Direzione nazionale PRC del 28 aprile
La sconfitta dell’Irak nella guerra appena conclusa ha rappresentato indubitabilmente un successo per l’imperialismo USA e i suoi alleati. Tuttavia tale successo rimane incompleto e la vittoria imperialista –come evidenziato dagli avvenimenti in questi giorni- è lungi dall’essersi stabilizzata.
La DN afferma la sua piena solidarietà con la lotta del popolo irakeno per il ritiro immediato di tute le truppe imperialiste dalla regione. Così come ritiene che nella guerra trascorsa fosse dovere delle forze del movimento operaio porsi sul terreno della difesa dell’Irak. Ciò da un punto di vista di classe e antimperialista autonomo, senza alcun sostegno politico al regime di Saddam Hussein, di cui anzi andava appoggiata la prospettiva di rovesciamento, ma da parte delle masse operaie e contadine irakene in piena indipendenza dall’imperialismo.
La scelta del
passaggio dalla guerra indiretta (le sanzioni ONU con centinaia di migliaia di
morti) alla guerra sul campo da parte dell’amministrazione Bush, è stata
determinata da vari fattori.
Centrale tra
questi certamente la questione del “petrolio”, o per meglio dire del
confronto delle fonti energetiche al fine di determinarne il più possibile
strettamente il costo di produzione e di vendita nel mondo. Ma accanto ad essa
–necessariamente presa a punto di riferimento nel movimento antibellico- vi
sono altre motivazioni di fondo.
Vi è la volontà
di ristabilizzare compiutamente il controllo del Medio Oriente. Ciò sia in
relazione agli altri riottosi regimi della regione (Iran e Siria) sia rispetto
alla fondamentale questione palestinese. Su tale terreno infatti
l’imperialismo USA, utilizzando la vittoria militare, sta cercando, dopo il
fallimento anche a causa dell’intifada degli ingannevoli “accordi di
Oslo”, di trovare un nuovo e più lineare strumento per rendere definitiva una
soluzione neo-coloniale contro il popolo palestinese.
Altro elemento
non secondario della guerra è stato anche di fronte alla situazione economica
degli USA (e della Gran Bretagna) l’allettante prospettiva della ricostruzione
dell’Irak con i conseguenti profitti. Tale questione è stata ed è
apertamente elemento di dibattito interno alle varie potenze imperialiste e non
è un caso che si preparino a fare la parte del leone, nella suddivisione degli
appalti, le aziende che hanno sostenuto la campagna elettorale di Bush e che
sono direttamente legate all’attuale gruppo dirigente dell’amministrazione
di Washington.
Più in generale
sul terreno economico questa guerra imperialista (come quelle che la hanno
preceduta) è stata finalizzata anche al necessario sfogo per l’economia di
guerra permanente che costituisce uno degli elementi centrali del capitalismo
imperialistico moderno. Infatti, senza lo sviluppo senza precedenti delle spese
militari (e le conseguenti successive ricadute sul terreno “civile”) non
sarebbe stato possibile lo sviluppo dell’epoca del boom e, soprattutto, oggi
le conseguenze dell’attuale crisi economico-sociale capitalistica sarebbero più
gravi. In questo senso “il capitalismo porta in sé la guerra come le nubi il
temporale” (per usare una frase di Lenin) non solo come espressione delle sue
contraddizioni strutturali, ma anche come necessità economica più immediata,
per creare le opportunità di un nuovo sviluppo di queste forze di distruzione
di massa.
