Costruire il radicamento operaio del partito (*)

Assemblea dei lavoratori e delle lavoratrici del Prc (Terni, 22-23 febbraio 2003)

 

di Franco Grisolia

 

Questa Assemblea nazionale dei lavoratori e delle lavoratrici risente palesemente di limiti di preparazione politica ed organizzativa.

Ciò evidenzia come l’ipotesi di lavoro indicata dalla Conferenza nazionale di Treviso del febbraio 2001 non si sia tradotta in pratica e come la prospettiva di realizzare un serio coordinamento del nostro intervento nel mondo del lavoro sia fallita, senza che ad oggi venga indicata una nuova seria prospettiva su questo terreno, nonostante alcuni spunti nella relazione del compagno Boghetta.

In questo quadro non considero positivamente le linee essenziali della analisi e proposta del documento preparatorio (ed unico, visto l’assenza di documento finale). Penso giusto metodologicamente che esso abbia avuto un approccio generale, inserendo la riflessione sul nostro lavoro nell’ambito di una riflessione sulla fase; ma nel progetto complessivo manca quello che si può definire un approccio anticapitalistico e socialista. Congiuntamente manca un’analisi seria della crisi capitalistica mondiale e delle sue conseguenze sulle prospettive politico-sociali. Manca cioè una comprensione che la riproposizione su scala mondiale di una classica crisi di sovrapproduzione e il dispiegarsi di quella che Marx indicava come legge fondamentale del capitalismo, cioè la caduta tendenziale del saggio di profitto, in un quadro di contrazione (sia pur limitata) dei mercati, chiude ogni significativo spazio di riformismo borghese.

Così il testo ripropone l’utopistica ipotesi di un cambiamento del modello di sviluppo senza porre in questione il modo di produzione capitalistico. In realtà tale ipotesi era già utopistica nel periodo del boom post-bellico. Allora quello che si ottennero furono grandi conquiste in un quadro socio-politico mondiale profondamente diverso (in cui determinante era la presenza, al di là del dominio burocratico, dell’URSS e degli altri stati sfuggiti al dominio del capitale), caratterizzato da uno sviluppo economico capitalistico generalizzato di lungo periodo. Tali conquiste furono in ogni caso ottenute grazie allo sviluppo di grandi movimenti di lotta di classe. Tuttavia neanche in quella fase si incise sul “modello di sviluppo”. Le sue caratteristiche (il cosiddetto “fordismo”) furono determinate non dalla classe operaia, ma dalle esigenze e dinamiche del capitale.

Riproporre oggi, nella fase attuale, la prospettiva (sempre utopistica, nel quadro della società capitalistica) della “modifica del modello di sviluppo” a positivo per le masse, significa riproporre assurdamente un’illusione nel momento peggiore. Mentre proprio la individuazione di un progetto anticapitalistico e socialista può essere il volano di conquiste parziali, in questo momento prevalentemente difensive, domani anche offensive.

Il rischio è che, al di là di un “movimentismo radicale” d’immagine si accetti nei fatti l’idea che il quadro generale è dato e che ciò che è possibile è una forma di “disobbedienza” (su tutti i terreni politici e sociali) senza progetto di trasformazione della società. Ripetendo con ciò – in forma un po’ più a sinistra – teorizzazioni errate molto presenti nel nostro partito una decina di anni fa, di fronte al cosiddetto trionfo del “postfordismo”. Teorizzazioni che sono, lo ripeto, il miglior viatico per non ottenere nulla sul terreno concreto.

Queste problematiche non sono astrazioni, ma incidono concretamente sul terreno programmatico, rischiando di portarci ad un puro minimalismo. Si può citare ad esempio, nel testo per l’Assemblea, la questione della precarietà e della flessibilità. Giustamente si indica come questa questione sia oggi centrale per e nella classe, e nella società. Tuttavia le proposte restano minimali e non c’è nemmeno la richiesta dell’abolizione dei contratti atipici con la trasformazione di quelli esistenti in contratto a tempo pieno e indeterminato (si potrebbe pensare, volendo fare una battuta – che poi tanto battuta non è – che qualcuno si vergogni di proporre l’abolizione del "pacchetto Treu", che fu un pilastro nello sviluppo della flessibilità e precarietà, perché lo votammo all’epoca del governo Prodi; ma naturalmente la questione è più generale).

Allo stesso modo in cui è carente sul terreno programmatico il testo non fa un bilancio coerente e approfondito della politica della CGIL negli ultimi anni e del nostro approccio verso di essa. Io credo che tale bilancio non sia positivo e che la politica della CGIL abbia portato il movimento in una impasse. Certo oggi l’azione della CGIL è migliore, se paragonata a quella dell’epoca del governo di centro-sinistra. Ma essa rimane assolutamente limitata e contraddittoria. Scioperi generali centellinati, nessuna piattaforma vertenziale, nessun progetto antagonista; ma la ricerca, attraverso una pressione controllata, della ricostruzione di un terreno di concertazione e una autoaffermazione di ruolo senza progetto alternativo. Mentre le mobilitazioni di massa hanno espresso (certo con alcune contraddizioni) le grandi potenzialità del movimento. Di fronte a ciò e alla gravità dell’attacco padronale e governativo l’atteggiamento della CGIL mi pare configurarsi come una forma “soft” di tradimento di classe:

Come PRC, a parte qualche isolato distinguo iniziale (lo “sciopericchio”, e “sciopericchio” era, piaccia o no il termine, che è cosa secondaria) ci siamo adattati alla gestione cofferatiana. Abbiamo nei fatti riproposto quella “sospensione della critica” che già praticammo nei confronti della CGIL nel lontano '94, al momento della lotta per le pensioni.

