AFGHANISTAN: UN'ALTRA GUERRA IMPERIALISTA

 

INTRODUZIONE

Mentre scriviamo (24-11-01) la guerra in Afghanistan è a un punto cruciale. La sconfitta dei talebani iniziata con la presa di Mazar-i-Sharif da parte delle truppe dell’Alleanza del nord pare ormai consolidata. Certo la guerra non è terminata. Nel nord sta cadendo Kunduz mentre resiste nel sud Kandahar e una vasta regione in quell’ambito geografico-etnico; la prospettiva della continuazione di una guerriglia sui monti rimane aperta. Tuttavia, di fronte allo sviluppo reale degli avvenimenti, ogni argomentazione su “ritirate strategiche” o “trappole dei talebani” appaiono ormai senza fondamento alcuno. I talebani pagano la debolezza della loro base sociale, il carattere oppressivo del loro regime, il suo carattere etnico (Pashtun). Naturalmente anche i bombardamenti occidentali hanno indebolito le loro forze (anche se probabilmente meno di quanto non affermino i sostenitori della guerra imperialista e, in ogni caso, soprattutto quelli sulle linee militari, ad ulteriore dimostrazione del carattere cieco e criminale dei bombardamenti d’alta quota, vero e proprio strumento di terrorismo nei confronti della popolazione). Ma, soprattutto, ha contato il fatto che la Russia ha, con ogni evidenza, armato (direttamente o tramite i suoi satelliti dell’Asia centrale), con armamento pesante (carri armati e artiglieria), le forze dell’Alleanza del nord.

 

Un successo dell’imperialismo

La caduta di un regime reazionario, oppressivo (in maniera particolare verso le donne e le minoranze nazionali) e oscurantista è certamente, in astratto, un fatto positivo, ma nella concreta situazione della presente guerra rappresenta un successo per l’imperialismo; ciò che per i rivoluzionari e per lo sviluppo della lotta di classe internazionale costituisce l’elemento principale. E’ questo il motivo per cui, come marxisti rivoluzionari internazionalisti – e internazionalmente organizzati – ci siamo pronunciati non solo contro la guerra (come i pacifisti “puri” della maggioranza del nostro partito e del movimento antiglobalizzazione) ma abbiamo sottolineato il suo carattere imperialista e la necessità di posizionarsi, nonostante la natura reazionaria del talebani, dalla parte dell’Afghanistan e per la sconfitta della coalizione capeggiata dagli Usa.

E’ quanto viene affermato e argomentato nei due documenti che presentiamo in questo numero della rivista. Il primo è la dichiarazione della nostra Associazione marxista rivoluzionaria, elaborato nei giorni immediatamente successivi all’inizio della guerra. Il secondo è il documento elaborato dal Comitato di coordinamento del Movimento per la rifondazione della Quarta Internazionale, riunitosi a Roma nei primi giorni di novembre; prima cioè della svolta della guerra. Ad essi rimandiamo per lo sviluppo della nostra argomentazione sulla questione centrale su indicata, che differenzia il marxismo rivoluzionario da tutte le altre forze, contrarie alla guerra ma incapaci di esprimere una posizione collocata nel quadro di un ragionamento complessivo sugli interessi della rivoluzione socialista e della lotta di classe del proletariato sul piano internazionale.

In questo quadro abbiamo voluto anche pubblicare un documento di polemica contro una delle posizioni inconseguenti – “opportuniste” – presenti nella sinistra. Riproduciamo quindi un testo del compagno Mohamed K., militante della Lega comunista rivoluzionaria (Lcr) francese, la sezione del cosiddetto Segretariato Unificato della Quarta Internazionale, corrente revisionista del trotskismo (rappresentata in Italia da “Bandiera rossa”). Il compagno, che non è militante della nostra corrente internazionale, ma è politicamente vicino alle sue posizioni programmatiche, polemizza contro la posizione della Lcr sulla guerra, centrata intorno alla parola d’ordine “Ni talibans, ni bombardements” (né talebani, né bombardamenti). Posizione che è grosso modo analoga a quelle sostenute dalla maggioranza del movimento contro la guerra (e del Prc) nel nostro paese e che riecheggia l’egualmente erroneo “Né con la Nato, né con Milosevic” dell’epoca della guerra contro la Jugoslavia.

 

Le prospettive per l’Afghanistan oggi

Naturalmente i tre testi qui pubblicati si riferivano alla situazione precedente il tracollo dei talebani alla metà di novembre. Oggi è nostra opinione che le posizioni da assumere da parte dei rivoluzionari debbano adattarsi alla nuova situazione. Infatti la nostra posizione (e proposta politica) non va confusa con una “difesa dei talebani” (così come rispetto alla Jugoslavia in guerra non eravamo “per Milosevic”). Essa si è sempre basata su una concezione di “difesa incondizionata dell’Afghanistan”. Nella misura in cui esso e le sue forze militari erano rappresentate dalle milizie (o dall’esercito) dei talebani era doveroso per ogni rivoluzionario sostenerle nella loro difesa concreta del paese contro l’imperialismo. Continuando tuttavia anche durante la guerra la lotta per l’abbattimento del regime del mullah Omar con la prospettiva – per usare i termini del documento del Comitato di coordinamento del Movimento per la rifondazione della Quarta Internazionale – di un “governo operaio e contadino”.

