di Franco Grisolia
Questa Assemblea nazionale dei lavoratori e delle
lavoratrici risente palesemente di limiti di preparazione politica ed
organizzativa.
Ciò evidenzia come l’ipotesi di lavoro indicata dalla
Conferenza nazionale di Treviso del febbraio 2001 non si sia tradotta in pratica
e come la prospettiva di realizzare un serio coordinamento del nostro intervento
nel mondo del lavoro sia fallita, senza che ad oggi venga indicata una nuova
seria prospettiva su questo terreno, nonostante alcuni spunti nella relazione
del compagno Boghetta.
In questo quadro non
considero positivamente le linee essenziali della analisi e proposta del
documento preparatorio (ed unico, visto l’assenza di documento finale). Penso
giusto metodologicamente che esso abbia avuto un approccio generale, inserendo
la riflessione sul nostro lavoro nell’ambito di una riflessione sulla fase; ma
nel progetto complessivo manca quello che si può definire un approccio
anticapitalistico e socialista. Congiuntamente manca un’analisi seria della
crisi capitalistica mondiale e delle sue conseguenze sulle prospettive
politico-sociali. Manca cioè una comprensione che la riproposizione su scala
mondiale di una classica crisi di sovrapproduzione e il dispiegarsi di quella
che Marx indicava come legge fondamentale del capitalismo, cioè la caduta
tendenziale del saggio di profitto, in un quadro di contrazione (sia pur
limitata) dei mercati, chiude ogni significativo spazio di riformismo borghese.
Così il testo ripropone
l’utopistica ipotesi di un cambiamento del modello di sviluppo senza porre in
questione il modo di produzione capitalistico. In realtà tale ipotesi era già
utopistica nel periodo del boom post-bellico. Allora quello che si ottennero
furono grandi conquiste in un quadro socio-politico mondiale profondamente
diverso (in cui determinante era la presenza, al di là del dominio burocratico,
dell’URSS e degli altri stati sfuggiti al dominio del capitale),
caratterizzato da uno sviluppo economico capitalistico generalizzato di lungo
periodo. Tali conquiste furono in ogni caso ottenute grazie allo sviluppo di
grandi movimenti di lotta di classe. Tuttavia neanche in quella fase si incise
sul “modello di sviluppo”. Le sue caratteristiche (il cosiddetto
“fordismo”) furono determinate non dalla classe operaia, ma dalle esigenze e
dinamiche del capitale.
Riproporre oggi, nella
fase attuale, la prospettiva (sempre utopistica, nel quadro della società
capitalistica) della “modifica del modello di sviluppo” a positivo per le
masse, significa riproporre assurdamente un’illusione nel momento peggiore.
Mentre proprio la individuazione di un progetto anticapitalistico e socialista
può essere il volano di conquiste parziali, in questo momento prevalentemente
difensive, domani anche offensive.
Il rischio è che, al di
là di un “movimentismo radicale” d’immagine si accetti nei fatti l’idea
che il quadro generale è dato e che ciò che è possibile è una forma di
“disobbedienza” (su tutti i terreni politici e sociali) senza progetto di
trasformazione della società. Ripetendo con ciò – in forma un po’ più a
sinistra – teorizzazioni errate molto presenti nel nostro partito una decina
di anni fa, di fronte al cosiddetto trionfo del “postfordismo”.
Teorizzazioni che sono, lo ripeto, il miglior viatico per non ottenere nulla sul
terreno concreto.
Queste problematiche non
sono astrazioni, ma incidono concretamente sul terreno programmatico, rischiando
di portarci ad un puro minimalismo. Si può citare ad esempio, nel testo per
l’Assemblea, la questione della precarietà e della flessibilità. Giustamente
si indica come questa questione sia oggi centrale per e nella classe, e nella
società. Tuttavia le proposte restano minimali e non c’è nemmeno la
richiesta dell’abolizione dei contratti atipici con la trasformazione di
quelli esistenti in contratto a tempo pieno e indeterminato (si potrebbe
pensare, volendo fare una battuta – che poi tanto battuta non è – che
qualcuno si vergogni di proporre l’abolizione del "pacchetto Treu",
che fu un pilastro nello sviluppo della flessibilità e precarietà, perché lo
votammo all’epoca del governo Prodi; ma naturalmente la questione è più
generale).
Allo stesso modo in cui
è carente sul terreno programmatico il testo non fa un bilancio coerente e
approfondito della politica della CGIL negli ultimi anni e del nostro approccio
verso di essa. Io credo che tale bilancio non sia positivo e che la politica
della CGIL abbia portato il movimento in una impasse. Certo oggi l’azione
della CGIL è migliore, se paragonata a quella dell’epoca del governo di
centro-sinistra. Ma essa rimane assolutamente limitata e contraddittoria.
Scioperi generali centellinati, nessuna piattaforma vertenziale, nessun progetto
antagonista; ma la ricerca, attraverso una pressione controllata, della
ricostruzione di un terreno di concertazione e una autoaffermazione di ruolo
senza progetto alternativo. Mentre le mobilitazioni di massa hanno espresso
(certo con alcune contraddizioni) le grandi potenzialità del movimento. Di
fronte a ciò e alla gravità dell’attacco padronale e governativo
l’atteggiamento della CGIL mi pare configurarsi come una forma “soft” di
tradimento di classe:
Come PRC, a parte qualche
isolato distinguo iniziale (lo “sciopericchio”, e “sciopericchio” era,
piaccia o no il termine, che è cosa secondaria) ci siamo adattati alla gestione
cofferatiana. Abbiamo nei fatti riproposto quella “sospensione della
critica” che già praticammo nei confronti della CGIL nel lontano '94, al
momento della lotta per le pensioni.
