La
nonviolenza e la rifondazione comunista
di
Ruggero Mantovani
Il
dibattito sulla nonviolenza, sia nei suoi aspetti contingenti che nelle sue
implicazioni strategiche, rappresenta indubbiamente un tassello centrale della
costruzione della rifondazione comunista e del suo rapporto con il conflitto di
classe.
Una
questione che in particolare dal V congresso del Prc si è imposta, sullo sfondo
degli avvenimenti nazionali e internazionali,
sia nel confronto interno al partito e sia nelle relazioni con il movimento antiglobal.
Il
tema è tornato d’attualità per un articolo scritto da Revelli sul periodico Carta, in cui in una sorta di epistolario mass mediologico con
Fausto Bertinotti, il gotha della nonviolenza ideologica chiedeva al segretario
del Prc uno strappo definitivo dalla politica come “espressione della forza”
e da un’idea "novecentesca" della vittoria e della “presa del
potere”.
La
risposta non si è fatta attendere.
In
un articolo apparso su Liberazione (30
novembre 2003), Bertinotti nel rivendicare che la nonviolenza sia “la
condizione essenziale per portare alla luce e far vivere la radicalità”,
sottolineava che le sue implicazioni strategiche presuppongano “l’assenza
della conquista del potere”, così da estirpare alla “radice una modalità
di comportamento di tanta parte del 900”.
Un
tema né nuovo né tanto meno improvvisato, che malgrado abbia trovato una sua
specifica ed espressa articolazione al V congresso, rappresenta un aspetto
centrale sia teorico e sia di prospettiva politica di una rifondazione comunista
che in questi anni, nonostante gli aspetti simbolici ed emotivi (tra l’altro
sempre meno presenti!), si è costruita amputando qualsivoglia legame politico e
programmatico con il marxismo conseguente, e con il bolscevismo che di quella
storia e tensione ideale n’è stato innegabilmente il diretto traduttore.
Da
questo versante, le implicazioni strategiche che attengono alla questione della
nonviolenza rendono assolutamente priva di interesse analitico una discussione
astratta e speculativa, che tende a formulare concetti ed idee in assenza di una
base storica e materiale. E proprio la condizione di classe del proletariato e
dei ceti subalterni, da sempre vittime della violenza organizzata delle classi
dominanti, ha fatto dell’aspirazione alla pace, e ad un mondo senza armi, un
tratto distintivo della lotta dei comunisti, che da Marx a Lenin presuppone la
costruzione del socialismo quale unico ordine sociale che può tradurre in realtà
un’aspirazione ideale.
D'altronde
tutta la storia del movimento operaio internazionale nei suoi snodi essenziali,
ha costantemente registrato proprio sulla questione della guerra una frattura
insanabile tra i rivoluzionari e i riformisti: tra chi ha ritenuto e ritiene che
le guerre sono l’espressione della politica armata del capitale e solo una
lotta per il socialismo può salvare le masse popolari da ulteriori massacri; e
chi (dalla socialdemocrazia della II internazionale che votò i crediti di
guerra, per giungere alla mistica bertinottiana sulla nonviolenza), ritiene,
elogiando l’utopia riformista, di allargare e rendere democratiche le
istituzione borghesi, magari sul modello partecipativo di Porto Alegre.
Da
questa prospettiva la guerra, privata della sua base di classe, rappresenta
“la corda profonda della modernizzazione versus modernità” (1), e la nonviolenza anche nei suoi aspetti sacrificali (come nel
decantato martirio dei corpi alle manifestazioni contro il G8 a Genova),
l’antidoto ad una globalizzazione non democratica.
Per
il neo-ghandismo bertinottiano, solo nel Novecento (in cui la predominanza degli
Stati nazionali aveva il monopolio della violenza) le forme di violenza espresse
dagli oppressi: nella lotta contro il colonialismo (la battaglia di Algeri), con
le rivoluzioni (esperienza cinese e cubana) e con la guerriglia (come nel caso
del Vietnam), potevano essere “storicamente giustificabili”.
Ma
in una fase capitalistica, in cui strutture soprannazionali si sarebbero
sostituite agli Stati nazionali creando un nuovo governo imperiale del mondo,
contro la politica e la democrazia (non importa agli esegeti del neo ghandismo
che sia di natura borghese), la nonviolenza rappresenterebbe una mossa di
spiazzamento dell’avversario per uscire dalla spirale della barbieria della
globalizzazione. Un nuovo capitalismo cui, secondo questa impostazione, non
interesserebbero più tanto gli obbiettivi tradizionali di “occupare un dato
territorio per sfruttare la forza lavoro e per rubare materie prime”, come
nell’era dell’imperialismo, ma i nuovi padroni sarebbero interessati ad
impossessarsi della vita vegetale, animale e umana per poi mercificarla.
Se
si passa dalla mitologia alla realtà, la guerra in Irak, e prima ancora in
Afganistan e in Kossovo, hanno smentito clamorosamente l’ideologia
bertinottiana di un impero indistinto e globalizzato, riproponendo nella sua
attualità il ruolo ineliminabile dello stato nazionale quale gendarme del
capitale. Tanto più oggi, la globalizzazione non è rappresentabile come quadro
dell’economia mondiale, ma quale effetto naturale della restaurazione
capitalistica dopo la caduta del muro di Berlino, privando d’ogni base reale
sia la mitologia bertinottiana dell’impero, che le fantasie del campismo
neo-togliattiano. Si ripropone, nel quadro mondiale, la politica di terrore e
barbarie dell’imperialismo, con le ingenti concentrazioni monopolistiche, le
speculazioni finanziarie, il riavvio delle politiche neo-coloniali e della
guerra imperialista per il saccheggio dei Paesi dipendenti. E proprio la guerra,
al di là d’ogni sua rappresentazione idealistica, mostra il carattere
imperialista dell’Unione Europea, che lungi dall’essere una semplice area di
dipendenza del capitalismo nord americano, a-democratica e liberista, cui
contrapporre una nuova Europa sociale, si candida ad essere un polo concorrente
agli USA che rivendica la spartizione del bottino dopo la guerra in Irak, ed
invoca la costruzione di un esercito europeo quale strumento fondamentale per
competere nella divisione delle nuove colonie del mondo.