Oggi l’Afghanistan non è più quello dei talebani e non avrebbe senso una difesa di quel che resta di loro e del loro potere contro le forze afghane contrapposte, pur continuando a condannare l’azione degli imperialisti e l’alleanza con essi delle forze antitalebane. Il centro di un’azione dei rivoluzionari nel nuovo Afghanistan dovrebbe essere lo sviluppo della lotta per i più ampi diritti democratici e sociali, sempre nella prospettiva di un governo operaio e contadino. Alle obbiezioni, marcate da un po’ di “paternalismo” da “occidente civilizzato”, secondo cui questa prospettiva non terrebbe conto della realtà sociale dell’Afghanistan, rispondiamo che, pur essendo evidente l’arretratezza sociale ed economica di questo paese (ed in particolare l’assenza di un proletariato industriale di una qualche rilevanza), non c’è nulla di oggettivo che renda impossibile una tale prospettiva. C’è un esempio storico che lo dimostra: è quello dell’Afghanistan stesso.

 

La rivoluzione degli anni Settanta

Contrariamente alle continue sommarie ricostruzioni giornalistiche, infatti, l’avvenimento che determinò l’aprirsi della crisi afghana  alla fine degli anni Settanta non fu un’improvvisa invasione sovietica, ma un processo rivoluzionario. Quello che nell’aprile 1978 portò al potere il Partito democratico del popolo afghano (Pdpa), formazione nazional-stalinista. Il processo rivoluzionario, sostenuto dai lavoratori (prevalentemente pubblici) e dalla gioventù delle città, fu un fenomeno reale.

Purtroppo il Pdpa aveva la natura che abbiamo indicato. Diviso in due frazioni – Kalq (“Popolo”, più radicale e a base prevalentemente Pashtun) e Parcham (“Bandiera”, più moderata e basata essenzialmente sui tagiki e le altre minoranze) – esso passò rapidamente a risolvere i contrasti interni con la repressione e i plotoni d’esecuzione; mantenendo al contempo la rivoluzione limitata (“democratica e antifeudale”) e elitaria, senza una politica per coinvolgere realmente le masse. Nel 1979 l’esplosione dei contrasti all’interno della stessa frazione Kalq, portò i suoi due leaders Taraki e Amin a confrontarsi militarmente, con l’uccisione del primo da parte del secondo. La politica di Amin provocò la reazione dell’Urss la quale (timorosa della vittoria delle forze islamiste che avevano lanciato la guerriglia contro il nuovo regime) rispose con l’intervento militare, la liquidazione fisica di Amin e la concessione del potere alla frazione Parcham con i suoi leaders Babrak Karmal e Najibullah.

La presenza russa non poteva naturalmente che indebolire il governo progressista e tuttavia che non si trattasse di puri pupazzi nelle mani dei russi senza alcuna base sociale è dimostrato dal fatto che il regime diretto da Najibullah ha resistito per tre anni – dall’1989 al 1992 – dopo il ritiro dei sovietici, riuscendo nel 1991 a riconquistare ai mujaiddin (finanziati e armati dagli Usa e appoggiati dai pachistani) Jalalabad, liberata tra la gioia di una grande folla. La stessa caduta del regime nel 1992 fu affrettata, se non causata, solo dal tradimento di Dostum che, fiutando la situazione, passò con le sue truppe dalla parte di Massud e Rabbani.

La storia non si fa con i se, ma non ci pare peregrino ritenere che, se al posto del Pdpa nazional-stalinista ci fosse stato un partito realmente comunista gli eventi avrebbero potuto essere diversi.  Un tale partito avrebbe logicamente risolto i suoi conflitti col dibattito democratico interno, avrebbe coinvolto i settori di massa più ampi possibili con la costituzione di un potere dei consigli di lavoratori, soldati, studenti e contadini. Avrebbe aperto un processo di transizione al socialismo legandolo alle prospettive della rivoluzione internazionale. Sulle basi di una politica sociale di radicale trasformazione, ma legata alla mobilitazione delle masse, senza certo ricorrere al diretto intervento straniero, avrebbe potuto battere la reazione islamista. E forse oggi la bandiera rossa (che anche il Pdpa, pur negando a parole e nei fatti di voler costruire il socialismo, aveva scelto come emblema nazionale) sventolerebbe ancora su Kabul. Ricordare ciò è utile non per giocare con la storia, ma per costruire il futuro a partire dal bilancio del passato.

 

No all’intervento imperialista, sotto qualsiasi forma

Certamente oggi la situazione afghana sconta una sconfitta catastrofica per la sinistra e le masse. Sconfitta che dovrebbe far riflettere quelle forze, maggioritarie nell’estrema sinistra e addirittura tra quelle che si richiamano – il più delle volte indebitamente – al trotskismo, che, partendo dal carattere di politica di potenza dell’azione dell’Urss e in nome di malcompresi principi “democratici”, rigettarono l’un contro l’altro, nella guerra civile del 1978-92, le forze islamiste e quelle del governo “progressista” e dell’esercito dell’Urss, o addirittura si schierarono a favore delle prime (da questo punto di vista ci pare che la storia abbia confermato pienamente le posizioni della nostra corrente che sostenevano la necessità di un appoggio, nella guerra civile, alle forze del Pdpa e dell’esercito dell’Urss; ponendo contemporaneamente la necessità della rottura con la politica e i metodi dello stalinismo e del nazionalismo piccolo-borghesi e della costruzione di un vero governo operaio e contadino, come condizione per lo sviluppo della rivoluzione e la sconfitta della reazione).

Ma malgrado tale disastrosa sconfitta le esigenze e, malgrado tutto, le condizioni sociali per un’alternativa esistono. Solo un governo “operaio e contadino” potrà un domani stabilizzare su basi progressiste l’Afghanistan. E’ questa l’alternativa che bisognerà cercare di costruire nel tempo.

