Stazione ferroviaria di Sampierdarena (dove si trova la sede di Genova) e bloccare la circolazione dei treni, come invece è successo a dicembre. In realtà non c’è nulla di eccezionale. E’ il meccanismo della lotta di classe che si riverbera sulle coscienze e produce quelli che sembrano miracoli ma miracoli non sono. Sta a noi evidentemente cercare di fertilizzare il terreno per fare in modo che continuino a succedere, sempre più di frequente