Privatizzazione e svendita del patrimonio culturale

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di Nadia Del Severo

 

Da un decennio a questa parte la gestione e la tutela dei beni culturali hanno subito un'inversione di tendenza rispetto al precedente indirizzo giuridico-amministrativo. Ovviamente il capitalismo italiano non ha mai permesso che le ricchezze culturali del paese venissero realmente considerate un bene collettivo. Le ricchezze artistiche andrebbero intese come elemento integrante della vita sociale, ancorate alla loro storia, quindi come una vera e propria forza della collettività. I musei rispecchiano non solo il collezionismo, ma in primis la storia sociale che le ha prodotte. Formalmente, l’art. 9 della Costituzione afferma che “la Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Una sentenza della Corte Costituzionale (151/1986) ribadisce che l'art. 9 fissa “la primarietà del valore estetico-culturale”, che non può essere “subordinato ad altri valori, ivi compresi quelli economici”. In sostanza, il pregio di un bene culturale non si quantifica in denaro, ma sulla base dell'utilità che dalla sua tesaurizzazione (conservazione) si riflette sulla società nel suo insieme.

Tuttavia, nonostante le parole, la politica dei beni culturali non è stata conforme a tali dettami. In particolare, dagli anni ’90 in poi si è assistito ad un processo di privatizzazione e svendita del patrimonio culturale, portato avanti indifferentemente dai governi di centrodestra e centrosinistra.

 

Centrodestra e centrosinistra a confronto

Il Ministro dei Beni Culturali del governo Amato, Ronchey, inaugura il nuovo corso con il Dl 433/1992 (divenuto Legge 4/1993), nel quale si contemplano, nei musei, “servizi aggiuntivi a pagamento”, librerie e ristorazione (gestiti dai privati) e l'impiego dei volontari (ovvero manodopera non pagata) per prolungare gli orari di apertura. Il Decreto 433/1992 e la Legge 4/1993 vengono preceduti dalla Legge quadro sul volontariato n. 266 dell'11 agosto 1991, che racchiude le procedure da mettere in atto affinché le associazioni di volontariato conseguano il riconoscimento formale per garantire l'apertura prolungata degli Istituti del Ministero per i Beni Culturali: un effetto della politica dei tagli dei fondi pubblici e del personale

Allo stesso governo risale la riforma del titolo V della Costituzione, che introduce un nuovo principio giuridico: la tutela rimane allo Stato, la valorizzazione viene attribuita alle Regioni. Nel contempo, si favorisce l’avvento di “benefattori” privati: l’intervento di capitali privati dovrebbe apportare competenze tecnologiche ecc. nella gestione del patrimonio. Si sono create così le premesse di un conflitto di competenze tra Stato, Regioni e privati, in un’ottica complessiva di smantellamento del servizio pubblico.

Nel 1994 la legge Merloni sulle procedure per accedere ai lavori pubblici ha stabilito surrettiziamente che il Ministero dei Lavori Pubblici (ora delle Infrastrutture) assumesse potere di normazione in materia spettante al Ministero dei Beni Culturali ed ha fatto in modo che “in un paese che ha un vastissimo patrimonio di beni culturali, la sua tutela avvenga così: si fa un piano generale frettoloso, viene messo ad asta pubblica e il progetto economico che ribassa di più vince, abbattendo almeno del 30-40 per cento i costi. Con conseguente esclusione degli specialisti e l’impossibilità del controllo sui lavori, su ‘chi’ li realizza. …Oggi le gare d’appalto trattano un quadro come un’autostrada e quindi solo le ditte edili fanno i lavori” (Il manifesto, 27/01/04).

Nel 1995 Paolucci, Ministro dei Beni Culturali del governo Dini, con il Dl 41/1995 (divenuto Legge 85/1995), prevede di dare in gestione non solo librerie e ristorazione, ma anche i servizi di guida, assistenza didattica, organizzazione di mostre ecc. a fondazioni culturali, consorzi privati o banche, pur riservando allo Stato “gli obblighi di tutela”.

Il Ministro dei Beni Culturali del governo Prodi, Veltroni, rende possibile, con Dl 112/1998, il trasferimento a Regioni ed Enti locali della gestione e della valorizzazione dei beni culturali: Stato, Regioni ed Enti locali “concorrono all'attività di conservazione e valorizzazione dei beni culturali”. E’ conforme a questo orientamento l'art. 16 del Testo Unico (490/1999), secondo il quale alla catalogazione garantita dal Ministero si aggiunge quella, compiuta da Regioni ed Enti locali, dei beni culturali loro appartenenti, ma anche di altri beni esistenti sul proprio territorio.

