di Alberto Madoglio
Mentre scriviamo questo articolo, l'aggressione di Usa e
Gran Bretagna all'Irak ha avuto inizio. Non conosciamo quali saranno gli
ulteriori sviluppi dell'evento bellico ma la vittoria imperialista è pressoché
certa. Meno certo il numero di morti tra i contendenti e tra la popolazione
civile; se i governi di quei paesi arabi che sostengono in vario modo la guerra
(dall'Egitto alla Giordania, passando per i vari sultanati della penisola araba)
riusciranno in qualche modo a contenere il malcontento crescente delle loro
popolazioni; come si evolverà la crisi in Palestina, se le altre potenze
imperialiste che si sono opposte al conflitto vi rientreranno in un secondo
momento, ecc.
La risposta a questi e a molti altri quesiti diverrà più
chiara col passare dei giorni.
Possiamo però già da subito affermare che questo
conflitto, nella sua brutalità, sta riportando un po’ di chiarezza nel
dibattito politico, sia all'interno del PRC, sia nel più vasto movimento contro
la globalizzazione capitalistica. In particolare, la guerra e la realtà fanno
luce sulla teoria dell'Impero che nel dibattito è stata per lungo tempo un
punto centrale, una sorta di chiave di volta di una teorizzazione più
complessiva.
Questa teoria, molto in voga a partire dall'autunno 1999
(manifestazioni di Seattle), sosteneva che nella società globalizzata esistesse
oramai una sola super potenza imperiale: gli USA. Tutte le altre erano ad essa
supinamente asservite, e gli stessi USA erano soggetti alla volontà delle
multinazionali, le quali non avevano più nessun tipo di rapporto con i vecchi
stati nazionali ma manifestavano la loro volontà in organismi quali il WTO, la
Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale e via elencando (dimenticando
peraltro che in essi le nazioni sono rappresentate in base alle quote possedute
da ognuna). Da ciò derivava la conclusione che, in questa nuova situazione, la
lotta di classe, così come la avevamo conosciuta per oltre un secolo, era
superata; che non si poteva più teorizzare nessuna "presa del Palazzo di
Inverno", cioè nessuna lotta degli oppressi per la costruzione di un
potere alternativo a quello della borghesia.
Cosa si proponesse di concretamente alternativo non è mai
stato chiaro: alcuni rivendicavano la democratizzazione degli organismi politico
economici sovra-nazionali citati prima, altri la loro sostituzione con forme
nuove di potere popolare, senza però mai porre in discussione il dominio
dell'economia di mercato e della proprietà privata dei mezzi di produzione (la
teoria del "bilancio partecipativo" rientra in questo ambito).
La guerra ha fatto piazza pulita di questa bizzarria
politico-teorica. Se a tutti è chiaro che la lotta al terrorismo è stata solo
un pretesto, anche piuttosto maldestro, per giustificare l'aggressione all'Irak,
deve essere altrettanto chiaro che il no detto da Francia e Germania, supportate
dalla Russia e, in maniera minore, dalla Cina, è un segno che le tensioni tra
le potenze imperialiste -tra gli Stati- non sono affatto superate dal nuovo
ordine economico mondiale.
Il relativo accordo tra i vari imperialisti dal dopoguerra
a oggi era dovuto a due fattori principali. Da un lato la massiccia ripresa
dell'economia capitalistica su scala mondiale dopo il 1945, durata oltre un
decennio, permetteva uno sviluppo non conflittuale tra i differenti paesi (anche
se tensioni non sono mancate: nascita di Israele nel 1948, crisi di Suez nel
1956). Dall'altro la presenza dell'URSS rappresentava una costante minaccia (più
potenziale che reale) al dominio della borghesia su scala interna e
internazionale, e spingeva quindi i diversi Paesi imperialisti a mettere in
secondo piano i motivi di tensione fra loro, concentrandosi nella lotta contro
un nemico comune.
Il venir meno di questi due fattori (stagnazione economica
da oltre venticinque anni, crollo dello stalinismo con relativo processo di
restaurazione del capitalismo nell'Europa orientale), ha fatto sì che venisse
meno il collante che aveva garantito gli equilibri imperialisti per
cinquant'anni.
Quello cui noi in queste settimane assistiamo è,
sostanzialmente, il normale
dispiegarsi dei rapporti tra varie potenze concorrenti per la conquista di nuovi
mercati.
La vicenda irakena è stata al centro della precipitazione
di una situazione che già da tempo stava maturando. Le guerre commerciali degli
ultimi anni (guerra delle banane, dazi protettivi sulle importazioni di acciaio,
difficoltà nel trovare accordi complessivi nel WTO ecc.) erano segnali che
qualcosa si era rotto nel meccanismo che avevamo conosciuto. Dunque sulle sorti
del nuovo regime che si vuole instaurare a Baghdad si sta giocando una partita
che va ben oltre i confini del Paese del Tigri e dell'Eufrate.
La ragione principale del conflitto e delle tensioni tra
le due sponde dell'Atlantico non sta nel controllo delle ingenti riserve di
petrolio dell'Irak. Certo il controllo degli idrocarburi ha una importanza non
marginale, legata sia agli interessi personali del clan Bush e dei membri del
suo governo (quasi tutti petrolieri), sia alle commesse che Saddam Hussein ha
stipulato con la Russia e con la Francia per lo sfruttamento dei pozzi, e che
spiega in parte il loro no alla guerra con la paura che un diverso governo
instaurato dagli USA possa non rispettarle. Ma tutto questo non è sufficiente a
spiegare e giustificare una crisi politico diplomatica mai vista in passato.
