Irak: la crisi della strategia imperialista statunitense

 

di Alberto Airoldi

 

‘’Prima dovevamo preoccuparci di un solo ladro, Saddam Hussein, ora ne abbiamo 25!’’. A parte il piccolo particolare che sono 24, dopo l’attentato che è costato la vita ad Akila al-Hashimi, l’unica ex baathista presente nel governo provvisorio, questa disincantata battuta che gira in Irak rappresenta efficacemente quanto scarse illusioni gli irakeni si facciano rispetto all’occupazione imperialista.

Gli esponenti dell’imperialismo e i loro apologeti, nelle varianti di destra, di centro o di sinistra, ignorano sempre il fatto che anche il peggiore dei regimi si regge su una base di consenso: difficilmente, se non in casi estremi e in prossimità della sua caduta, governa col puro terrore. Fingono inoltre di non sapere che la loro democrazia è più che altro un’arma propagandistica che, nelle condizioni dei Paesi ai quali la si vuole imporre, non ha praticamente significato alcuno.

Gli irakeni stanno pertanto imparando sulla propria pelle che la democrazia imperialista per loro significa la miseria e la criminalità diffuse delle favelas del ‘’terzo mondo’’ insieme all’espropriazione delle principali risorse del Paese, con conseguente razionamento della benzina e code sconosciute anche nei Paesi governati dalle più inefficienti burocrazie staliniste. Questo si unisce all’umiliazione di vedere il proprio Paese, le proprie usanze e credenze quotidianamente calpestate e vilipese da un esercito occupante, che non si fa scrupoli di perquisire e devastare abitazioni civili, arrestare e fare scomparire persone, sparare all’impazzata fra la folla.

 

Le guerriglie irakene

In questa situazione una condanna tout-court del terrorismo equivarrebbe, per esempio, a condannare l’azione dei GAP durante la Resistenza italiana. E’ necessario ricordare che il terrorismo è solo un metodo, utilizzato da che mondo è mondo in contesti e da soggetti diversissimi tra loro. Questo non significa ritenere utili e sensate tutte le azioni sviluppate dalle guerriglie irakene, ma solamente riconoscere il sacrosanto diritto di un popolo a resistere a un’occupazione militare straniera, peraltro illegittima pure dal punto di vista del diritto internazionale borghese vigente, con le forme di lotta che ritiene più opportune sul proprio suolo nazionale.

I marxisti rivoluzionari non possono che essere solidali con chi prende le armi per cacciare le truppe imperialiste d’occupazione, anche se questo non implica dover assumere un atteggiamento acritico, facendosi abbacinare dall’antimperialismo di forze anticomuniste, oscurantiste, legate alle più retrive borghesie nazionali. Il fronte unico con tutte le forze della resistenza, per i comunisti irakeni, dovrebbe essere strettamente sul terreno militare, senza alcuna illusione o subalternità politica.

Il grosso della resistenza armata è attualmente guidato da quadri del disciolto partito Baath, il partito di Saddam Hussein. L’arresto del dittatore, al di là delle dubbie circostanze che lo hanno caratterizzato, non modifica sostanzialmente la situazione: i baathisti per ora sanno di avere tutto da perdere da una stabilizzazione dell’Irak sotto un nuovo regime e che le contraddizioni sulle quali fare leva per continuare la guerriglia sono consistenti e potenzialmente crescenti. Vi sono anche gruppi di resistenti non legati al Baath: sciiti, comunisti fuoriusciti dal Pc al governo e militanti del Partito Comunista dei Lavoratori. Gli attentati si intensificano anche in zone lontane dal cosiddetto triangolo sunnita. Vi sono inoltre militanti stranieri, provenienti da altri Paesi con l’obiettivo di combattere contro gli USA. L’unico elemento in comune è la lotta contro l’invasore e i suoi collaboratori: allo stato attuale sembra che nessuno sia in grado di prospettare alla popolazione un progetto politico.

 

L’inesistente consenso al governo collaborazionista

Il 10 dicembre i partiti del Consiglio governativo hanno indetto una manifestazione contro il terrorismo: avrebbe dovuto essere di massa e per questo erano state anche chiuse le scuole. Il risultato sono state non più di 5.000 persone, tra le quali spiccava l’assenza delle organizzazioni sindacali, vittime di diverse azioni repressive da parte dei militari statunitensi, nonostante il loro esplicito ripudio del terrorismo. Una cooperante di una Ong, l’Occupation Watch, racconta di un corteo un po’ surreale, aperto da qualche ministro, colorato dalle bandiere rosse di circa 300 militanti del PC al governo (l’unico a mostrare una visibile presenza femminile), dal verde degli sciiti di Al Sadr, poco affollato dai militanti sciiti moderati e governativi dello Sciri e del partito per la democrazia, e rimpolpato da consigli municipali, gruppi religiosi, associazioni di artisti, associazioni per i diritti umani, ecc. Gli striscioni e gli slogan non erano ovviamente solo contro Saddam Hussein e a favore degli occupanti: invitavano piuttosto gli americani a tornarsene a casa. Molti dei presenti criticavano gli attentati indiscriminati contro civili irakeni e contro le infrastrutture del Paese. Insomma: i collaborazionisti non solo non sono riusciti a portare più di 5.000 persone, ma non sono neppure riusciti a egemonizzare la manifestazione. Il movimento sciita radicale di Al Sadr, per esempio, ha subito pesantemente la repressione statunitense, e se oggi critica il terrorismo che colpisce i musulmani, dichiara anche di avere formato un governo parallelo. Il governo ufficiale, peraltro, è scopertamente un fantoccio, senza un minimo di autonomia, e risente della paralisi del processo di ricostruzione: la ricostruzione di strade e i ponti, per esempio, non è ancora praticamente incominciata.