La trasformazione del Ministero dei Beni culturali in Ministero per i Beni e le Attività culturali, compiuta durante il governo Prodi, ha attribuito a un unico dicastero la competenza sui beni culturali e quella sullo spettacolo e lo sport. Di conseguenza, il Ministro competente potrebbe puntare tutto sul cinema, trascurando musei, scavi e monumenti, oppure essere troppo occupato dal campionato di calcio per badare al patrimonio!

Il Dl 351 del 25/09/2001 del governo Berlusconi (divenuto Legge 23/11/2001 n. 410) stabilisce la ricognizione dei beni immobili pubblici, concedendo il beneplacito al Ministero dell'Economia e delle Finanze a realizzare S.r.l. che effettuano un programma di cartolarizzazione degli introiti conseguiti dalla dismissione del patrimonio immobiliare dello Stato e degli Enti pubblici. Esso prevede la possibilità di affidare la totalità dei beni dello Stato a due società per azioni: la “Patrimonio dello Stato S.p.a.” e la “Infrastrutture S.p.a.”. Il patrimonio vendibile comprende: coste, parchi, fabbricati storici, proprietà demaniali, musei, monumenti, beni culturali e ambientali ecc.

L’articolo 32 del Disegno di Legge-delega (1753-B) del 2004 consente di fatto la sanatoria degli illeciti in materia paesaggistica, aggravando in sostanza le norme del condono edilizio.

A coronamento di questo percorso si arriva al Codice Urbani del 16/01/04, che fissa i criteri secondo i quali si può vendere un bene culturale. Di fatto esso restringe la tutela a tal punto da rendere tutto alienabile, eccetto quei beni che in 120 giorni si riesce a dimostrare siano di particolare valore storico-culturale: passato questo tempo (in cui pochissimi tecnici dovrebbero valutare migliaia di pratiche), scatta il “silenzio-assenso”.

 

Un’ottica aziendalistica

Rispetto alla concezione del patrimonio pubblico come bene comune controllato e salvaguardato dallo Stato, che caratterizza con continuità -ovviamente in un’ottica classista e capitalistica- la legislazione italiana dei beni culturali dalle antiche collezioni reali alle leggi fasciste e ai decreti presidenziali degli anni ’60, le disposizioni e leggi approvate dagli anni ’90 in poi creano un nuovo metodo gestionale del patrimonio nazionale e un diverso approccio culturale e giuridico alla stessa gestione. Il cambiamento di indirizzo viene motivato dall'arretratezza dell’apparato organizzativo e gestionale italiano rispetto a quello degli altri paesi (in particolare degli Usa), in linea con la tendenza ad adottare una filosofia aziendalistica, che considera il Museo un’“azienda orientata al mercato”, come si disse nel convegno su “La gestione dei beni artistici e culturali nell’ottica del mercato”, tenutosi nel 1998 all’auditorium della Confindustria di Roma.

Come si vede, sono gli stessi Governi della Repubblica a violare palesemente la Costituzione repubblicana. A tutto ciò si aggiunge il fatto che i finanziamenti sempre più esigui costringono diversi istituti (soprattutto archivi e biblioteche) a chiudere l'accesso al pubblico. Il blocco delle assunzioni impedisce l'apertura prolungata di diversi musei e siti archeologici, e si riesce ad assicurare un regolare orario di apertura dei siti espositivi solo grazie al ricorso a personale precario, e in particolare grazie ai lavoratori assunti a tempo determinato durante il Giubileo del 2000, che da allora si vedono rinnovare il contratto di anno in anno, senza avere neanche diritti, come la malattia, riconosciuti ai lavoratori fissi.

La decisione del Prc di entrare a far parte di un eventuale futuro governo di centrosinistra si traduce, anche dal punto di vista della tutela del patrimonio culturale italiano, in un regalo al padronato italiano e in una rinuncia di fronte alle ingerenze delle aziende. E’ stato proprio il centrosinistra a dare inizio al processo di aziendalizzazione e privatizzazione dei Beni culturali: al centrodestra ora non resta che portare a compimento il percorso. Solo l’alternativa anticapitalistica può interrompere i processi di privatizzazione, aziendalizzazione, taglio e precarizzazione del personale.