Non è un’alternativa l’Onu e la comunità internazionale imperialista. Questa posizione invece è molto presente nella sinistra italiana e, in fondo, tende ad essere quella della maggioranza del Prc. Partendo dalla giusta valutazione del carattere reazionario di tutte le principali forze in campo e dall’impossibilità di una stabilizzazione progressiva del paese da parte loro, si giunge a fare appello ai “carabinieri” internazionali. Come sul piano nazionale anche, e ancora più, sul piano internazionale, l’appello alle istituzioni di governo e militari della società capitalistica è assolutamente sbagliato e negativo.

L’Onu (struttura che, ricordiamolo sempre, ha deciso e mantiene l’embargo genocida e terrorista contro il popolo dell’Irak) non rappresenta che la copertura “democratica” della politica imperialista. Se il suo intervento fosse limitato non cambierebbe niente rispetto alla situazione (si pensi alla Bosnia), se fosse significativo esso non sarebbe altro che la copertura legale di uno stretto controllo e dominio imperialista, che non potrebbe che provocare – e giustamente – la reazione di una parte significativa del popolo afghano.

No, ancora una volta solo l’alternativa socialista, per quanto difficile sia, è l’unica soluzione positiva di fronte a questo quadro di crisi drammatica. Noi pensiamo che sia necessario oggi per i rivoluzionari afghani, con l’appoggio con l’avanguardia operaia e antimperialista di tutto il mondo, lottare per il ritiro di tutte le forze militari straniere dall’Afghanistan (di terra, di cielo, americane o di altri paesi, Nato o no che siano, dell’esercito o dei servizi segreti o di qualsiasi altra agenzia imperialista). Indicare la necessità che siano le masse afgane e non altri a battere definitivamente i talebani, attraverso la costruzione di milizie popolari democraticamente organizzate. Lottare per i pieni diritti di organizzazione politica e sindacale e la convocazione in tempi rapidi di una vera assemblea costituente (contro ogni ristrutturazione del potere sotto controllo dell’imperialismo); per i pieni diritti delle donne come questione centrale per il futuro dell’Afganistan; per la separazione tra stato e religione. Partendo da questi obbiettivi e legandoli ad altri con una tematica transitoria la sinistra afghana potrebbe porre in concreto la prospettiva di lotta per quel “governo operaio e contadino” cui fa riferimento la nostra risoluzione internazionale.

 

Lo stato della sinistra afghana

La sinistra afgana non è puramente scomparsa, essa esiste nel paese (dove è vissuta nella clandestinità sotto il regime talebano) tra i profughi e nell’emigrazione. Certo essa è molto debole, la confusione politica tra le sue forze non è superata e il bilancio del fallimento del regime del Pdpa non è tratto coerentemente. La frazione Parcham sembra ormai disciolta anche se diversi suoi quadri sono presenti tra i comandanti delle forze dell’Allenza del nord, forse con qualche elemento di collegamento tra loro (non pensiamo tanto a quel losco figuro di Dostum e alle sue truppe uzbeke, che pure hanno quella provenienza, quanto a chi è inserito tra le forze tagike che hanno conquistato Kabul). La frazione Kalq pare aver mantenuto una forma di organizzazione almeno all’estero (mentre, approfittando della loro nazionalità pashtun, pare che diversi quadri militari “kalqi” rimasti in patria abbiano praticato un inaccettabile “entrismo profondo” nell’esercito talebano). Il Kalq in quanto tale ha espresso una posizione antimperialista, ma non pare trarre il bilancio del passato e oggi sembra che si prepari a lasciarsi invischiare in operazioni ambigue, in particolare intorno alla conferenza di Bonn e alla convocazione della Loja Jirga, la grande assemblea dei capi tribù che non è ovviamente una costituente democratica (a chi obbiettasse che non c’è tradizione di voto democratico rispondiamo che ogni “tradizione” ha un momento di nascita e che, in ogni modo, prima degli anni Settanta, si sono svolte in Afghanistan delle elezioni almeno formalmente “libere” in cui il Pdpa ottenne una presenza parlamentare).

Infine le forze di origine maoista giungono al punto – nel nome del “male minore” – di appoggiare l’ipotesi del ritorno del re, proprio in riferimento al periodo di formale democrazia degli anni Sessanta (va considerato che anch’esse hanno una composizione prevalentemente pashtun). E’ questa matrice politica che spiega la posizione errata del gruppo dirigente di un’organizzazione che, per altri versi, ha sviluppato, sul suo terreno specifico, un’azione positiva, cioè l’Organizzazione rivoluzionaria delle donne afghane (Rawa). Essa trae origine da una corrente che negli anni Ottanta partecipò alla guerriglia contro il regime del Pdpa a fianco degli islamici, il che non impedì ai più reazionari tra loro (il partito di Hekmatyar) di assassinare alcuni dei dirigenti maoisti.  La proposta del ritorno del re è ovviamente inaccettabile in sé, ma anche perché è quella ad oggi più soddisfacente per l’imperialismo, in funzione del suo ruolo di controllo del paese.

 

Le prospettive oggi

Del resto il ritorno agli anni Sessanta, idealizzati, è in ogni caso un’utopia; perché quella situazione era resa possibile dal bilanciarsi del regime di Zahir Sha tra imperialismo e burocrazia sovietica, in un’epoca di sviluppo economico e non di crisi internazionale. La soluzione per l’Afghanistan non può trovarsi guardando al passato, né all’epoca della monarchia “liberale” né a quella del regime del Pdpa.