Infine
l’”ideologia” propria dell’amministrazione Bush, benché elemento
subordinato, deve essere considerato come uno degli aspetti che determinano le
sue linee decisionali. Nelle sue due componenti, quella religiosa-integralista
(con il suo “Dio lo vuole”) e quella laico-sionista (con il suo “la Storia
lo vuole”) l’amministrazione Bush esprime un approccio fondamentalista
imperialista che rappresenta un salto di qualità rispetto al passato. Salto di
qualità che sarebbe fuorviante inserire nello schema del “fascismo”. Si
tratta invece di individuare l’utilizzo da parte di queste forze
dell’immenso potenziale tecnologico-militare e anche ideologico (qui con più
difficoltà) centrato intorno ai tentativi di imposizione globale delle forme più
ristrette e controllate della pseudo “democrazia” borghese sotto controllo
dell’imperialismo dominante USA e in funzione delle sue concezioni
dell’economia, dei rapporti sociali, politici e civili. Quel “capitalismo
compassionevole” basato sul liberismo (accompagnato da un qualche keynesismo
militare e di sostegno alle lobby economiche amiche), in cui di
“compassionevole” vi è solo l’utilizzo più aperto della violenza
statuale militare, degli assassinii di massa o individuali, della tortura, delle
privazioni dei diritti, della violazione delle norme, in nome della difesa di
una pretesa “civiltà” imperialista in stile statunitense.
Tutte queste
ragioni, maggiori o minori, della guerra devono essere inquadrate nell’ambito
di una più generale ragione di fondo, che sta alla base del conflitto. Esso è
lo stato contraddittorio di crisi del capitalismo derivante dalla sua incapacità
di ristabilizzare un “nuovo ordine mondiale” dopo il venir meno
nell’ultima fase del secolo scorso degli essenziali equilibri su cui si era
basato il lungo periodo post-bellico (quello del “boom economico”, del
“keynesismo” con lo sviluppo del cosiddetto Welfare State, della
decolonizzazione col il neocolonialismo, della “guerra fredda” con l’Urss).
In particolare accanto alla fine della fase lunga dell’espansione post-bellica
centrale è stato l’epocale fenomeno del crollo dell’Urss e degli Stati ad
esso legati, con il conseguente caotico processo di reintroduzione del
capitalismo. Il crollo dell’Urss ha indubbiamente rappresentato una grave
sconfitta per il proletariato mondiale, perché al di là dei regimi totalitari
burocratici che vi dominavano, paesi che erano fuoriusciti dal capitalismo sono
stati reinseriti in esso e le conquiste sociali della rivoluzione sono state
annullate. Tuttavia contrariamente alle aspettative e alle illusioni dei
capitalisti e dei loro rappresentanti ideologici, tutto ciò non è servito a
stabilizzare il quadro economico-sociale internazionale, la cui instabilità si
è anzi da allora aggravata nonostante le indubbie sconfitte subite su vari
terreni e su scala globale dal proletariato, in particolare negli anni Ottanta e
nella prima metà degli anni Novanta. Da questo punto di vista le guerre degli
ultimi dodici anni, a cominciare dalla prima guerra del Golfo del ’91 (vera
“guerra costituente” dell’attuale fase storica) sono state espressione del
tentativo da parte dell’imperialismo, in primo luogo USA, di stabilizzare la
realtà globale sotto il proprio dominio (appunto il “nuovo ordine
mondiale”). A tutt’oggi questo nuovo equilibrio non si è realizzato perché
in realtà è la natura propria delle contraddizioni strutturali del sistema
capitalistico e del suo modo di produzione che lo rendono impossibile; pur in un
alternarsi di momenti di rottura e di riequilibrio che vanno colti.
E’ in questo
quadro che si approfondiscono anche le contraddizioni inter-imperialistiche. La
contrapposizione di Francia, Germania e Russia alle scelte
dell’amministrazione Bush esprime questa realtà di contrasti materiali e
strategici tra “briganti imperialisti” (con la Russia che cerca
faticosamente di trovare la via per uscire dal caos della fase di reintroduzione
del capitalismo verso uno sviluppo in tal senso). Nulla quindi a che vedere con
scelte “progressiste” o di “civiltà”.
