Il vero volto della non-violenza

 A proposito del libro La politica della non-violenza

 

di Fabiana Stefanoni

“Come nella vita privata si fa distinzione tra ciò che un uomo pensa e dice di sé e ciò che dice e fa in realtà, tanto più nelle lotte della storia si deve far distinzione fra le frasi e le pretese dei partiti e il loro organismo reale e i loro interessi reali, tra ciò che essi immaginano di essere e ciò che in realtà sono”

K. Marx

 

A voler prendere sul serio e alla lettera certe teorizzazioni sulla non-violenza contenute nel libro uscito con Liberazione -che, com’è noto, raccoglie gli interventi apparsi sul quotidiano del Prc e sul Manifesto in relazione al dibattito suscitato dalle dichiarazioni di Bertinotti al convegno veneziano sulle Foibe del dicembre 2003- viene la voglia di invitare i dirigenti della maggioranza bertinottiana del nostro partito a sottoporsi a un banalissimo test. Questi potrebbero essere i termini dell’inchiesta: “Ti trovi davanti a un energumeno con in mano un oggetto contundente (magari un manganello usato al rovescio) che ha l’evidente intenzione di aggredirti; accanto a te, una mazza corpulenta. Che fai?”. Le opzioni possibili: “a) prendi il bastone e, pan per focaccia, dai al mascalzone quel che si merita; b) per non introiettare in maniera speculare la violenza dell’aggressore (cfr. l’intervento di Russo Spena), rifiuti categoricamente l’utilizzo della mazza, conscio che solo preservando i mezzi da qualsiasi contaminazione con la violenza sarà possibile un mondo migliore”. Aggiungo che, per meglio indurre i nostri interlocutori a rispondere con coscienza di causa, verrà loro garantita la successiva messa in scena della situazione delineata all’inizio.  

Se a qualcuno parrà meschino il ridurre a una gretta osservazione di buon senso lo “spessore teorico” del dibattito, rispondiamo che se i dirigenti in questione fossero coerenti con quanto affermato nei loro interventi non potrebbero che optare per l’opzione B. Stando al loro dire, l’oggi sarebbe caratterizzato da una sorta di rivolgimento palingenetico in virtù del quale l’umanità tutta si troverebbe stretta nella morsa della spirale guerra-terrorismo: quasi fossero due divinità onnipotenti, la Guerra e il Terrorismo sarebbero in grado di “riassorbire la violenza in ogni sua variante”. Soprattutto, in virtù del suddetto rivolgimento, nel mondo contemporaneo “i mezzi sono inscindibili dai fini, sono due facce della stessa medaglia”: come dire che, per ritornare all’esempio iniziale, se per difendermi dall’energumeno intenderò usare un mezzo violento come la mazza inevitabilmente mi metterò sullo stesso piano dell’aggressore, risucchiato nella logica della Guerra o in quella del Terrorismo. Questo si afferma nel citato intervento iniziale di Bertinotti, che dà il via alle danze. Un intervento che, a leggerlo, ha un sapore tutto metafisico e non risparmia (salvo rettifiche dell’ultimo minuto) nemmeno gli atti minimali di autodifesa.

Non credete ai vostri occhi e pensate che si tratti di artifizi retorici senza alcuna pretesa di descrizione della realtà dei fatti? Macché! La bertinottiana scoperta della Palingenesi Universale viene ripresa pari pari e considerata serissima da quasi tutti gli altri dirigenti di maggioranza: Paolo Cacciari (“quando si dice che i mezzi stanno ai fini come il seme all’albero si demolisce il pensiero occidentale che regge le istituzioni capitalistiche da qualche secolo”), Domenico Jervolino (“quello che oggi s’impone è proprio la coerenza fra mezzi e fini”), Roberto Del Bello (“fatale scissione tra fini e mezzi”), Pasquale Martino (“superare la separazione dei due tempi, quello dei mezzi e quello dei fini”), Nichi Vendola (“abbiamo imparato che i mezzi cattivi si mangiano il fine buono, e cioè che i mezzi sempre prefigurano il fine”), Franco Giordano (“la non violenza è una parola chiave, perché è un mezzo che anticipa il fine”), Paolo Ferrero (“abbiamo capito che nella battaglia politica i mezzi che si utilizzano non sono indifferenti rispetto ai fini che si vogliono determinare”) ecc..