La nuova situazione creerà le condizioni perché i/le vecchi/e militanti della sinistra e forse nuovi settori intellettuali si pongano il problema di ricostruire un progetto politico rivoluzionario. Le forze marxiste rivoluzionarie internazionali potranno, come in altre occasioni storiche, aiutarli nella loro riflessione. Un ruolo importante può averlo – per la vicinanza geografica, la presenza dei rifugiati, i contatti già esistenti – il Partito del lavoro pachistano, organizzazione che si richiama al trotskismo (e con cui siamo in contatto, anche se non fa parte della nostra corrente internazionale). Esso dispone di una presenza abbastanza importante nell’avanguardia operaia e nei mesi scorsi ha realizzato diverse mobilitazioni, alcune con migliaia di partecipanti, al contempo contro l’intervento imperialista e contro la reazione fondamentalista.

In ogni caso, quali che siano i prossimi sviluppi, è essenziale che l’insieme dell’avanguardia internazionale continui la sua battaglia contro la guerra imperialista e le sue conseguenze, traendo anche dal bilancio della tragedia afghana le riflessioni utili a costruire, contro la barbarie capitalistica in tutte le sue forme, un progetto di nuovo mondo possibile: quello del socialismo internazionale.

Oltre i documenti a cui si è fatto riferimento pubblichiamo il testo di una dichiarazione diffusa dai nostri compagni della Trotskiyist League degli Usa il 21 settembre 2001. Ci pare un buon esempio del modo con cui cercare di intervenire verso i lavoratori e i giovani, in un momento e in un paese in cui la propaganda antimperialista era ovviamente estremamente difficile.


Dichiarazione del Comitato di coordinamento del Movimento per la Rifondazione della Quarta Internazionale

 

Contro l’aggressione imperialista, in difesa dell’Afghanistan oppresso e del suo popolo

La classe operaia internazionale deve lottare per la sconfitta dell’imperialismo mondiale

 

I - In difesa dell’Afghanistan

 

1. L’Afghanistan, uno dei paesi più poveri del mondo, è stato bersaglio di un bombardamento incessante ad opera delle forze alleate degli imperialismi inglese e americano. Sono stati uccisi migliaia di civili, e feriti molti di più. Il bombardamento ha fatto salire il numero dei rifugiati, da un milione e mezzo a due milioni e settecentomila e, se gli attacchi dovessero continuare nel periodo invernale, i rifugiati potrebbero salire a sei milioni e mezzo, ovvero la metà di tutta la popolazione afghana. Nell’inverno prossimo, se la guerra continuerà,  molti rifugiati moriranno per fame e stenti. Questo massacro viene perpetrato col sostegno di una coalizione di lacchè dell’imperialismo, da Arafat in Palestina e i governanti musulmani e arabi, fino al regime di Putin in Russia e alla burocrazia restaurazionista cinese.

 

2. Il congresso americano ha votato un mostruoso bilancio di guerra, di 344 miliardi di dollari, apparentemente per condurre la guerra al “terrorismo”. In realtà gli scopi dell’imperialismo sono:

·         intimidire e terrorizzare le popolazioni dei paesi semicoloniali, che raccolgono la stragrande maggioranza dell’umanità, vivono in condizioni inumane e hanno tutti i motivi per insorgere contro i loro sfruttatori imperialisti;

·         mettere le loro mani avide sopra le immense riserve di gas e di petrolio dell’Asia centrale;

·         soffocare l’eroica insurrezione del popolo palestinese contro gli oppressori sionisti, sia ricorrendo alla repressione che utilizzando la complicità dell’Autorità Palestinese;

·         mettere fine al movimento antiglobalizzazione, che è sfuggito al loro controllo nonostante tutti gli sforzi in senso opposto degli Organismi non governativi (Ong), come Attac e simili;

·         restringere i diritti democratici delle masse lavoratrici negli Stati Uniti e in Europa;

·         attaccare la lotta delle masse latinoamericane che si battono per la terra, il lavoro e la liberazione nazionale;

·         impiantare una stabile presenza militare nei confini dell’ex Unione Sovietica; e

·         annientare la più che probabile resistenza e le rivolte della classe operaia contro la restaurazione capitalista. 

 

3. Noi lottiamo contro l’imperialismo mondiale, per la sconfitta dell’imperialismo e la vittoria della nazione afghana. Ci rivolgiamo agli operai del mondo intero e alle loro organizzazioni di classe, ai partecipanti al movimento antiglobalizzazione e a tutti i movimenti democratici e antimperialisti, perché sostengano incondizionatamente la lotta nazionale dell’Afghanistan contro l’aggressione e l’oppressione imperialiste. Nessuno può restare neutrale quando la macchina da guerra più potente, dei paesi più ricchi del mondo, sta attaccando la miserabile popolazione di uno dei più poveri paesi dell’Asia e del pianeta intero. Si può conseguire la sconfitta dell’imperialismo soltanto con la mobilitazione della classe operaia mondiale, compresa, naturalmente, la classe operaia dei paesi imperialisti e le grandi masse oppresse del mondo.

 

 

II - Per un fronte unico militare con le forze armate dei Talebani. Nessun sostegno politico ai Talebani. Per un governo operaio e contadino.

 

4. La distruzione e l’assassinio sistematico delle masse in Irak, nell’ex Jugoslavia e ora in Afghanistan non si possono fermare con pie preghiere e appelli pacifisti per la fine della guerra. Le guerre sono parte integrante del capitalismo in decadenza, che costituisce il nemico principale della classe operaia mondiale e delle masse oppresse. Condanniamo il ruolo delle Nazioni Unite, che ha fiancheggiato l’imperialismo negli attacchi contro le masse in Irak, nei Balcani e ora in Afghanistan. Dobbiamo sconfiggere l’imperialismo sui campi di battaglia. Nei paesi imperialisti è necessario portare avanti l’agitazione contro il governo e la borghesia di ogni paese, quindi per il disfattismo rivoluzionario.