Anche in questi due anni non abbiamo avanzato una piattaforma alternativa. Né indicato quella vertenza generale, su cui costruire uno sciopero prolungato, che appunto avrebbe potuto unificare il movimento intorno a rivendicazioni come il recupero salariale, il salario ai disoccupati, la riduzione d'orario senza flessibilità, l'abolizione dei contratti atipici, la difesa dello stato sociale. Né ci si può nascondere dietro un dito, come si è fatto da parte di importanti dirigenti del nostro partito, affermando che non possiamo indicare piattaforme e metodi di lotta perché questo spetta al sindacato e non ad un partito.

Prescindiamo dal fatto che oggi (ciò che del resto non è certo una novità nella storia del movimento operaio) questa distinzione rigida è messa in discussione nei fatti da altri. Ma, in ogni caso, noi dovremmo essere un partito comunista e operaio che ha quindi non solo il diritto, ma anche il dovere di avanzare proposte per il movimento di massa, che poi i compagni inseriti nelle aziende e nel movimento sindacale devono agitare e cercare di tradurre in pratica.

Al congresso nazionale della CGIL la nostra incapacità di esprimere una linea alternativa si è tradotta nel voto favorevole dei/lle nostri/e compagni/e (con pochissime, lodevoli eccezioni) al documento conclusivo unitario.

L'unico terreno su cui ci siamo differenziati è stato quello, giusto, del referendum sull'art 18. Oggi la battaglia referendaria è centrale per noi e per il movimento operaio. Ma questo non giustifica l'assenza di proposta autonoma e alternativa sul terreno della lotta di massa. Un partito comunista dovrebbe sempre saper coniugare l'intervento sul terreno istituzionale- elettorale (compreso quello referendario) con una prioritaria battaglia sul terreno dello scontro sociale.

Nella stessa vertenza Fiat ci siamo limitati ad un approccio propagandistico, senza porre il problema centrale delle forme di lotta, cioè l'indicazione dell'occupazione delle aziende da parte dei lavoratori, come unico metodo veramente efficace per contrastare i piani Fiat. Non abbiamo così dato sponda alle potenzialità che si sono espresse in questo senso alla Fiat di Termini Imerese e alle posizioni portate avanti dai nostri compagni (si veda sull'ultimo numero di Progetto Comunista l'articolo significativamente intitolato "Fiat, una sola soluzione: l'occupazione", a firma di Luigi Sorge, dirigente del SinCobas della Fiat Cassino, e Antonio D'Andrea, Rsu FIOM alla Fiat Melfi e segretario del circolo PRC di fabbrica).

Ritengo quindi che sia necessario un chiaro cambiamento di linea e che, a partire da Terni dobbiamo continuare e approfondire il nostro dibattito. Sapendo che anche i problemi riguardanti il nostro intervento nel mondo del lavoro e nel sindacato rimandano a questioni di linea politica più generale del nostro partito.

Tutto si tiene, infatti, e su questo vorrei cercare di essere chiaro.

Prendiamo un esempio, specifico, ma importante, della nostra storia. Io credo che la rottura di Alternativa Sindacale, con la nascita della "Area dei Comunisti" fu esiziale per la nostra azione e la nostra strutturazione in CGIL e anche al di là di essa. Ebbene tale Area nacque (nel momento in cui la stragrande maggioranza degli attivisti di AS si riconosceva nel nostro partito) non solo o prevalentemente da contraddizioni interne e dall'ostilità nei confronti di Giampaolo Patta. Ma prevalentemente dalla volontà del gruppo dirigente centrale del partito di disporre di un'area sindacale acriticamente "fedele alla linea", nel momento della collocazione del nostro partito nella maggioranza di governo e dell'appoggio alle varie finanziarie "lacrime e sangue", pacchetto Treu, etc..

Ugualmente la nostra odierna ambiguità verso il cofferatismo (ed oggi anche verso il "pattismo") nascono prevalentemente da un elemento politico. La volontà cioè di non scontrarci con nettezza con chi può o potrebbe rappresentare un ponte politico tra noi e il centro-sinistra, con cui (al di là delle ambiguità sul "superamento dell'Ulivo") ricerchiamo (e pratichiamo ovunque possibile a livello locale) una ricomposizione.

Per cui io credo quindi che anche la messa in cantiere di un salto di qualità sul terreno del mondo del lavoro potrà svilupparsi solo se scioglieremo il nodo politico tra costruzione del PRC come partito antagonista e rivoluzionario oppure, al contrario, come quinta ruota "critica" del carro di un centro-sinistra padronale (qualunque sia il suo nome futuro).

Mi pare evidente in quale direzione, a mio parere, tale nodo vada, appunto, sciolto.

 

 (*) Sintesi dell'intervento con cui Franco Grisolia ha sostenuto le posizioni della sinistra del partito nell'Assemblea di Terni