È per rispetto dell’intelligenza dei nostri interlocutori che non prenderemo alla lettera le loro affermazioni né augureremo loro di sperimentare sulla propria pelle le disavventure della virtù. Paragrafando il vecchio Karl, vogliamo credere che questo dibattito non sia che una “mascherata” in cui le grandi parole non servano ad altro che a “coprire le furfanterie più meschine”: nel caso specifico, l’annunciata entrata del Prc in un futuro governo Prodi-bis (ci perdoni il compagno Russo Spena per la “torsione politicista”).

Astrazione e realtà  

Ma restiamo ancora un po’ nel regno astratto della teoria e divertiamoci prendendo sul serio la grottesca difesa della “non violenza sempre e comunque” che domina il dibattito. Accanto all’insistente richiamo a valori etici e morali che già altri, secoli or sono, celebrarono indipendentemente dalla spirale Guerra-Terrorismo (ricordate il “porgi l’altra guancia” o l’“ama il prossimo tuo come te stesso”?), c’è un leitmotiv negli interventi della maggioranza bertinottiana che è ben riassunto dalle parole del compagno Russo Spena: “l’idea di società altra che vogliamo costruire (…) viene prefigurata dall’anticipazione che vive nel conflitto oggi”. Si tratta ancora una volta di una concretizzazione della scoperta metafisica della reciproca implicazione mezzi-fini: più in particolare, nella lotte attuali siamo caricati di enormi responsabilità perché ogni nostro gesto non sarà solo un mezzo utile a perseguire un fine, ma varrà anche da anticipazione del mondo futuro (l’astruseria del concetto non è colpa nostra). Per capirci: se qui e ora usiamo mezzi violenti, non potremo che dar vita a un mondo violento; se vogliamo che l’altro mondo possibile sia un mondo di pace, non potremo che utilizzare mezzi pacifici.

Come marxisti rivoluzionari, siamo convinti che di vera pace non si potrà parlare fintantoché saremo costretti a subire l’oppressione dello sfruttamento capitalistico, la violenza dell’imperialismo, la repressione degli Stati borghesi; siamo, in altre parole, convinti che per pensare a un mondo di pace è necessario porsi nell’ottica della costruzione del Socialismo. Le domande che vengono spontanee leggendo la frase di Russo Spena sono: se il superamento del capitalismo comporterà l’esproprio dei grassi capitalisti, non è forse razionale pensare che questi ultimi non si lasceranno denudare in allegria? anzi, non è facile immaginare che chiameranno a propria difesa le armate di Monsieur le Capital e organizzeranno una strenua resistenza? Dunque come sarà possibile arrivare alla vera pace se non “preparandosi a tutte le conseguenze che deriveranno dall’opposizione inevitabile delle classi possidenti” (L. Trotsky)? Non sarà forse necessario contrapporre alla violenza capitalistica la necessaria violenza della lotta di classe? Tentare di subordinare quest’ultima “a delle norme astratte significa disarmare i lavoratori che fronteggiano un nemico armato sino ai denti”[i]. La storia non offre possibilità di libera scelta: la rivoluzione sarà violenta o non sarà.

Ma sono domande e considerazioni che cadono nel vuoto se rivolte ai compagni della maggioranza dirigente del Prc. L’altro mondo possibile al quale alludono non è certo il Socialismo e il pacifismo delle pratiche che tanto elogiano prefigura, temiamo, un mondo della pace sui generis: quello della pace sociale concertata di un Prodi-bis, con la benedizione dei ramoscelli d’Ulivo che tanta pacificazione portarono nei Balcani durante il governo D’Alema.