 

5. Consideriamo controrivoluzionaria l’idea che i lavoratori, a livello internazionale, devono mantenere l’“equidistanza” tra i Talebani e l’imperialismo. Per noi, quali che siano le divergenze politiche – e ce ne sono di enormi – i lavoratori del mondo intero e i rivoluzionari devono stare al fianco di coloro che si oppongono all’aggressione imperialista, senza riguardo alla natura politica della loro direzione attuale. Per questa ragione facciamo appello a un fronte unico militare con la milizia talebana. Nello stesso tempo un fronte unico è molto diverso dal sostegno politico, che non forniamo ai Talebani.

 

6. Per sconfiggere l’imperialismo è necessario far comprendere ai soldati degli eserciti imperialisti che il vero nemico è la classe capitalista dominante, che devono voltare le armi contro il nemico di classe, e mobilitare la classe operaia, i contadini poveri e le donne afghane, indipendentemente dai loro dirigenti tribali.

 

7. I Talebani sono stati creati dopo la sconfitta dell’esercito sovietico per rendere stabile l’Afghanistan nell’interesse dell’imperialismo. La loro ideologia consiste in una forma barbara di superstizione religiosa e di oppressione della popolazione afghana. In quanto tale, malgrado lo scontro oggettivo tra gli interessi dell’imperialismo e gli interessi nazionali del popolo afghano, questo conflitto non si potrà vincere, e non si vincerà, sotto la direzione dei clan nazionali afghani, come non ha mai avuto successo sotto la direzione della borghesia nazionale dei paesi semi-industrializzati dell’America Latina, l’Asia, l’Europa, o il Medio Oriente. La sola forza sociale che può rovesciare la dominazione imperialista, e di conseguenza sconfiggere l’aggressione imperialista, è la classe operaia mondiale. L’unico programma politico che può condurre la classe operaia e la lotta nazionale alla vittoria è il programma della rivoluzione proletaria.

 

8. Il movimento antiglobalizzazione si trova oggi di fronte una nuova sfida, che richiede il superamento della sua comprensione limitata dell’imperialismo. Non è più sufficiente lottare contro l’arricchimento della classe capitalista nei paesi imperialisti, contrapposto alla povertà delle masse nei paesi semicoloniali. E’ ora necessario sostenere la guerra contro l’imperialismo e i suoi lacchè e sviluppare una prospettiva politica di rivoluzione mondiale contro l’imperialismo.

 

9. I governi borghesi dei paesi oppressi, per quanto possano apparire rivoluzionari a un certo punto della loro lotta, hanno capitolato, nei momenti storici cruciali della lotta antimperialista. Solo un governo operaio e contadino è stato ed è capace di condurre la lotta contro l’imperialismo fino allo sbocco vittorioso. Solo un governo diretto dal proletariato potrà far convergere tutta l’energia della nazione e degli oppressi del mondo intero armando l’intera popolazione, sopprimendo i privilegiati abolendo la proprietà privata e il profitto, unendo tutta la popolazione, creando una solida base per la solidarietà rivoluzionaria internazionale di tutti i popoli oppressi. Tutto ciò costituisce una conditio sine qua non per la sconfitta dell’imperialismo.

 

10. In questa lotta facciamo appello alle masse per il rovesciamento dei governi che lavorano con l’imperialismo contro le masse afghane. Questi governi sono strumenti di oppressione contro le “proprie” masse. Per questa ragione facciamo appello alle masse perché rovescino l’odiato governo militare del Pakistan. 

 

 

III - Crisi politica internazionale e crisi storica del capitalismo: rifondare la Quarta Internazionale

 

11. Il colpo sferrato l’11 settembre non costituisce, naturalmente, la causa della crisi mondiale ma, al contrario, è determinato da questa crisi e ora l’interseca causando un’accelerazione della depressione mondiale. Il fattore principale della crisi internazionale è costituito dal rallentamento dell’economia americana a partire dalla fine del 2000, dopo lo scoppio della bolla finanziaria, particolarmente nel settore high-tech della cosiddetta “nuova economia”. Il più importante tratto distintivo della crisi  attuale è la presenza di un crollo sincronico, un “affondamento sincronico” dell’economia nell’America del Nord, in Europa e in Giappone. Il Giappone, attualmente in una recessione alla quale non si vedono soluzioni, si trova di fronte a un peggioramento della crisi dovuta all’insolvenza, che minaccia di far collassate l’intero sistema bancario. L’industria manifatturiera europea è nel bel mezzo o sull’orlo di una recessione, e gli Stati Uniti hanno cercato di prevenire una recessione a tutto campo facendo ricorso alla fiducia dei consumatori, svanita dopo l’11 settembre. L’ultima volta che i paesi imperialisti hanno dovuto affrontare una recessione comune è stato durante la “crisi petrolifera” del 1973. Ma il carattere specifico di quella congiuntura era diverso dall’attuale. La precedente recessione aveva la sua origine nel collasso degli accordi di Bretton Wood siglati nel dopoguerra, la trasformazione del lungo boom del dopoguerra in una crisi senza precedenti di sovrapproduzione di capitali, e la trasformazione dell’inflazione controllata in un’inflazione incontrollata. Come risultato di quell’inflazione incontrollata, nelle condizioni specifiche della guerra dello Yom Kippur nel 1973, il prezzo del petrolio quadruplicò. La liberalizzazione dei mercati e la globalizzazione finanziaria negli ultimi due decenni del XX secolo hanno costituito il risultato di questa crisi e il tentativo di trovare una via d’uscita sia alla crisi che alle sue conseguenze rivoluzionarie, chiaramente evidenziate nella radicalizzazione internazionale di massa della fine degli anni Sessanta e inizio anni Settanta. Ma questa globalizzazione del capitale finanziario ha causato la riproduzione estesa e la globalizzazione delle sue contraddizioni, che è cominciata a esplodere negli anni Novanta. Né i tagli ai tassi d’interesse, né i vari pacchetti che stimolano l’economia possono avere effetto su questa crisi di sovrapproduzione senza precedenti, esacerbata dall’eccessiva espansione della finanza, ovvero del capitale fittizio. La sincronizzazione della recessione è il prodotto stesso della globalizzazione. Nessuna economia capitalista avanzata può, in queste condizioni, giocare il ruolo di locomotiva dell’economia capitalista mondiale.

