di Letizia Mancusi
In questo primo scorcio del
2005 gli eventi spacciati dalle potenze imperialiste come la prova tangibile
della democrazia finalmente portata o riportata in medio oriente sono
innumerevoli. Si inizia il 9 gennaio con le elezioni palestinesi, si continua il
30 con le elezioni in Iraq, per finire con la “splendida primavera di
Beirut” di inizio marzo (vedi Liberazione
del 3 marzo La primavera di Beirut. I
ragazzi di Piazza dei Martiri di Guido Caldiron).
La drammaticità della
situazione è che, ad eccezione di poche se non pochissime voci libere, che non
si aggirano sicuramente nelle
stanze del dipartimento esteri del nostro partito, a tutti questi episodi,
valutati positivamente, è stato dato da parte della sinistra italiana tutta, un imprimatur
di democrazia progressiva . I tre episodi citati sono sicuramente diversi tra
loro, soprattutto per i livelli diversificati di drammaticità del contesto in
cui si svolgono, ma tutti sono funzionali al nuovo progetto di dominio
imperialista e coloniale del medio oriente. Un progetto che vuole asservita e
controllata tutta l’area e conseguentemente vuole e deve chiudere
definitivamente la questione palestinese così come è nei progetti di Sharon e
di Bush.
Nelle liste elettorali delle
elezioni del 9 gennaio scorso erano iscritti 1.100.000 palestinesi (700.000
nella West Bank e 400.000 nella
striscia di Gaza), quanti avrebbero avuto realmente diritto di voto, visto le
regole imposte, nessuno lo sa. Nella situazione attuale, l’autorità
palestinese non è in grado di gestire un’anagrafe degna di questo nome, e
d’altra parte lo Stato sionista
non ha alcun interesse che si forniscano dati sulla reale consistenza della
popolazione palestinese, visto che in fondo non ha mai rinunciato al progetto di
transfert cioè di totale espulsione
di questa dalla Grande Israele. Stime
attendibili parlano di circa 1.800.000 aventi diritto al voto. Nella sola
Gerusalemme, dove si stima una presenza di circa 120.000 palestinesi potenziali
elettori, Israele, dopo trattative infinite, ha dato l’autorizzazione a
iscriversi alle liste elettorali e quindi a votare nei seggi allestiti nella
città vecchia, a solo 6.300 abitanti (1.300 in più che nel ’94). Le regole
del voto presidenziale, le stesse del ‘96, escludevano il diritto di voto sia
ai palestinesi dei campi profughi all’estero che ai detenuti nelle carceri
israeliane . Dunque è stato ancora una volta
negato il diritto di voto alla
parte più consistente della popolazione palestinese, solo nella diaspora si
parla di oltre 2,5 milioni di
rifugiati:1.700.000 in Giordania, oltre 400.000 in Siria, circa
400.000 in Libano (vedi tabella). Questi rappresentano quella parte della
popolazione che subisce con maggiore crudeltà le conseguenze drammatiche
dell’occupazione e dell’esproprio di territori da parte di Israele. Quella
parte della popolazione che vive senza status
se non quello di profugo, in campi dove è difficile anche solo sopravvivere,
dove non esistono diritti di nessun tipo. Ormai nei campi dentro e fuori la
Palestina non è garantito più il diritto all’istruzione, il diritto al
lavoro, il diritto alla salute, il diritto ad un’alimentazione almeno
sufficiente. Questa sola constatazione dovrebbe rendere inaccettabili le modalità
con cui si sono svolte queste, come le elezioni del ‘96 che proclamarono
Arafat presidente dell’Autorità Palestinese.
Nessuno ha sollevato oggi,
come nel ‘96, neanche la minima perplessità rispetto a questa gravissima
esclusione, nessuno ha commentato i risultati elettorali evidenziando che si era
potuta esprimere solo una parte della popolazione palestinese.
Il peccato originale che
affligge tutta la sinistra italiana come buona parte della sinistra
internazionale è avere accettato gli accordi di Oslo. Avere assegnato a quel
grande inganno un ruolo di avvenimento storico in grado di avviare un vero
processo di pace per la Palestina. E quindi avere accettato che le regole le
dettasse Israele, secondo i suoi interessi e le sue necessità.
Il dramma è che sempre
quella sinistra, mentre si spertica in giudizi positivi rispetto alle ultime
elezioni, propugna soluzioni negoziali peggiori di Oslo, come la Road Map o gli stessi accordi di Ginevra, accordi dove si gioca
sempre al ribasso e che, o ignorano, o non riconoscono il diritto al ritorno. Il
tutto mentre il muro della vergogna prosegue la sua devastazione nella terra
come nell’anima dei palestinesi.
In conclusione, i votanti
sono stati il 65% degli iscritti alle liste elettorali, quindi hanno espresso il
loro voto 715.000 palestinesi, cioè non più del 20% della popolazione
palestinese totale stimata.
I risultati elettorali
vedono vincitore Abu Mazen con un consenso pari al 62,3%, seguito con largo
distacco (circa il 20%) da Mustafà Bargouti
e quindi dagli altri due candidati di sinistra: Thaysser Khalid del
Fronte Democratico con il 3,5% e Bassam
Sahli del Partito Popolare (ex comunista) con il 2,7%. Abd al-Halim al-Ashqar,
candidato islamico indipendente, agli arresti domiciliari negli USA per presunte
connivenze con Hamas, ha avuto il
2.68%.Sayid Baraka, candidato indipendente, 1.27% ed infine Abd al-Karim Shbair,
candidato indipendente, con 5874 voti ha avuto lo 0.76%.
