L'Irak resiste

L'imperialismo impantanato

Serve l'indipendenza di classe del movimento contro la guerra

 

 

di Alberto Madoglio

 

E’ passato un anno dall’inizio della guerra contro l’Irak e tutte le previsioni da noi avanzate dodici mesi or sono si sono avverate. Se la vittoria della coalizione anglo-americana è stata abbastanza agevole, non si può dire altrettanto per il dopoguerra.

Dalla fine delle ostilità, il Paese è caduto in un caos senza apparente via di uscita. Gli attacchi alle truppe di occupazione si sono gradualmente intensificati, così come il numero di vittime subite da americani, inglesi, spagnoli e italiani.

Negli ultimi tempi poi gli attacchi contro le forze irachene che collaborano con gli occupanti, contro i curdi e contro gli sciiti hanno raggiunto un livello di violenza tale che, al confronto, la Beirut degli anni ottanta appare ridimensionata.  

In Palestina, altra zona del medio oriente che avrebbe dovuto trarre beneficio dalla caduta di Saddam, secondo i vari sostenitori della guerra in Irak, il già precario “percorso di pace” è ormai morto e sepolto. Con la costruzione del muro di sicurezza (difesa giorni fa dal segretario Ds Fassino) il governo di Tel Aviv mira a segregare i palestinesi nel più grande lager della storia. E il tutto in un mondo capitalista si trova ancora in una fase di stagnazione perché la tanto sperata ripresa economica che le spese di guerra avrebbero dovuto favorire non c’è stata.

Tutto ciò sta avendo pesanti sviluppi negativi nella politica interna dei Paesi occupanti.

Negli Usa, il combinato disposto tra il pantano in cui si è cacciata l’avventura militare irachena, la sempre più evidente falsità riguardante le armi di distruzione di massa in possesso di Saddam (la cosiddetta “smoking gun”) e per finire la non adeguata creazione di nuovi posti di lavoro, stanno mettendo sempre più a rischio la rielezione di Bush alla carica di presidente, cosa non impossibile fino a poco tempo fa.

Stesso discorso per l’Inghilterra, l’altro Paese insieme all’Italia, in cui le proteste contro la guerra hanno avuto la portata più vasta: il primo ministro Blair si trova sempre più sotto l’attacco di mass media e di larga parte della popolazione, prima a causa dello scandalo Kelly (il funzionario morto mesi fa, che aveva svelato alla stampa le bugie di Downing Street per giustificare la guerra), oggi per essere invischiato nello scandalo delle intercettazioni a danno del segretario generale dell’Onu, Kofi Annan.

In Italia, la situazione non è per nulla diversa, anzi, è molto più complicata sia per quanto riguarda il governo, sia per l’opposizione di centro sinistra, ma anche per il Prc.

L’incondizionato appoggio agli Usa del governo, avrebbe dovuto favorire da un lato la partecipazione dell’imperialismo italiano alla spartizione del bottino di guerra, consentendo all’Italia di diventare il partner europeo per eccellenza della Casa Bianca, secondo solo alla Gran Bretagna, e dall’altro consentire a Berlusconi di acquistare così definitiva consacrazione nel ruolo di statista internazionale.

Queste attese però sono andate deluse. Prima Berlusconi è stato escluso dal vertice a tre delle Azzorre dove Usa, GB e Spagna hanno pianificato l’intervento in Irak, poi non è stato invitato alla nascita del nuovo direttorio Europeo composto da Francia, Germania e Gran Bretagna, che punta così a diventare il trait d’union tra Usa e Unione Europea (o di quello che ne rimarrà dopo il fallimento della nascita della Costituzione Europea, altro colpo per Berlusconi che all’epoca era il Presidente di turno della Ue).

Il fatto, pur non secondario, che la multinazionale italiana Eni abbia ottenuto delle commesse per l’estrazione del petrolio in Irak, non serve a compensare il sostanziale, per il momento, insuccesso del Governo in politica estera che, come ricordato, ambiva a risultati migliori.

Sul versante interno, il momento di “cordoglio” e di “unità nazionale” avvenuto dopo l’attacco alle forze di occupazione italiane a Nassirya è durato molto poco, e il riprendere delle mobilitazioni contro il proseguimento dell’occupazione a partire dalla manifestazione del 20 marzo non farà altro che aumentare le difficoltà di una maggioranza sempre più in crisi.

Anche la coalizione di centro sinistra si è trovata in difficoltà nelle ultime settimane sulla questione irakena.

Un anno fa, un malinteso ed ipocrita appello all’unità per la pace aveva consentito ai partiti dell’Ulivo (che in passato, quando erano al governo, avevano dimostrato tutto il loro carattere imperialista guerrafondaio - Somalia, Albania, Serbia, per citare i casi più famosi), di partecipare alle imponenti mobilitazioni contro la guerra: alla maggior parte dei milioni di persone che avevano partecipato a queste manifestazioni, poteva sembrare che i partiti del centrosinistra avessero finalmente deciso di mutare la loro politica, e di diventare leali sostenitori della pace e della non violenza. In realtà le scadenze dell’agenda politica, l’accavallarsi del dibattito parlamentare sul finanziamento delle missioni dell’esercito italiano all’estero (cioè tutte le occupazioni militari in cui esso è coinvolto) con le nuove manifestazioni per condannare l’occupazione dell’Irak a un anno esatto dall’inizio dei bombardamenti, si sono incaricate di smascherare questo imbroglio.