Non è un problema d’identità  

La questione del fine è dirimente in questo dibattito, ma non nel senso in cui l’intendono i dirigenti di maggioranza del nostro Partito: l’abbattimento dell’ordine sociale esistente -con la connessa conquista rivoluzionaria del potere politico- dovrà essere l’obiettivo costante delle lotte, pena il perpetuarsi della violenza capitalistica. Come scriveva Rosa Luxemburg, diventata suo malgrado il simbolo del nuovo partito della sinistra europea (è proprio il caso di tornare a dire “giù le mani da Rosa Luxemburg!”), “lo scopo finale è il solo momento decisivo (…) che trasforma tutto il movimento operaio da un’inutile rattoppa per la salvezza dell’ordine capitalistico in una lotta di classe contro quest’ordine e per la sua abolizione”[ii]. È questo il punto centrale, che non lascia spazio a immaginifiche terze vie: o per un governo dei lavoratori e delle lavoratrici (che solo con la violenza rivoluzionaria vedrà la luce) o per i governi della borghesia (siano essi di centrodestra o di centrosinistra).

È bene precisare questo aspetto -che, del resto, ci pare evidente almeno quanto la non casualità del fatto che la maggioranza dirigente del Prc si pronunci a favore di un’opzione non violenta proprio mentre sta trattando con l’Ulivo- per evitare di cadere nell’inganno che la svolta culturale del partito abbia un valore in sé e sia slegata dalla svolta politica in atto. Di fronte alle bizzarre affermazioni dei compagni della maggioranza bertinottiana, i compagni dell’area neotogliattiana dell’Ernesto ne hanno approfittato per far buon viso a cattivo gioco. A molti lettori di Liberazione, magari non avvezzi a sperimentare sul territorio l’intransigente politica di collaborazione di classe portata avanti dai neotogliattiani del Prc, gli interventi di questi ultimi saranno forse apparsi “radicali” o, quantomeno, di buon senso. Il ritornello è sempre lo stesso che abbiamo sentito e risentito in occasione del V Congresso (si vedano in particolare gli interventi di Claudio Grassi, Alberto Burgio, Gianluigi Pegolo): non vogliamo mettere in discussione il nostro passato e la nostra identità di comunisti; dobbiamo contrastare l’offensiva revisionista; occorre schierarsi a difesa delle  forme di resistenza in giro per il mondo (Iraq, Palestina, Cuba, Colombia ecc). In soldoni: la non violenza può anche andar bene qui e ora, ma per il passato e in altri luoghi del pianeta il discorso cambia. Sennonché i compagni dell’Ernesto stanno marciando senza esitazioni e, anzi, con non poco entusiasmo verso lo stesso fine cui tende la maggioranza bertinottiana: l’entrata del Prc, con propri ministri, in un futuro governo Prodi, a braccetto con liberali e banchieri. La critica alla presa di posizione non violenta è puramente identitaria e di facciata e assume delle coloriture grottesche quando, nelle parole di Fosco Giannini, ci si scaglia con cipiglio contro l’esclusione “a priori” del “problema del potere rivoluzionario”. Flatus vocis: non c’è nulla di più facile che utilizzare le parole come giocattoli, senza alcuna pretesa di dare a esse una traduzione pratica; e anche il diavolo non si fa problemi a citare la sacra scrittura per i suoi fini. Se a certuni restasse qualche dubbio, ce lo spiega bene il compagno Pegolo cosa intendano i compagni dell’area Grassi per “presa del potere”: “la presa del potere come occupazione della sfera politico istituzionale” (sic!). Magari con qualche ministro e sottosegretario in un governo con la borghesia.



[i] L. Trotsky, La loro morale e la nostra, Bari 1967, p. 87. Cfr. anche L. Trotsky, Problemi della rivoluzione in Europa, Milano 1979, pp. 319-320: “il proletariato rivoluzionario incontrerà sulla via del potere non solo le avanguardie di combattimento della controrivoluzione, ma anche le sue grosse riserve. Solo schiacciando, spezzando e demoralizzando queste forze nemiche il proletariato sarà in grado di conquistare il potere statale”.

[ii] R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione, Roma 1973, p.30.