Alcune
riflessioni sulla lotta delle acciaierie di Terni
Contro
le mistificazioni padronali sul “declino industriale”, per il controllo
operaio della produzione
di Alessandro Borghi
Affrontare correttamente il caso delle Acciaierie di Terni
richiede sicuramente una certa attenzione, non solo per capire le dinamiche
economico-padronali che stanno dietro allo smantellamento del reparto
dell’acciaio magnetico, ma anche per capire quale strategia intende portare
avanti la classe padronale da qui ai prossimi anni.
Parallelamente è necessario osservare, dal nostro punto
di vista, come in questo caso i lavoratori non abbiano ricalcato per intero le
indicazioni di percorso e gli strumenti di lotta che solitamente le direzioni
burocratiche sindacali attuano in vertenze come questa.
Fotografare oggi le acciaierie ternane non è dissimile
dal fotografare qualsiasi altro impianto siderurgico italiano, nato come
pubblico e poi privatizzato agli inizi degli anni ’90, quando la
ristrutturazione capitalista nel nostro paese si faceva forte del programma di
privatizzazioni avviato dall’allora presidente dell’Iri Romano Prodi. Altra
peculiarità dello stabilimento umbro è la sua storia antica (è la prima
acciaieria italiana – 1886), storia che narra di una fabbrica che cresce
parallelamente alla città facendo di Terni il più importante nucleo
industriale del centro Italia.
Saranno gli anni ’90 appunto a determinare il definitivo
passaggio di questo sito industriale nelle mani di alcuni privati italiani (Falk,
Agarini, Riva) con la partecipazionie del gruppo Fried Krupp, passaggio che
durerà un decennio e si concluderà nel 1999, con le definitiva acquisizione
della maggioranza azionaria da parte della Thyssen Krupp Steel Italia Spa.
Declino industriale e
mistificazioni padronali
Oggi è significativo, più di altri, il caso di questa
fabbrica, per capire come falsa sia la teorizzazione che tutti si ingegnano a
darci sul declino industriale del nostro pese derivato da una mancanza di
innovazione e tecnologia da parte del padronato, innovazione che viene
presentata come la panacea attuale di tutti i mali. L’Ast è una fabbrica
leader del settore ed è parte integrante dell’impero della multinazionale
Thyssen Krupp, con sedi nell’Ue (Tyssen Krupp Ast – Thyssen Krupp Nirosta);
nord America (Thyssen Krupp Mexinox nel nord America); in Asia (Shanghai Krupp
Stainless). La sua produzione di Ast si concentra in maniera significativa su
una gamma di acciai tutti di alta qualità, basta pensare al campo dell’inox -
dove Thyssen Krupp è il maggiore produttore mondiale con una quota del 17% - o
al reparto magnetico: questa caratteristica differenzia la multinazionale dai
grandi gruppi siderurgici italiani. Tuttavia, è comune la volontà di
dismettere e delocalizzare in tempi anche rapidissimi nel momento in cui i
padroni trovano un nuovo spazio più conveniente ai profitti.
Qua non si vuole spiegare in maniera semplicistica una
legge che il capitale ha sempre attuato ogniqualvolta lo abbiano necessitato le
contingenze di mercato, ma è disarmante come di fronte a casi esemplari come
questo la teoria del declino industriale venga richiamata a sostenere tali
operazioni. Questo è tanto più vero oggi a Terni, dove si smantella un settore
che non dà assolutamente segnali di cedimento e, anzi, si tratta di un prodotto
di avanguardia nel campo degli acciai.
Le lotte operaie a Terni
Il secondo aspetto importante, che questa vertenza ci
rimanda, è come anche questa lotta tenda a radicalizzarsi, sulla scia delle
altre lotte che hanno segnato l’ultimo anno, a partire da Melfi per arrivare a
Fincantieri. L’importante segnale che i lavoratori dell’Ast ci consegnano è
quello dei picchetti ad oltranza alle portinerie della fabbrica, avvenimento
tanto più significativo per il fatto che la direzione aziendale arriva perfino
a denunciare la Fiom Cgil. Questa è la dimostrazione di come la lezione di
Melfi sia entrata nella coscienza dei lavoratori, che spingono in questo modo le
direzioni sindacali sul terreno dello sciopero ad oltranza.
Ma se da un lato registriamo un avanzamento nello
strumento di lotta dello sciopero prolungato, non possiamo spacciare l’accordo
siglato dalle tre confederazioni come una vittoria. A fine del 2005 il magnetico
chiuderà comunque e l’accordo, che prevede mobilità per chi è vicino alla
pensione, difficilmente potrà convincere che tutti i posti di lavoro
saranno salvaguardati. L’esperienza ci insegna che questi accordi nella
migliore delle ipotesi prospetteranno, parallelamente all’espulsione dalla
produzione di operai vicini alla pensione, una ricollocazione degli operai più
giovani nei reparti carenti di organico. Risultato: una sostanziale riduzione
della forza lavoro nel sito produttivo, una vittoria per la proprietà.
Da questa lotta dobbiamo comunque trarre ciò che di buono
ci consegna. I picchetti ad oltranza sono segnali importanti non solo perché
continuiamo soli - anche dopo Melfi, Scanzano (su un altro versante),
Fincantieri - a sostenere lo sciopero prolungato ad oltranza, ma perché questa
è la realtà dei fatti, che oggi si chiama Terni e domani potrà chiamarsi con
un altro nome.
Le responsabilità della
maggioranza dirigente del Prc
Ma occorre anche fare una critica al Partito della
Rifondazione Comunista. Tutti abbiamo osservato che, durante questo VI
congresso, la rivendicazione - a fronte di queste continue crisi aziendali –
della nazionalizzazione delle fabbriche senza indennizzo sotto controllo
operaio, l’unificazione sotto un’unica piattaforma di tutte queste lotte e
il sostegno alla più straordinaria forma di lotta che è lo sciopero prolungato
sono state rigettati dalla maggioranza dirigente del nostro partito. Molti ci
accusano di massimalismo verbale, molti ci dicono che lanciamo slogan da periodo
pre-rivoluzionario. Io credo che non ci sia peggiore insulto alla lotta operaia
di questi anni che bollare il nostro realismo con tali frasi. Si scrivono libri
sulle “primavere” operaie non capendo a fondo che solo il controllo operaio
dei mezzi di produzione è l’unico mezzo per mettere in crisi la società
capitalistica e abbatterla per un altro orizzonte, altre soluzioni non ce ne
sono.
Nessuna partecipazione a governi di collaborazione con la
borghesia potrà portare ad una trasformazione della società: ciò potrà solo
avvenire agendo direttamente nelle fabbriche dove si sviluppa la produzione,
dove si consuma lo sfruttamento. Capire questo vuol dire stare dalla parte dei
picchetti operai; capire questo vuol dire “essere ricordati come comunisti”,
non capire questo vuol dire stare da un’altra parte, quella di che sostiene
l’impianto economico dello Stato capitalista, che tutti i giorni ci schiaccia
nelle officine.