Breve viaggio tra le lotte latinoamericane

 

di Alberto Airoldi

 

Un continente con molti aspetti in comune

In nessun altro continente al mondo oltre all’America Latina riescono a convivere un sentimento nazionalista e una dimensione internazionalista. Le rivalità nazionali e l’oppressione di minoranze nazionali all’interno di alcuni Stati non sono riuscite a stabilizzare un nazionalismo reazionario: i movimenti politici latinoamericani, siano essi di impronta borghese o legati al movimento operaio, sono spesso caratterizzati da un nazionalismo antimperialista e da un internazionalismo che mettono, quantomeno, al centro la dimensione continentale dell’agire politico. D’altronde i tre grandi simboli della liberazione latinoamericana: Bolivar, Martì e Che Guevara, hanno combattuto per estendere i processi rivoluzionari al di fuori degli angusti confini degli Stati.

I motivi per i quali oggi ci è quasi impossibile parlare di "rivoluzione asiatica" o di "rivoluzione europea", nonostante la costituzione dell’Ue, ed è invece plausibile ragionare su una "rivoluzione latinoamericana", hanno radici profonde nella storia di questo martoriato continente.

Nel continente dei tentativi rivoluzionari e delle sanguinose dittature militari degli anni ’70 il processo di stabilizzazione politica ed economica è stato decisamente fallimentare: l’imperialismo statunitense ha provato a imporre quelle che Galeano ha definito democraduras, democrazie borghesi autoritarie, meno costose delle dittature, e che avrebbero dovuto essere più efficaci nel garantire la prosecuzione del saccheggio delle risorse e della manodopera, in un contesto di normalizzazione sociale. Alla prova dei fatti praticamente tutti gli esperimenti realizzati, salvo forse quello cileno, si sono rivelati fallimentari. L’imperialismo ha potuto proseguire e approfondire il suo saccheggio, ma scontrandosi con un’opposizione sempre più crescente e con condizioni economiche e sociali sempre più disastrose.

 

Gli esempi più radicali

Il caso più emblematico e conosciuto è quello dell’Argentina: uno Stato finito in bancarotta, la pauperizzazione e proletarizzazione in massa di gran parte della popolazione, una risposta di massa che spazza via presidenti e potentati politici, le fabbriche occupate, i consigli di lavoratori e disoccupati, e poi blocchi stradali e vere proprie insurrezioni in un Paese dove un’intera generazione di militanti è stata cancellata dalla repressione.

Quello argentino è, però, solo il caso più noto: i primi tre anni di questo nuovo millennio hanno portato ovunque un’intensificazione senza precedenti delle lotte.

Il primo incendio era scoppiato nel 2000 nel dimenticato Equador, che tante braccia esporta nel nostro Paese, dove la ribellione degli indios, scatenata dalla loro secolare discriminazione e dal continuo saccheggio dei loro territori, aveva portato, dopo vari blocchi stradali, alla paralisi della capitale e alla cacciata, con la collaborazione di alcuni settori dell’esercito, del presidente Mahuad. L’organizzazione che raggruppa gli indigeni, la Conaie, di concerto coi militari, si arrestò alle soglie del potere, e negoziò una soluzione di ricambio del personale politico. Nelle successive elezioni presidenziali vinse Gutiérrez, il candidato del fronte popolare, appoggiato anche da indigenisti, partito comunista e maoisti. In realtà Gutiérrez si è subito proposto come "il migliore alleato" per gli Usa e ha intrapreso una politica di rigida osservanza fondomonetarista e di repressione contro i sindacalisti, i lavoratori in sciopero (per esempio quelli del petrolio) e culminata nella violenta repressione dello sciopero degli insegnanti. Negli ultimi anni sono state compilate liste nere dei "nemici del governo", è cresciuta l’attività di squadroni della morte come la Legiòn Blanca, ma si è anche dimostrato che manifestazioni e blocchi stradali di massa non sono più appannaggio dei soli indios. Tutto questo si verifica in un contesto di profonda crisi economica, sempre peggio sopportata da un Paese dollarizzato, che ha abolito alcuni anni or sono la sua moneta nazionale, il Sucre.

Il Paese più attivo, però, è stato indubbiamente la Bolivia, che, a partire dalla "guerra dell’acqua’’ combattuta nel 2000 a Cochabamba aveva messo un freno alle privatizzazioni del Fmi. Negli anni a seguire la Bolivia ha visto blocchi stradali dei contadini cocaleros e due insurrezioni, una nel febbraio 2003 contro misure fiscali antipopolari e poi nell’autunno contro la privatizzazione del gas. Anche in questo caso la precaria soluzione è consistita in un ricambio di personale politico e nella messa in discussione del progetto di privatizzazione.