Il conflitto in corso si inscrive in un più ampio
processo di ridefinizione dei rapporti di forza a livello mondiale tra i
differenti Paesi imperialisti. Nel tempo, gli Usa, pur continuando ad essere la
più forte economia del pianeta, hanno assistito ad un progressivo erodersi di
questa supremazia a vantaggio dell'Europa, del Giappone e di altri Paesi
emergenti, primo fra tutti la Cina. Per contrastare questo processo hanno
utilizzato vari strumenti, in particolare la loro indiscussa egemonia in campo
militare. Di contro l'Europa, e specialmente Francia e Germania, si rende conto
che per continuare a giocare un ruolo di primo attore in campo economico deve
dotarsi di una adeguata forza militare, e quindi cominciare a sottrarsi dalla
tutela che in questo campo gli Usa hanno esercitato sul vecchio continente dal
dopoguerra. Questa nuova idea della politica militare vede in Romano Prodi il
suo maggior sostenitore, anche per il ruolo che ricopre a livello istituzionale
in qualità di Presidente della Commissione dell'Unione Europea.
Il fatto che tutto ciò si inserisca, come già accennato,
in un quadro di stagnazione economica, non fa altro che accentuare le tensioni.
Come per le sorti più strettamente legate alla guerra in Irak, anche qui è
inutile avanzare ora previsioni su come si svilupperanno i prossimi avvenimenti.
Non sappiamo se gli Usa continueranno a vedere sempre più
ridotta la loro potenza economica in campo internazionale, così come resta da
verificare se l'accordo tra Parigi e Berlino sarà realmente un asse di ferro (i
contrasti tra le due capitali riguardo l'allargamento ad est della UE ci fanno
sorgere in merito più di un dubbio).
Non sappiamo quale ruolo avranno, nell'immediato, gli
imperialismi italiano e inglese. Per il primo, il fatto che i due maggiori
quotidiani nazionali, rappresentanti gli interessi della borghesia siano
sostanzialmente contrari alla guerra, lascia credere che le grandi famiglie
capitalistiche si trovino più in sintonia con le posizioni di franco-tedesche.
E rispetto alla Gran Bretagna, nonostante sia il più fedele alleato degli Usa,
sembra tagliata fuori dal grosso degli appalti per la ricostruzione dell'Irak, e
per questo spinge ora per coinvolgere l'Europa e l'Onu nella gestione del dopo
Saddam Hussein.
Più certo appare oggi il quadro di fondo che segnerà i
rapporti a livello internazionale nel prossimo periodo, partendo dalla
considerazione che la guerra non servirà a rilanciare la ripresa economica.
Un periodo in cui la competizione tra le varie potenze
imperialiste per l'accumulazione di profitti attraverso la conquista di nuovi
mercati diventerà più accesa, le alleanze si faranno e si disferanno sempre più
facilmente, le guerre e le crisi si susseguiranno a ritmo serrato, il tutto a
scapito delle condizioni di vita di centinaia di milioni di persone del mondo.
Per questi motivi il movimento contro la guerra deve porsi
degli obiettivi chiari per il suo futuro.
Commetterebbe un errore imperdonabile se, ad esempio,
legasse le sue sorti politiche allo schieramento imperialista che oggi
-strumentalmente- è contrario all'avventura militare in Irak.
Credere che il miglior paladino della pace sia Chirac vuol
dire non capire che il presidente francese pensa esclusivamente agli interessi
della borghesia che egli rappresenta. Mentre parla di "pace" in Medio
oriente, quel governo invia 2000 soldati in Costa d'Avorio per difendere il
ruolo imperialista della Francia in Africa, così come nel 1999 bombardava la
Serbia, e a metà degli anni 80, quando presidente era il "socialista"
Mitterand, inviava carri armati in Nuova Caledonia (piccola isola nel Pacifico)
per sedare la rivolta indipendentista lì scoppiata.
Lo stesso dicasi per Schroder che, mentre si indigna per
la politica guerrafondaia di Bush, concede supporto logistico alle truppe
americane inviate sul terreno di battaglia, e, sul versante della politica
interna, dichiara "guerra" ai lavoratori tedeschi, annunciando in
parlamento un piano volto a distruggere il sistema di protezione sociale che i
grandi gruppi finanziari e industriali del paese ritengono ormai non più
compatibile coi loro interessi.
Tanto meno appare realistico rivendicare un "nuovo
protagonismo dell'Onu", magari "riformato".
Nei giorni precedenti l'inizio delle ostilità abbiamo
potuto assistere ad un vergognosa caccia al voto da parte di Usa, Gran Bretagna,
Francia e Germania, il tutto volto a difendere i loro interessi, non certo
quelli di una millantata giustizia planetaria. Oggi Kofi Annan chiede l'invio
dei caschi blu in Irak, cioè la vana speranza di un ritorno alla concordia
interimperialista sulle spalle dei popoli. Ogni illusione a proposito di un libero consesso di libere
nazioni dovrebbe apparire ormai a tutti definitivamente morto e sepolto.
In realtà il movimento contro la guerra riuscirà a
essere vincitore solo se denuncerà tutti gli imperialismi -siano essi coinvolti
direttamente o indirettamente nella guerra in corso o siano ostili a questo
conflitto- come i veri nemici dell'umanità, e se saprà legare la protesta
contro l'aggressione all'Irak alla protesta contro tutti gli attacchi al mondo
del lavoro, della scuola, ai giovani, alle donne, ai disoccupati, che tutti i
governi del capitale, a qualsiasi latitudine, stanno mettendo in atto.
Solo trasformando la lotta per la pace in una lotta
serrata al dominio del capitale si elimineranno definitivamente le ragioni
materiali, concrete, che sono il vero motore di ogni guerra.
(2 aprile)