Palestina
Al
fianco dei palestinesi: da rivoluzionari
L'inganno
dell' "accordo di Ginevra"
di Letizia Mancusi
L’ambiguità del nostro
partito rispetto alla questione palestinese diventa ogni giorno più
insopportabile, mentre il dibattito ed il confronto promesso, anche su questa
materia, viene costantemente eluso dal gruppo dirigente.
L’analisi
politica della situazione palestinese e il posizionamento del Prc rispetto ai
possibili sbocchi sono andati di pari passo per un verso con il drammatico
peggioramento della situazione in Palestina per l’altro con la precipitazione
verso l’abbraccio mortale del partito con il centrosinistra. Questa
concomitanza, se da una parte spiega le scelte di politica internazionale del
gruppo dirigente, risulta incomprensibile rispetto alla necessaria mobilitazione
che la drammaticità della contingenza richiederebbe. Mentre il governo sionista
del criminale Sharon senza tentennamenti porta avanti il programma di
“soluzione finale” per la Palestina e tutto il popolo palestinese,
assommando crimini a crimini, in Italia quello che dovrebbe essere il Partito
Comunista impone un ulteriore freno alla giusta solidarietà verso la lotta di
liberazione del popolo palestinese, alla mobilitazione, alla sensibilizzazione
rinunciando finanche ad una corretta e doverosa controinformazione su quanto
realmente accade in Palestina.
Il Prc in questi ultimi due
anni ha sempre tentato di boicottare qualsiasi iniziativa significativa per la
Palestina; ha tentato di emarginare tutti quei movimenti, quelle associazioni,
quelle organizzazioni che hanno lavorato e lavorano per la Palestina e che non
potevano essere controllate o addomesticate agli interessi di bottega del Prc.
Questa operazione non è comunque riuscita, prova ne sono i 40 mila compagni in
piazza l’8 novembre scorso. Manifestazione spudoratamente boicottata dal
partito, che non ha esitato a spaccare il suo maggiore organismo dirigente, in
nome della strenua difesa della teoria della “spirale guerra terrorismo” e
della svolta verso un pacifismo oltranzista. Manifestazione nata dalla
sollecitazione delle Ong palestinesi che attraverso un appello chiamavano alla
mobilitazione internazionale contro il “muro della vergogna” che si sta
costruendo in Palestina.
Al di là comunque
dell’atteggiamento ambiguo ed ipocrita del partito sulla Palestina -
atteggiamento purtroppo non solo di oggi - è sicuramente preoccupante
l’entusiasmo che ha dimostrato il gruppo dirigente del nostro partito rispetto
agli accordi di Ginevra del primo dicembre scorso. Il partito si è
acriticamente allineato al coro di consenso che si è levato da tutto lo
schieramento di centrosinistra; cori di giubilo che hanno obiettivamente posto
in secondo piano l’emergenza stringente che pone la costruzione del muro per
la mera sopravvivenza del popolo palestinese all’interno dei territori e di
Gaza.
Se questo atteggiamento è
comprensibile da parte di forze sociali e politiche che rispetto al problema
palestinese si sono da sempre poste su un terreno di equidistanza - nei fatti di
complicità e contiguità con i governi israeliani (vedi i Ds) - diventa grave e
indecifrabile l’appiattimento del Prc su queste posizioni se non interpretato
funzionalmente ad altri disegni politici.
Il sostegno che il nostro
partito ha dimostrato agli accordi di Ginevra non si è infatti minimamente
distinto. Il partito non ha aderito alla manifestazione dell’8 novembre contro
il muro ma risultava tra i promotori dell’iniziativa di pochi giorni fa al
Panteon, iniziativa che si è concretizzata nella presenza di qualche decina di
burocrati di partito e poche altre partecipazioni.
Riteniamo che l’accordo di
Ginevra, di cui peraltro non si conoscono appieno i dettagli ed in particolare
il famoso allegato che viene menzionato ma che nessuno ha ancora visto, vada
respinto totalmente perché nei fatti rappresenta un grave arretramento rispetto
alle legittime rivendicazioni del popolo palestinese.
In primo luogo viene negato
il “Diritto al Ritorno” per i profughi palestinesi, che nel documento non
viene neanche menzionato mentre al suo posto compare il termine “scelta di un
luogo di residenza permanente”. Si offrono ai rifugiati tre opzioni possibili:
lo Stato di Palestina, le zone di Israele che saranno trasferite alla Palestina
nell’ambito dello scambio di territori, paesi terzi. Rispetto all’ultima
opzione si intendono i paesi di attuale accoglienza ed anche Israele, secondo
quote concordate ed accettate dai paesi stessi. Quindi Israele viene equiparato
a tutti gli altri paesi disposti ad accettare quote di palestinesi profughi.
Questa affermazione implica la rimozione di qualsiasi responsabilità di Israele
di fronte alla storia rispetto alla pulizia etnica perpetrata ai danni del
popolo palestinese dal 1948 ad oggi. Tali opzioni saranno praticabili per i
rifugiati palestinesi all’interno di un periodo limitato (5 anni) pervenendo
all’assurdo che per coloro che rifiutando gli accordi non esercitassero alcuna
scelta si prospetterebbe una vita da apolide senza Stato e senza Status.