 

I fronti aperti per gli occupanti

A sette mesi dalla vittoria militare gli occupanti si trovano a doversi muovere in un Paese che non controllano, incapaci di fornire la parvenza di un governo. Gli stessi pozzi petroliferi e oleodotti non sembrano essere particolarmente al sicuro, se è vero che hanno subito finora ben 84 azioni di sabotaggio: pare incredibile che gli USA non riescano nemmeno a difendere il petrolio!

Le leggi emanate rispondono perfettamente agli interessi dell’imperialismo USA: privatizzazione completa delle risorse e controllo sugli investimenti stranieri. Tuttavia ci vuole pur sempre qualcuno che le possa fare rispettare, qualcuno dotato di un apparato repressivo in grado di controllare il territorio.

L’occupazione presenta oggi enormi problemi sia sul terreno politico, sia su quello strettamente militare. Sul primo versante gli USA non sono neppure in grado di rispettare le proprie leggi: un caso emblematico, oltre a quanto già descritto, è quello del risarcimento che dovrebbe essere garantito ai civili danneggiati da un comportamento improprio dei militari, ma che una intricatissima burocrazia riesce a vanificare completamente. Sul secondo versante, oltre al fronte della guerriglia, vi è un vero e proprio fronte interno: il giornale francese Le Canard Enchaine sostiene che già 1.700 soldati hanno disertato e che il servizio telefonico di sostegno legale per i militari è tempestato di chiamate (1). In marzo dovrà esserci l’avvicendamento, già rimandato sei mesi fa, e per garantire il contingente di 130.000 soldati sarà necessario ricorrere ai riservisti: i ‘’volontari’’ (in gran parte non feroci Rambo di carriera, ma disperati neri e latinos, senza futuro e spesso senza documenti) non bastano più. I 110.000 soldati in partenza saranno sostituiti per quasi il 40% da riservisti, che sono, già da ora, sempre più oggetto di attentati.

Si inserisce qui un terzo elemento che mostra l’instabilità della situazione: il fronte internazionale. Bush, mostrando una lucidità e una chiarezza di cui è priva gran parte della sinistra, ha spiegato che solo chi rischia la vita ha diritto alla ricompensa dei contratti (peccato che quelli che rischiano la vita e quelli che sono beneficiati dai proventi non siano mai le stesse persone). Il ricatto contro gli Stati contrari alla guerra è evidente. Questi Paesi imperialisti concorrenti replicano non cancellando i crediti che vantano con l’Irak (e che andrebbero onorati) e non inviando i loro militari: il calcolo è sul logoramento progressivo degli USA nella trappola irakena.

L’imperialismo italiano, come sempre, ha assunto una posizione di basso profilo: mantiene i suoi soldati a Nassiriya a presidio dei futuri investimenti dell’Eni (2), attende di partecipare alla spartizione della torta di 18,6 miliardi di dollari delle commesse e incassa, per ora, un po’ di cordoglio e unità nazionale quando la resistenza irakena diversifica i propri attentati anche sugli alleati degli USA.

Il bilancio della politica dei neoconservatori sembra dibattersi in un grave impasse: ha prodotto il massimo di divaricazione con le altre potenze imperialiste e con le borghesie arabe, ha accresciuto il sentimento di avversione nei confronti degli USA nel mondo, ha impegnato una quantità incalcolabile di uomini e risorse su un solo fronte senza riuscire a stabilizzarlo. In Irak la ‘’pacificazione’’ potrebbe passare attraverso la formazione di uno Stato Kurdo-statunitense nel nord petrolifero. Contro questo progetto stanno manifestando in questi giorni le minoranze presenti del Kurdistan irakeno. Questa soluzione, che metterebbe forse in salvo gran parte del petrolio, sommerebbe nuovi e vecchi elementi di instabilità in un’area che si voleva mettere definitivamente sotto il controllo dell’imperialismo. La via dell’escalation militare, con l’attacco ad altri Paesi, è giudicata rischiosa, la via del disimpegno, affidando la gestione dei propri interessi ad alcune delle fazioni che si disputeranno il controllo del territorio è a breve equiparabile a una fuga disonorevole. La presidenza Bush e il governo della sua lobby sono probabilmente più instabili di quel che mostrano i sondaggi.

 

 

(1) J.A. Manisco, "Io non ci torno. Fuga dall’Irak", Il Manifesto, 12/12/03, S. Chiarini, "Irak, scontri e morti a Kirkuk", Il Manifesto, 2/2/04.

(2) Attraverso la Saipem, già presente prima della guerra. Altre società interessate alle commesse sono la Trevi e la Impreglio.