 

Il risveglio di altri Paesi

In Perù l’intensificarsi delle lotte ha accelerato la caduta del regime autoritario di Fujimori, già in stato di decomposizione. Nel 2002, col nuovo regime fondomonetarista del presidente Toledo, a partire da Arequipa, una vera e propria ribellione, fatta di blocchi stradali, barricate, occupazioni e uno sciopero generale indefinito, arrestò il progetto di privatizzazione delle imprese di energia elettrica. Nella primavera del 2003, dopo tre settimane di sciopero degli insegnanti, dei lavoratori della sanità e della giustizia, di blocchi stradali dei contadini, Toledo dovette decretare lo stato di assedio, sgomberare sanguinosamente l’università di Puno e il ministero della giustizia. Lo sciopero degli insegnanti, tuttavia, non si interruppe: le aule erano deserte, anche i ragazzi non andavano a scuola. La confindustria e la chiesa, prima favorevoli allo stato d’assedio, dovettero spingere per giungere a una mediazione.

Il Paraguay, un Paese storicamente isolato, terra di una delle più longeve dittature del dopoguerra, quella di Stroessner, visse nell’estate del 2002 un’esplosione senza precedenti: contro la "legge antiterrorismo", contro la privatizzazione delle strade e della compagnia telefonica, contro l’IVA sui prodotti agricoli, contro l’impunità per i crimini della dittatura, si verificarono blocchi stradali prolungati e la minaccia di uno sciopero generale prolungato. La repressione non è stata sufficiente e il governo dovette ritirare i suoi progetti. La conflittualità è molto elevata: nel novembre 2003 un gruppo di 200 operai ha distrutto gli uffici di una multinazionale sudcoreana che negava i diritti sindacali e licenziava senza giusta causa. I dirigenti sindacali hanno dichiarato: ‘’La fabbrica è degli operai, non dei coreani’’.

Come il Paraguay, anche l’Uruguay si è visto trascinare nell’abisso dalla crisi argentina, destinazione privilegiata per le sue esportazioni. Uno degli episodi più emblematici fu l’occupazione nell’estate del 2002 del municipio di Rocha da parte di lavoratori che rivendicavano il pagamento di salari arretrati. Nel dicembre 2003 il governo è uscito clamorosamente sconfitto in un referendum sulla privatizzazione della compagnia petrolifera Ancap.

Persino in Cile il 13/8/03 uno sciopero di massa ha messo fine alla pace sociale garantita dal governo Dc-Ps, con lavoratori e studenti che hanno costretto la polizia a ritirarsi. L’allievo modello in quanto a privatizzazioni, privazione dei diritti, alta produttività e bassi salari inizia a incepparsi.

Una clamorosa sconfitta per via referendaria è stata subita anche dal governo di Uribe in Colombia, aggravata dall’esito delle elezioni amministrative concomitanti. Dopo avere sospeso i negoziati con la guerriglia e aperto alle truppe statunitensi ("Plan Colombia"), Uribe non ha conseguito alcun risultato.

 

L’America Centrale

Anche i Paesi dell’America Centrale, tradizionalmente meno turbolenti, hanno registrato una forte crescita delle mobilitazioni popolari. In El Salvador nel 2002 si verificò uno sciopero di tre mesi del personale sanitario contro i progetti di privatizzazione, che ha mobilitato l’85% dei lavoratori e non è stato piegato neppure dall’intervento della polizia e dell’esercito, ma, al contrario, ha coinvolto anche i lavoratori di un altro settore interessato dalle privatizzazioni: quello dell’università.

Nella tradizionalmente tranquilla Repubblica Dominicana, colpita da forti rialzi dei prezzi dei generi di prima necessità e da continui black out, uno sciopero generale di 24 ore ha avuto come risposta lo stato d’assedio e l’arresto di 100 attivisti. Alcuni settori reclamano ora non solo la riduzione dei prezzi, ma anche ‘’Le dimissioni del governo come in Bolivia’’.

In Nicaragua i continui tentativi da parte del governo di mettere in discussione la quota del Pil destinata all’istruzione (il 6%, eredità del governo Sandinista) determinano periodiche rivolte studentesche, spesso represse violentemente, come è avvenuto il 12/12/2003.

In Messico da tempo la tattica dell’Eznl segna il passo, ma, in compenso, vi sono state importanti mobilitazioni studentesche e di lavoratori, l’ultima delle quali ha portato in piazza 200.000 persone il 28/11/2003 contro la privatizzazione dell’energia elettrica.

A questo quadro d’insieme mancano il Venezuela e il Brasile, di cui Progetto comunista ha spesso parlato. Le grandiose mobilitazioni popolari contro il tentativo di golpe in Venezuela, le occupazioni di terre, lo sciopero del pubblico impiego, il recentissimo sciopero negli stabilimenti della Ford, Mercedes, Volkswagen e Scania per aumenti salariali del 20% in Brasile ben si inseriscono nella situazione sopra descritta.