Come già accennato,
rispetto a questioni di primaria importanza, si rimanda ad un fantomatico
allegato di cui nessuno ha potuto verificarne la sostanza. Nel merito, per
quanto riguarda i tempi e i modi di evacuazione dei coloni dagli insediamenti
interni a quello che dovrà essere lo Stato di Palestina, le aree da cui
dovranno ritirarsi gli israeliani, i confini e le modalità di controllo degli
stessi, si parla di una presenza militare all’interno della Valle del Giordano
i cui particolari sono descritti nel famoso allegato, e sempre all’allegato si
rimanda per la definizione “delle due postazioni di vigilanza al nord ed in
Cisgiordania” (postazioni militari naturalmente israeliane). L’unica cosa
che si evince con chiarezza dall’accordo è che la Palestina sarà uno Stato
totalmente smilitarizzato mentre Israele manterrà una consistente presenza
armata sul suo territorio.
Per quanto riguarda infine
il controllo delle risorse idriche, di vitale importanza per tutto il
territorio, nell’accordo si riporta la semplice dizione “da definire”.
Ma aldilà delle
considerazioni fin qui fatte circa il documento, tutte talmente gravi da rendere
inconsistente nei fatti l’operazione a cominciare dalla negazione del
“diritto al ritorno” per gli oltre 4 milioni di profughi, quello che
dovrebbe rendere inaccettabile per il nostro partito il documento, qualunque
siano i contenuti, è quanto esplicitato nel preambolo.
Preambolo che testualmente
riporta il “…riconoscimento del diritto del popolo Ebreo ad uno stato…”:
viene quindi riconosciuta la legittimità di uno stato fondato su basi
etnico-religiose, un popolo ed uno stato le cui basi fondative sono solo ed
unicamente la comune religione. Assunto
dal quale si sviluppa, dalla seconda metà del ‘800, la teoria sionista,
inaccettabile da qualsiasi punto di vista proprio perché fondata su un
principio che porta sistematicamente verso degenerazioni profondamente razziste.
Le suggestioni “socialisteggianti” che nella storia dello stato di Israele
sono state utilizzate e sono utilizzate anche da certa “sinistra” italiana
come crediti verso la legittimazione del sionismo - si pensi all’esperienza
dei Kibbutz - altro non sono che folli degenerazioni. Il socialismo per un
popolo solo (per gli “eletti” di religione ebraica forme di socializzazione,
per gli “altri” razzismo, emarginazione sociale ed economica fino alla
definizione, per regola statutaria, di cittadini di serie “B”). Si veda
inequivocabilmente il trattamento riservato al milione e mezzo di cittadini
arabi dello stato di Israele come ai circa 500.000 lavoratori immigrati non di
religione ebraica che si continua ad ignorare rispetto a qualsiasi forma di
tutela sociale.
La teoria di “uno stato
per il popolo ebreo” e le sue degenerazioni razziste sono utili a comprendere
anche l’ossessione demografica che percorre tutta la storia di Israele e che
è alla base di tutte le operazioni di pulizia etnica di cui quello stato e
tutti i governi che si sono succeduti a partire dal governo di Ben Gurion si
sono macchiati. La base fondativa
etnico-religiosa di Israele, presuppone uno Stato il più etnicamente puro e
quindi la necessità di definire una “soglia di tolleranza” per gli
“altri”. Da qui la necessità di spingere masse di ebrei verso Israele, di
cui le immigrazioni dai paesi dell’Est e dall’Africa sono un chiaro esempio,
e i tentativi di imporre attraverso le persecuzioni quotidiane l’esodo ai
cittadini arabi. Operazione portata
avanti sistematicamente non solo dentro i confini del ‘67 ma rispetto a tutta
la Palestina storica.
Ultima ma non ultima
riflessione in merito all’accordo: ritengo sia necessario sfatare il mito,
accreditato anche dai “nostri” dirigenti nazionali, che l’accordo
rappresenti la sintesi delle pulsioni di parte della società civile
Israelo-palestinese – un accordo nato dal basso – come se questo possa
rappresentare un titolo di credito al di là del merito. Peraltro non è neanche
vero: i due capi delegazione Rabbo per la parte palestinese e Belin per la parte
israeliana, sono entrambi ex ministri, ceto politico fortemente screditato e da
anni ai margini della vita politica, come tutti coloro che seguono minimamente
la situazione mediorientale sanno. Infine, per quanto riguarda la parte
palestinese, le palesi contestazioni che tutti abbiamo potuto vedere alla
partenza della delegazione per Ginevra dimostrano il livello di popolarità di
questi personaggi tra la popolazione.
Chiediamo infine al
segretario come al responsabile esteri del partito quali sono i nostri
interlocutori palestinesi, con chi confrontiamo, in Palestina, le nostre
convinzioni in merito al destino della Palestina stessa. C’è la
consapevolezza tra il gruppo dirigente che nessuna voce realmente autorevole di
parte palestinese si è levata in favore dell’accordo di Ginevra: non un
intellettuale, non una organizzazione politica laica o islamica, non l’Autorità
Palestinese che non ha avuto il coraggio di sottoscrivere l’accordo. Nessun
palestinese dentro o fuori i territori potrà mai sottoscrivere un accordo che
nega il Diritto al Ritorno. Nessuno tranne quella parte minoritaria di borghesia
palestinese che vede sempre più minati i propri interessi personali, e non vede
l’ora di poter ricominciare in piena tranquillità i traffici economici e
commerciali (leciti ed anche illeciti) con Israele ed il resto del mondo ed ha
per questo bisogno di una pacificazione, quale che sia e a qualsiasi costo. Sono
forse questi i nostri interlocutori?