Anche in questi due anni
non abbiamo avanzato una piattaforma alternativa. Né indicato quella vertenza
generale, su cui costruire uno sciopero prolungato, che appunto avrebbe potuto
unificare il movimento intorno a rivendicazioni come il recupero salariale, il
salario ai disoccupati, la riduzione d'orario senza flessibilità, l'abolizione
dei contratti atipici, la difesa dello stato sociale. Né ci si può nascondere
dietro un dito, come si è fatto da parte di importanti dirigenti del nostro
partito, affermando che non possiamo indicare piattaforme e metodi di lotta
perché questo spetta al sindacato e non ad un partito.
Prescindiamo dal fatto
che oggi (ciò che del resto non è certo una novità nella storia del movimento
operaio) questa distinzione rigida è messa in discussione nei fatti da altri.
Ma, in ogni caso, noi dovremmo essere un partito comunista e operaio che ha
quindi non solo il diritto, ma anche il dovere di avanzare proposte per il
movimento di massa, che poi i compagni inseriti nelle aziende e nel movimento
sindacale devono agitare e cercare di tradurre in pratica.
Al congresso nazionale
della CGIL la nostra incapacità di esprimere una linea alternativa si è
tradotta nel voto favorevole dei/lle nostri/e compagni/e (con pochissime,
lodevoli eccezioni) al documento conclusivo unitario.
L'unico terreno su cui ci
siamo differenziati è stato quello, giusto, del referendum sull'art 18. Oggi la
battaglia referendaria è centrale per noi e per il movimento operaio. Ma questo
non giustifica l'assenza di proposta autonoma e alternativa sul terreno della
lotta di massa. Un partito comunista dovrebbe sempre saper coniugare
l'intervento sul terreno istituzionale- elettorale (compreso quello
referendario) con una prioritaria battaglia sul terreno dello scontro sociale.
Nella stessa vertenza
Fiat ci siamo limitati ad un approccio propagandistico, senza porre il problema
centrale delle forme di lotta, cioè l'indicazione dell'occupazione delle
aziende da parte dei lavoratori, come unico metodo veramente efficace per
contrastare i piani Fiat. Non abbiamo così dato sponda alle potenzialità che
si sono espresse in questo senso alla Fiat di Termini Imerese e alle posizioni
portate avanti dai nostri compagni (si veda sull'ultimo numero di Progetto
Comunista l'articolo significativamente intitolato "Fiat, una sola
soluzione: l'occupazione", a firma di Luigi Sorge, dirigente del SinCobas
della Fiat Cassino, e Antonio D'Andrea, Rsu FIOM alla Fiat Melfi e segretario
del circolo PRC di fabbrica).
Ritengo quindi che sia
necessario un chiaro cambiamento di linea e che, a partire da Terni dobbiamo
continuare e approfondire il nostro dibattito. Sapendo che anche i problemi
riguardanti il nostro intervento nel mondo del lavoro e nel sindacato rimandano
a questioni di linea politica più generale del nostro partito.
Tutto si tiene, infatti,
e su questo vorrei cercare di essere chiaro.
Prendiamo un esempio,
specifico, ma importante, della nostra storia. Io credo che la rottura di
Alternativa Sindacale, con la nascita della "Area dei Comunisti" fu
esiziale per la nostra azione e la nostra strutturazione in CGIL e anche al di là
di essa. Ebbene tale Area nacque (nel momento in cui la stragrande maggioranza
degli attivisti di AS si riconosceva nel nostro partito) non solo o
prevalentemente da contraddizioni interne e dall'ostilità nei confronti di
Giampaolo Patta. Ma prevalentemente dalla volontà del gruppo dirigente centrale
del partito di disporre di un'area sindacale acriticamente "fedele alla
linea", nel momento della collocazione del nostro partito nella maggioranza
di governo e dell'appoggio alle varie finanziarie "lacrime e sangue",
pacchetto Treu, etc..
Ugualmente la nostra
odierna ambiguità verso il cofferatismo (ed oggi anche verso il "pattismo")
nascono prevalentemente da un elemento politico. La volontà cioè di non
scontrarci con nettezza con chi può o potrebbe rappresentare un ponte politico
tra noi e il centro-sinistra, con cui (al di là delle ambiguità sul
"superamento dell'Ulivo") ricerchiamo (e pratichiamo ovunque possibile
a livello locale) una ricomposizione.
Per cui io credo quindi
che anche la messa in cantiere di un salto di qualità sul terreno del mondo del
lavoro potrà svilupparsi solo se scioglieremo il nodo politico tra costruzione
del PRC come partito antagonista e rivoluzionario oppure, al contrario, come
quinta ruota "critica" del carro di un centro-sinistra padronale
(qualunque sia il suo nome futuro).
Mi pare evidente in quale
direzione, a mio parere, tale nodo vada, appunto, sciolto.
(*)
Sintesi dell'intervento con cui Franco Grisolia ha sostenuto le posizioni della
sinistra del partito nell'Assemblea di Terni