La scelta di Ds, Margherita e Sdi (il famigerato triciclo), di assentarsi dalle aule parlamentari al momento del voto sul rifinanziamento della missione italiana in Irak ha inizialmente causato forti tensioni all’interno di questi partiti (espresse in particolar modo dalla sinistra Ds), con gli altri partiti dell’Ulivo (Verdi, Comunisti Italiani e Lista Occhetto Di Pietro), e infine nei rapporti con il movimento.

In verità, nei primi due casi, si tratta solo di questioni legate alla visibilità della minoranza del partito di Fassino e dei cosiddetti “cespugli” dell’Ulivo.

Il voto contrario, in difformità con le indicazioni dei gruppi dirigenti della lista prodiana, non deve nascondere il fatto che i dissidenti non mettono in discussione né il sostegno dato in passato (e ancor oggi rivendicato) alle avventure militari dell’imperialismo italiano accennate in precedenza, né la natura di classe imperialista della coalizione di centrosinistra, anzi continuano ad affermare che un futuro governo a guida Prodi è ciò che serve per fermare la crisi politica e sociale attualmente in corso.

Parzialmente diverso il discorso sul versante del movimento.

Inizialmente da molti settori che organizzano la manifestazione del 20 marzo erano piovute critiche sul rifiuto dei parlamentari del triciclo di votare contro la missione in Irak: alcuni dei portavoce avevano addirittura minacciato di impedire la partecipazione alla manifestazione a tutti quei partiti che, sulla guerra, avevano avuto una posizione “ambigua” durante le discussioni parlamentari.

Anche in questo caso si tratta in parte di una polemica fittizia, funzionale alla necessità dei dirigenti del movimento di vedersi riconoscere un ruolo politico, in parte di una rappresentazione del disorientamento nella base reale del movimento, di fronte alla spregiudicatezza di Rutelli, Fassino e soci.

Dopo un breve periodo di tensione nei rapporti tra Ulivo e vertici del movimento, l’incidente diplomatico sembra essere chiuso e alla manifestazione per il ritiro delle truppe di occupazione dall’Irak molto probabilmente vedremo anche chi questa occupazione difende nei fatti.

Questo è anche un ulteriore segnale di come i leader del movimento siano del tutto inadeguati a rappresentare una direzione che possa conseguentemente lottare perché le rivendicazioni delle milioni di persone pronte a mobilitarsi, possano diventare realtà. La loro subalternità e collateralità al centro sinistra è il più grosso ostacolo ad ogni possibile ulteriore sviluppo e radicalizzazione delle mobilitazioni.

L’appello per un coinvolgimento dell’Onu per la soluzione della crisi irakena, è il simbolo di questa subalternità.

Viene però spontaneo domandarsi perché i principali partiti dell’Ulivo abbiano preso una decisione talmente impopolare anche tra i loro sostenitori, visto la loro attuale collocazione come forze di opposizione al governo non rendeva indispensabile questa prova di fedeltà all’imperialismo nostrano.

Due sono i motivi principali di questa scelta.

In primo luogo, una coalizione che si candida nel futuro a governare il Paese in nome e per conto della grande borghesia italiana, deve dimostrarsi ai loro occhi totalmente affidabile.

Pensare che chi oggi applaude all’elezione di un uomo Fiat alla presidenza di Confindustria, chi difende Bankitalia dal populista e demagogico attacco del centro destra, possa continuare ad avere posizioni che contrastano quelli che sono gli interessi materiali del capitalismo italiano, è solo un pia illusione.

In secondo luogo, ma forse primo per importanza, è che i maggiori partiti del centro sinistra non vedono chi oggi possa, basandosi sulla forza di milioni di persone che si oppongono a questa politica, rappresentare dal versante di classe un pericolo per il loro progetto politico complessivo.

La migliore garanzia di una tranquilla navigazione per la Lista Prodi, nonostante qualche piccola burrasca, è la scelta del Prc di puntare ad un accordo politico di governo col centro liberale dell’Ulivo per le prossime elezioni politiche.

Già oggi noi possiamo notare che questa sciagurata scelta del nostro partito, è non solo un ostacolo alla nascita e allo sviluppo di una reale alternativa anticapitalista alle politiche ultra liberali ed antioperaie seguite negli ultimi anni dai vari governi, ma anche, nell’immediato, un ostacolo allo sviluppo di tutte le potenzialità del movimento contro la guerra, condannandolo quindi alla sconfitta.

La battaglia che come sinistra rivoluzionaria del Prc stiamo sostenendo in questi anni e negli ultimi mesi contro l’accelerazione governista intrapresa dal partito non ha quindi nulla di "politicista". Al contrario: è solo combattendo contro queste sciagurate scelte della maggioranza del gruppo dirigente del Prc che possiamo indicare, anche nelle lotte immediate, una concreta prospettiva alternativa. Una prospettiva basata sull'indipendenza di classe di tutti i movimenti: senza la quale tutti i movimenti sono destinati alla sconfitta.