 

12. L’intensificarsi della crisi capitalistica mondiale riporta in primo piano e mostra la necessità immediata di una direzione rivoluzionaria delle lotte in corso e che cresceranno sempre di più nel prossimo futuro. Sottolineiamo l’importanza decisiva della parola d’ordine della rifondazione immediata della Quarta Internazionale, non come promessa per il futuro ma come il programma e l’organizzazione  di cui c’è urgente bisogno per portare avanti la lotta per gli interessi rivoluzionari e per lo sbocco rivoluzionario dell’attuale crisi storica del capitalismo.

 

 

IV - La strategia e il programma rivoluzionari

 

13. La crisi rappresenta la pietra di paragone dei programmi e della strategia di tutti i partiti che si candidano a diventare la direzione rivoluzionaria delle masse oppresse e sfruttate. E’ necessario, per questo motivo, dichiarare apertamente gli slogan che possono servire da guida all’azione nell’attuale situazione:

·         Per l’Afghanistan, per la sconfitta dell’imperialismo;

·         Per una mobilitazione internazionale unita contro l’imperialismo e l’aggressione contro l’Afghanistan;

·         Per un fronte unico militare per sconfiggere l’imperialismo. Nessun sostegno politico alla direzione talebana;

·         Per l’armamento di tutto il popolo d’Afghanistan di fronte all’aggressione imperialista;

·         Abbasso il governo pakistano, strumento dell’aggressione imperialista.

·         Giù le mani dai popoli oppressi del Medio Oriente, d’Asia, d’Africa e d’America Latina

·         Fuori le truppe imperialiste! Liquidare le basi Nato e tutte le basi imperialiste;

·         Porre fine all’occupazione sionista in Palestina! Per il diritto al ritorno dei palestinesi rifugiati;

·         Vittoria all’Intifada. Per una repubblica democratica, laica e socialista della Palestina, dove arabi ed ebrei possano vivere insieme, liberati dai loro sfruttatori ed oppressori. Per una federazione socialista del Medio Oriente.

·         No allo stato di polizia negli Usa, nell’Unione Europea e nel resto del mondo;

·         No al Plan Colombia. Per l’unità della lotta delle masse contro l’imperialismo in tutto il mondo! Per una federazione socialista unita d’America Latina; 

·         No agli attacchi ai diritti democratici e sociali negli Stati Uniti;

·         No agli attacchi razzisti contro gli arabi, i musulmani e le altre minoranze negli Stati Uniti;

·         Per una direzione rivoluzionaria proletaria contro l’imperialismo;

·         Per un governo operaio e contadino;

·         Per la rivoluzione socialista mondiale;

·         Per la rifondazione della Quarta Internazionale.

 

Roma, Italia,

4 novembre 2001

 

Comitato di coordinamento

 

Il Movimento per la Rifondazione della Quarta Internazionale comprende i seguenti partiti e organizzazioni:

 

Partito operaio (Argentina)

Partito operaio rivoluzionario (Grecia)

Associazione marxista rivoluzionaria Proposta (Oti, Italia)

Partito della causa operaia (Brasile)

Lega marxista operaia (Turchia)

Partito operaio (Uruguay)

Lega trotskista (Oti, Usa)

Opposizione trotskista (Bolivia)

In difesa del marxismo (Spagna)

Lega operaia marxista (Finlandia)

Opposizione trotskista ucraina (Oti, Ucraina)

Comitato per la costruzione del Partito operaio (Cile)

Lega socialista operaia (Palestina)

Opposizione trotskista internazionale (sezioni in Inghilterra, India, Danimarca e Germania)


Dichiarazione della Associazione marxista rivoluzionaria “Proposta”sulla guerra contro l’Afghanistan

 

· PER LA DIFESA INCONDIZIONATA DELL’AFGHANISTAN E LA SCONFITTA DELL’IMPERIALISMO

· NO AL REGIME REAZIONARIO DEI TALEBANI. PER IL SUO ROVESCIAMENTO DA PARTE DELLE MASSE AFGHANE, NELLA COMPLETA INDIPENDENZA E OPPOSIZIONE ALL’IMPERIALISMO

· PER LA RIVOLUZIONE SOCIALISTA INTERNAZIONALE, UNICA VERA ALTERNATIVA ALLA BARBARIE CAPITALISTA

 

La guerra lanciata dagli Usa e dai loro alleati imperialisti (tra cui si sono distinte le socialdemocrazie europee, dal governo Blair a quello Jospin) contro l’Afghanistan ha un carattere totalmente reazionario e contro di esso deve svilupparsi la più netta e ampia mobilitazione del movimento operaio e popolare su scala internazionale.

Come marxisti rivoluzionari abbiamo espresso la nostra condanna dell’attacco terroristico contro le torri gemelle di New York. Lo abbiamo fatto perché siamo, in generale, contrari (come lo sono sempre stati i marxisti nella loro storia) al terrorismo, contrapposto come metodo allo sviluppo della lotta organizzata del proletariato per la rivoluzione socialista. Lo abbiamo fatto a maggior ragione in questo caso di fronte ad un massacro che ha colpito in primo luogo migliaia di lavoratori, sia nordamericani che di altri paesi, realizzato, con ogni probabilità, da forze fondamentaliste reazionarie, in passato agenti – contro le masse e i processi di trasformazione rivoluzionari o progressisti – dello stesso imperialismo.