 

Alcune considerazioni conclusive

Gli elementi positivi sono molti, ed è opportuno evidenziarli: 1) la ripresa delle lotte coinvolge l’intero continente, anche molti Paesi piegati dalle più feroci dittature (con l’eccezione del Guatemala), 2) in alcuni Paesi queste lotte lambiscono il potere e si strutturano secondo le forme tipiche dei processi rivoluzionari: consigli di fabbrica e di quartiere, occupazione e autogestione delle fabbriche, confronto con lo stato e la repressione, 3) i settori in lotta tendono a unificarsi, a darsi obiettivi comuni, a cercare di paralizzare l’avversario coi metodi resi celebri dai piqueteros argentini: blocchi stradali, barricate, e con gli scioperi prolungati.

Permangono degli aspetti negativi, che sarebbe pericoloso sottovalutare: 1) l’inesistenza o l’insufficiente radicamento di organizzazioni rivoluzionarie in grado di portare i processi rivoluzionari alla vittoria e non al ripiegamento, seppur temporaneo, come è avvenuto in Argentina, Equador e Bolivia, 2) la persistente presa su consistenti settori di classe di organizzazioni sindacali e di partiti di sinistra più o meno tradizionali, ma tutti votati al compromesso con l’imperialismo, 3) la problematica mobilitazione della classe operaia. Come sempre nei periodi di forte crisi economica la classe operaia subisce più di altri settori proletari il ricatto padronale. Gli operai delle maquilas lavorano in deroga alle già scarse leggi vigenti nei Paesi che le ospitano, quelli delle altre fabbriche constatano la loro relativa e problematica fortuna rispetto alla disoccupazione montante e alla rovina della piccola borghesia (come è successo in Argentina). Più disponibile alla lotta è la classe operaia dei grandi stabilimenti delle multinazionali che, tuttavia, per ora stenta a mobilitarsi insieme ai lavoratori dei vari settori pubblici interessati alle privatizzazioni, agli studenti, ai braccianti, agli indios. Importanti eccezioni sono rappresentate dai minatori boliviani e dagli operai del settore petrolifero ecuadoriani.

La catastrofe economica dell’America Latina, che dopo la decada perdida degli anni ’80 ha visto la modesta crescita (accompagnata da un forte aumento della disuguaglianza) degli anni ’90 completamente vanificata nei primi anni del nuovo secolo, non lascia molti spazi a governi riformisti o progetti populisti guidati dalle borghesie nazionali. L’imperialismo, del resto, è ormai un tutt’uno con le borghesie nazionali, e detiene le leve fondamentali delle varie economie nazionali.

Il ciclo politico, altrettanto sincronizzato, vede l’ascesa, dopo il fallimento delle democraduras, di governi di ‘’centro sinistra’’ pro imperialisti, con una profonda cooptazione di settori dell’estrema sinistra (per esempio i sedicenti trotskysti nel PT brasiliano e i maoisti in Equador e Argentina). Un altro elemento che accomuna tutti i Paesi è il progetto neocoloniale dell’Alca, il mercato comune a guida Usa che minaccia la sopravvivenza di gran parte dei piccoli e medi produttori e comporta un ulteriore drenaggio di risorse dai Paesi più poveri. Contro questo progetto si sono mobilitati vari settori in più Paesi; in Brasile è stato organizzato da molte associazioni un plebiscito per respingerlo, ma la posizione del governo è di aprire una trattativa con gli Usa.

L’unica parziale eccezione è quella venezuelana, dove la profondità della crisi politica del precedente regime ha condotto a cambiamenti più profondi e a un, sempre precario, tentativo di diversa distribuzione dell’ingente rendita petrolifera. Un progetto instabile, che potrebbe portare a un nuovo compromesso con l’imperialismo, più favorevole ad alcuni settori di borghesia nazionale, a una radicalizzazione verso progetti più radicali a opera della mobilitazione di massa, o a una restaurazione sotto il tallone di ferro dell’imperialismo.

Sebbene con tutte queste difficoltà l’America Latina serba in sé un patrimonio di contraddizioni, di tradizioni di lotte, di influenza dell’internazionalismo, del marxismo e, seppure in settori ancora limitati, del marxismo rivoluzionario, che non ha uguali in altri continenti.

Le illusioni riformiste degli ex Pc e del Movimento, che vedono in Lula, Gutiérrez, Chàvez e Kirchner un nuovo progetto continentale progressista e antimperialista, magari con la contrapposizione all’Alca di un nuovo Mercosur, sono smentite dalla realtà dei fatti: la stabilizzazione appare oggi decisamente improbabile: più facilmente nei prossimi anni in America Latina ritorneranno a confrontarsi, con la consueta brutalità, rivoluzione e repressione.