In questo senso
è chiaro che i comunisti rigettano ogni ipotesi di “sostegno critico” alla
nascente prospettiva di un imperialismo europeo (propria di Chirac, Prodi,
Schroder), capace domani di contrapporsi per i propri interessi al dominante
imperialismo USA. Così come rifiutano di vedere come punto di riferimento l’Onu,
anche “riformata”. Le stesse contraddizioni di questa struttura nei
confronti della guerra contro l’Irak non sono state che espressioni delle su
ricordate contraddizioni interimperialistiche. Mentre in tutto il passato
decennio, come nelle sua precedente storia, l’ONU si è rivelato uno strumento
della peggiore politica imperialista in particolare decretando e organizzando le
sanzioni economiche contro l’Irak che hanno provocato la morte per fame e
malattie di un milione e mezzo di persone.
La DN ritiene
fondamentale che il movimento proletario, in Italia e nel mondo, mantenga la sua
più completa autonomia di proposta e di progetto politico.
La lotta contro
l’imperialismo e il suo “disordine mondiale” impone la ricostruzione di
una forza organizzata dell’avanguardia proletaria ugualmente mondiale; una
Internazionale marxista rivoluzionaria conseguente.
La DN del PRC si
impegna in questa prospettiva perché tale Internazionale è strumento
essenziale per sviluppare l’unica alternativa possibile alla realtà del
capitalismo e alla sua crisi. Di fronte alla “guerra infinita” è tanto più
necessario indicare la prospettiva al contempo difficile e necessaria della
rivoluzione proletaria internazionale e dello sviluppo di una società
socialista su scala mondiale, che sola potrà liberare l’umanità dalle
guerre, dallo sfruttamento, dalla miseria e dalle infinite altre oppressioni
dell’inaccettabile sistema sociale capitalista.
Importante è
stato il pronunciamento netto del nostro partito contro la guerra così come
l’impegno generoso di tanti compagni nel movimento.
Ma la politica di
blocco col centrosinistra sul terreno dell’opposizione alla guerra, nella
logica della sua “contaminazione” ha fallito.
Ha fallito nei
risultati annunciati a fronte della convergenza conclusiva del centro liberale
con Berlusconi a sostegno della spedizione militare, in piena corrispondenza con
la natura borghese del centro e la sua politica estera imperialista.
Ma ha
accompagnato anche la rinuncia, durante la guerra, ad una battaglia politica nel
movimento: sul terreno delle sue forme di organizzazione, delle sue forme di
lotta, della sua maturazione anticapitalistica e antimperialistica.
Più che mai oggi il rilancio necessario del movimento implica una battaglia aperta di indirizzo. E’ necessario innanzitutto sviluppare nel movimento una battaglia politica aperta per liberarlo da ogni illusione sulla diplomazia borghese internazionale, affermarvi un indirizzo anti-capitalistico, legarlo alla classe operaia e all’egemonia delle sue ragioni sociali e di classe.
Ma è necessario
anche avanzare una precisa proposta di piattaforma d’azione per la continuità
del movimento sul terreno dell’opposizione al colonialismo: a partire dal
terreno dell’opposizione attiva al governo Berlusconi e all’imperialismo
italiano.
In questo senso
si pongono alcune immediate necessità di proposta:
1)
promuovere e organizzare sulle basi di massa più larghe il boicottaggio
attivo antimilitarista della spedizione italiana in Irak;
2)
denunciare gli interessi italiani nel grande businness della
ricostruzione, nella spartizione petrolifera (ENI), nella produzione bellica,
avanzando su questo terreno la rivendicazione della nazionalizzazione senza
indennizzo di tutti gli interessi speculativi e guerrafondai;
3)
contrastare nel modo più netto la prospettiva dell’esercito europeo e
del militarismo europeo entro una più generale opposizione allo sviluppo
dell’imperialismo europeo.
Questa linea di
indirizzo e di proposta implica una lotta aperta nel movimento per la sua piena
autonomia dal centro liberale.
E questo a sua
volta implica necessariamente una svolta politica di linea del PRC circa i
propri rapporti col centro liberale dell’Ulivo quali si sono concretizzati con
le commissioni paritetiche recentemente varate tra PRC e centrosinistra.
Commissioni che vanno immediatamente revocate e azzerate.
Marco Ferrando
Franco Grisolia
Matteo Malerba