Abbiamo  però ricordato, nel contempo, che il massacro di New York impallidisce di fronte alla realtà della barbarie del capitalismo sul piano internazionale. Basti solo ricordare l’embargo genocida dell’Onu contro il popolo arabo dell’Irak, che ha provocato più di un milione di morti, in larga parte bambini. Oppure le centinaia di migliaia di vittime di dittature e guerre civili (in particolare negli ultimi anni in Africa) create dalle potenze imperialiste per la difesa dei propri interessi. E’, del resto, sufficiente sottolineare che la difesa del sistema capitalistico e dei profitti della borghesia produce ogni anno nel mondo la morte per fame e malattie di decine e decine di milioni di esseri umani.

I pianti e il moralismo dei potenti della terra sulle vittime innocenti del terrorismo non costituiscono altro che un cinico modo per tentare di arruolare le masse proletarie dei paesi imperialisti sotto le bandiere del proprio stato, cioè dei propri sfruttatori capitalistici.

E’ quindi necessario affermare che il terrorismo fondamentalista costituisce una risposta distorta – errata e inaccettabile – alla barbarie capitalistica, in particolare alla oppressione criminale dei popoli del Medio Oriente, tra cui, in primo luogo, di quello arabo, e particolarmente di quello palestinese.

L’imperialismo internazionale cerca oggi di riaffermare con la guerra il suo controllo, per conto degli interessi del capitalismo, del Medio Oriente e, più in generale, del mondo intero. I fini prioritari della sua azione bellica sono:

·        consolidare e estendere del controllo diretto del Medio Oriente, zona cruciale per gli equilibri politici ed economici internazionali;

·        intimidire i movimenti di liberazione dei paesi dipendenti;

·        colpire il proletariato mondiale, compreso quello occidentale, cogliendo il pretesto della guerra per attaccare diritti sociali e sindacali;

·        combattere la recessione economica con il rilancio delle spese militari e di guerra.

Un successo dell’imperialismo porterebbe ad un suo rafforzamento contro ogni forma di contestazione politica e sociale del regime economico-politico esistente sul piano internazionale, non solo rispetto ai paesi dipendenti ma anche rispetto alla classe operaia e ai movimenti anticapitalistici o “antiglobal” negli stessi paesi imperialisti.

Una sconfitta o insuccesso dell’imperialismo ne minerebbe la forza su scala internazionale, ridurrebbe il suo grado di controllo sulle masse dei paesi dominanti, rafforzerebbe la determinazione del proletariato e degli oppressi nelle loro lotte, aprirebbe un nuovo terreno potenzialmente favorevole allo sviluppo delle prospettive rivoluzio­narie.

Per questi motivi generali e particolari i marxisti rivoluzionari dichiarano senza esitazioni che, nell’attuale conflitto, essi si pronunciano per la difesa incondizionata dell’Afghanistan e per la sconfitta dell’aggressione imperialista.

Questa posizione non significa in alcun modo appoggio politico al regime dei talebani o indicazioni di una rinuncia alla lotta, pur nel quadro del confronto con l’impe­rialismo, per il suo abbattimento. Il regime dei talebani, costruito con l’appoggio diretto dell’imperialismo Usa, dei suoi servizi segreti e dei suoi fantocci pakistani, è un regime reazionario, oscurantista, oppressore dei lavoratori, delle masse e in primo luogo delle donne afghane. Il suo abbattimento è un obbiettivo fondamentale di ogni rivoluzionario.

Da diverso tempo combattono i talebani le forze della cosiddetta Alleanza del Nord. Questo blocco politico raccoglie praticamente tutte le forze politico-militari opposte all’attuale regime di Kabul (forze che si erano in passato combattute tra loro), cioè la maggior parte dei gruppi dirigenti delle varie fazioni dei mujaheddin  antisovietici e resti delle forze militari del vecchio regime del Partito democratico del popolo afghano, nazionalstalinista (l’attuale ministro della difesa e comandante in capo delle forze militari dell’Alleanza del Nord dopo la morte di Massud, Mohammed Fahim, è un ex generale del regime filosovietico, già vice capo dei suoi servizi segreti quando erano diretti dall’ultimo leader del governo del Pdpa, Najibullah).

L’Alleanza del Nord ha dunque costituito da sempre un “fronte nazionale” borghese che non poteva godere di alcun sostegno politico da parte dei rivoluzionari. Tuttavia, finché essa è stato una forza indipendente in lotta militare contro il regime oppressivo dei talebani, i rivoluzionari non potevano essere militarmente equidistanti tra i due fronti e dovevano partecipare, su una piattaforma assolutamente indipendente, alla concreta lotta armata contro il regime.

Appare evidente che oggi l’Alleanza del Nord nel suo insieme si è inserita nel quadro della offensiva contro l’Afghanistan, subordinandosi all’imperialismo e diventandone uno strumento. I rivoluzionari non possono che condannare nella maniera più netta questa scelta e dichiarare che non esiste più alcuna possibilità di partecipazione o sostegno alla azione militare delle attuali forze antitalebani. Il popolo afghano deve continuare la sua battaglia contro il regime clericale totalitario di Kabul anche nelle presenti condizioni; ma lo può fare solo nella più completa indipendenza ed opposizione, anche sul piano militare, all’imperialismo e ai suoi attuali agenti.