Un
quadro reale dell’economia mondiale, e delle sue politiche di terrore e
barbarie, che oggi come ieri impone ai comunisti la necessità del superamento
del sistema capitalistico, che non essendo realizzabile attraverso un processo
graduale, presuppone un’oggettiva contrapposizione di poteri, che in un dato
momento storico sono espressi dalle classi, il cui esito è inevitabilmente la
rottura con l’ordine esistente. Ma tutto questo può avvenire solo attraverso
un processo rivoluzionario, che sviluppando forza e potere delle classi
subalterne, produce in prospettiva l’abbattimento dei vecchi rapporti di
produzione.
La
violenza di cui parla Karl Marx, definendola, nel I volume del Capitale,
la levatrice di una nuova società di cui è gravida quella preesistente, ha
anzitutto un contenuto oggettivo: la violenza è rappresentabile come strumento
interno alla storia civile e umana, che tende all’abbattimento degli antichi
rapporti di produzione. La violenza per il marxismo non ha a che fare con il
terrorismo, che non avendo una politica di massa, è un fenomeno storicamente
contro-rivoluzionario e che spesso ha dimostrato di essere il volto velleitario
del riformismo. Ha anzitutto a che vedere con le forme di tutela collettiva
dello sviluppo dei movimenti di massa e del conflitto di classe, dello sviluppo
della trasformazione e della costruzione del socialismo nel momento in cui
l’ordine capitalistico, gravido delle contraddizioni, reagisce con la violenza
organizzata allo sviluppo sociale. Ed è in questo senso che la nonviolenza
assume una connotazione che mina la lotta per la conquista del potere dei
lavoratori, le forme più elementari di auto-tutela (come ad esempio i servizi
d’ordine), e in definitiva la stesa lotta di classe. La nonviolenza finisce
per escludere, paradossalmente, la stessa lotta per le riforme, che come la
storia ha ampiamente dimostrato durante il tanto vituperato 900, sono state
l’effetto di lotte rivoluzionarie in cui, come direbbe il vecchio Marx, si
sono rimessi in discussione rapporti di produzione.
In
effetti, sarebbe stato possibile lo Statuto dei lavoratori in assenza
dell’autunno caldo del 1969? Sarebbe stata possibile una scolarizzazione di
massa senza le rivolte studentesche del 1968? Sarebbe stato possibile la
conquista di diritti civili e democratici -divorzio, aborto, chiusura dei
manicomi e delle centrali nucleari- senza le grandi mobilitazioni che
attraversarono gli anni settanta e i primi anni ottanta?; che anche una
spicciola cronaca storica di quegli avvenimenti dimostra che non hanno avuto a
che fare con la “passività” della nonviolenza, ma viceversa con la
partecipazione che si è espressa anche con forme di resistenza “attiva”
(picchetti, ecc), rese legali dal mutato rapporto di forza e di potere.
Chi
vuole il fine deve anche volerne i mezzi, così scriveva Antonio Gramsci durante
il Biennio Rosso, spiegando che i "socialisti rivoluzionari vogliono la
pace. Certamente.(…) Tra la violenza dei socialisti rivoluzionari e la
violenza dei borghesi esiste questa diversità: la violenza borghese è
illimitata e determina sempre nuove condizioni di violenza; perché è violenza
di pochi contro la strabocchevole maggioranza del popolo lavoratore (…) la
violenza dei socialisti rivoluzionari è transitoria, perché della maggioranza
strabocchevole contro pochi".
Ed
è ancora Rosa Luxemburg, in La violenza:
legge suprema della lotta di classe (1902), a spiegare che "la storia
di tutte le rivoluzioni del passato ci mostra che lungi dall’essere un
prodotto arbitrario e cosciente dei capi o dei partiti, trova la loro origine
nella natura di classe della società moderna (…) in altre parole: eliminando
la rivoluzione dalla lotta di classe proletaria, i nostri opportunisti vengono
al tempo stesso a decretare né più né meno che la violenza ha cessato di
essere un fattore della storia moderna (…) l’intero stato capitalista riposa
sulla violenza, e ne è di per sé una prova sufficiente e patente la sua
organizzazione militare".
E’
questo il patrimonio teorico e programmatico di un’autentica rifondazione
comunista, che seppur con le dovute riattualizzazioni, malgrado Ghandi e
Bertinotti, ritiene, senza alcuna predilezione per la violenza e rigettando da
sempre fughe avventuristiche ed estremistiche, che solo l’alternativa
socialista possa garantire una reale emancipazione delle masse popolari. Un
obiettivo che non ha nulla a che fare con una pratica di “aspettazione
passiva”, funzionale se mai al nuovo accordo con le forze uliviste, ma non
certamente alla costruzione di un partito, che tanto più oggi, è lo strumento
necessario per ricostruire la rappresentanza politica e sociale del movimento
operaio.