L’alternativa reale all’imperialismo e alla reazione fondamentalista non può essere quella di una soluzione “democratica” o “progressista”, che rappresenta una utopia e che in ogni caso non potrebbe risolvere nessuno dei problemi di miseria, sfruttamento e oppressione delle masse, in Afghanistan come altrove. L’unica reale soluzione per la liberazione dalla dipendenza e dalla miseria è quella socialista.

L’Afghanistan ha conosciuto nel passato (1978) un processo rivoluzionario che fu mantenuto in un alveo puramente democratico – e nazionalmente isolato – dalle forze nazionalstaliniste che lo dirigevano e dalla politica dei loro ispiratori della burocrazia dell’Urss (ciò che, in congiunzione con i metodi burocratico-totalitari e la subordinazione nazionale, rafforzò la controrivoluzione islamica nella guerra civile del 1978-92). Anche l’esempio dell’Afghanistan conferma dunque ciò che dimostra senza equivoci la storia dell’ultimo secolo. Solo un processo di rivoluzione permanente e di transizione al socialismo può rispondere alle esigenze di liberazione dall’impe­rialismo, eliminazione della miseria e liberazione dalle oppressioni oscurantiste (in primo luogo quella delle donne) dei popoli oppressi. E’ evidente che, stante il grado disastroso di arretratezza economico-sociale dell’Afghanistan, anche a causa di decenni di guerra, la prospettiva socialista per questo paese rimanda immediatamente ad un quadro internazionale più ampio: quello del Medio Oriente e dell’Asia centrale ex sovietica nella prospettiva di una loro federazione socialista.

La validità unica della soluzione socialista è dimostrata a positivo dall’esperienza della rivoluzione d’Ottobre del 1917 nell’Asia centrale con le sue conseguenze di sviluppo economico, sociale e culturale. E’ dimostrata a negativo dal fallimento politico-sociale dei processi rivoluzionari a direzione nazionalista borghese o picccolo-borghese (dall’Algeria all’Egitto, dalla Siria all’Irak).

È in questo quadro, del resto, che è possibile spiegare lo sviluppo del fondamentalismo islamico tra i popoli oppressi del Medio-Oriente. Esso è la risposta, distorta e reazionaria, al fallimento delle direzioni “progressiste” dei movimenti di massa. Fallimento che concerne in primo luogo quelle che hanno politicamente vinto processi rivoluzionari e che non hanno liberato i loro paesi né dalla miseria né dalla dipendenza, creando regimi bonapartisti antidemocratici, a vantaggio di una nuova borghesia rapace e corrotta. Ma include anche le direzioni piccolo borghesi, come quella dell’Olp palestinese, che non ha risposto alle aspirazioni del suo popolo, manovrando con l’imperialismo, isolando la lotta palestinese da quella per l’unità rivoluzionaria della nazione araba, rifiutando di porre in questione il potere dei regimi reazionari arabi (come in Giordania nel 1969-70). Il fallimento coinvolge anche, e significativamente, i partiti comunisti stalinisti della regione. Dotati a volte di grande sostegno di massa, anche sulla base del prestigio dell’Urss, nell’immediato dopoguerra, essi si sono sempre opposti (sulla base delle indicazioni della burocrazia sovietica e della teoria controrivoluzionaria della “rivoluzione a tappe”) alla presa del potere da parte del proletariato e all’inizio di un processo di trasformazione socialista, anche quando si trovavano nelle condizioni di realizzare tale prospettiva (come ad esempio nella rivoluzione irachena del 1958, realizzata dal proletariato sotto la direzione del Partito Comunista e consegnata nelle mani dei militari nazionalisti borghesi del generale Kassem).

La lotta contro l’imperialismo in questa zona del mondo rimanda dunque anch’essa alla questione centrale della nostra epoca. Quella della costruzione di una nuova direzione rivoluzionaria proletaria, di una Quarta Internazionale rifondata. Solo una tale internazionale e partiti rivoluzionari nazionali come sue sezioni potranno essere in grado di indicare al proletariato e alle masse oppresse della regione (e del mondo) il programma e il metodo per liberarsi dal dominio imperialista e realizzare la propria emancipazione nazionale e sociale ponendo fine allo sfruttamento, alla miseria e all’op­pressione; rigettando nel contempo le vie illusorie e reazionarie quali quelle proposte dal fondamentalismo islamico.

Noi auspichiamo che si pongano risolutamente sulla via della rifondazione della Quarta Internazionale le organizzazioni marxiste rivoluzionarie già presenti nella regione e le forze migliori dei movimenti piccolo-borghesi radicali e dei vecchi partiti comunisti stalinisti (inclusi i superstiti della tragica esperienza del regime del Pdpa afghano), traendo il bilancio del fallimento della politica delle loro direzioni.

La lotta per la costruzione di un’alternativa rivoluzionaria passa oggi per la battaglia più intransigente per la sconfitta dell’imperialismo e della sua guerra. E’ necessario che si sviluppi il più ampio movimento antibellico; che vengano posti in questione tutti i governi che si alleano all’attacco imperialista; che si sviluppino scioperi e azioni di mobilitazione del proletariato, sia nei paesi dipendenti, che in quelli imperialisti, che in quelli intermedi. E’ necessario spiegare chiaramente le conseguenze direttamente negative di un successo dell’imperialismo non solo per i popoli dipendenti ma per i lavoratori e le lavoratrici di tutto il mondo.

Su questa base di mobilitazione i marxisti rivoluzionari conseguenti lotteranno per creare le condizioni dello sviluppo della rivoluzione socialista, unica vera e realistica alternativa alla barbarie quotidiana del dominio capitalistico che l’attuale guerra ci mostra nuovamente.

 

11 ottobre 2001