Dobbiamo comunque ricordare
che Hamas e Jihad hanno deciso di non partecipare alle elezioni presidenziali
non presentando alcun candidato, anche se è difficile ricondurre il dato
astensionista a queste due organizzazioni. Sicuramente è presente una protesta
ed uno sconforto diffuso e inoltre Israele non ha attenuato come promesso la
pressione sui territori rendendo difficile a molti palestinesi il recarsi alle
urne.
Abu Mazen dirigente di Fatah,
rappresentante del cosiddetto gruppo dei tunisini, cioè di quei dirigenti
palestinesi formatisi in esilio, raffigura, tra tutti i contendenti, l’uomo
gradito ad Israele e quindi agli Usa, come ai paesi arabi cosiddetti
“moderati” in primis l’Egitto. Nel settembre 2002 fu il primo a condannare
l’Intifada armata. Mahmoud Abbas (alias Abu Mazen) è stato nominato primo
ministro nel marzo 2003, carica che ha ricoperto per quattro mesi, fino a quando
è stato costretto alle dimissioni nella lotta di potere con Arafat. Lotta che
si è sostanzialmente incentrata sul passaggio
del controllo della sicurezza interna al fedele
Dahlan (amico della Cia di Tenet, e considerato alla stregua di un
traditore da Hamas e Jihad), già
responsabile della sicurezza a Gaza dal ‘94 al 2002.
[*1]In
alcuni momenti la sua leadership è sembrata
messa in discussione e minacciata dall’autocandidatura di Marwan Bartgouti,
sicuramente l’esponenente di Fatah
più popolare nei territori e certamente l’unica vera minaccia all’elezione
di Abu Mazen. Le modalità con cui si è arrivati alla sua rinuncia e se questa
sia stata spontanea o estorta non è dato sapere. Rispetto al giudizio politico
sui due candidati, si riporta uno stralcio dell’intervista rilasciata in
carcere da Ahmet Saadat, segretario generale del Fplp, poco prima delle
elezioni, a due esponenti dell’ Associazione France
Palestine Solidarité: “Marwan Barghouti è un dirigente di Fatah,
è stato formato da Fatah ed agirà
sempre in accordo con la linea del suo partito. Naturalmente, noi distinguiamo
tra Abu Mazen e lui, ma alla fine dei conti, i due rappresentano la stessa
ideologia, lo stesso programma al servizio della borghesia palestinese”.
Giudizio sicuramente ingeneroso nei confronti di Marwan Barghouti, detenuto in
condizioni inumane nel peggior carcere israeliano, promotore e artefice
dell’inizio della seconda Intifada, capo delle Brigate dei martiri di Al
Aqsa, personaggio forse scomodo alla stessa Fatah, giudizio comunque condivisibile rispetto al ruolo che questa
organizzazione ha sostanzialmente giocato in questi ultimi anni.
Mustafà Bargouti (50 anni),
medico, già dirigente del Partito Comunista, oggi responsabile della maggiore
Organizzazione Non Governativa Palestinese in campo sanitario (Pmrc),
leader del partito Al Mubadaraha, ha fatto convergere sul suo nome un’area di
sinistra vasta e articolata di cui fanno parte integrante anche quei
coordinamenti di Ong palestinesi che si sono poste come attori principali nella
battaglia contro il muro della vergogna (si veda la campagna Pengon) come il Fplp. Lui, come la sua organizzazione, potrebbero
giocare un ruolo non marginale rispetto alla necessità di ricostruire una forza
realmente di sinistra laica e rappresentativa nei territori.
Le difficoltà in cui si
dibattono i partiti storici della sinistra marxista in Palestina, sono sotto gli
occhi di tutti, sicuramente la maggior parte di queste sono frutto della
situazione contingente, dell’occupazione, dell’esilio, della clandestinità
e dell’incarcerazione di molti dirigenti politici, come della decapitazione
dei gruppi dirigenti dovuti agli
omicidi mirati effettuati da Israele. Comunque si percepisce, sia nei territori
che nei campi fuori della Palestina, come il ruolo di queste forze all’interno
della società palestinese si stia indebolendo, forze che comunque non hanno mai
accettato gli accordi di Oslo e quindi non hanno mai riconosciuto l’Autorità
Palestinese. Dall’altra parte la stessa Autorità Nazionale Palestinese,
rappresenta sempre di più solo se stessa, sempre più simile ad una scatola
vuota, immagine burocratica di uno
Stato che nei fatti non esiste, utile alla comunità internazionale e allo
stesso Israele, che attraverso questa proietta nel mondo intero una immagine di
se stesso come uno stato democratico desideroso di pace.
Le difficoltà quotidiane
che il popolo palestinese deve sopportare sono enormi, nei territori si vive
come ostaggi in un carcere a cielo aperto, è difficile il solo spostarsi da un
villaggio a un altro, a volte da una casa a un’altra, nei campi sia dentro che
fuori dalla Palestina le difficoltà sono, se possibile, ancora più
drammatiche. L’esperienza di Hamas,
nel proporsi come organizzazione capace di ricostruire il tessuto sociale
palestinese, e quindi di dare una prospettiva di Stato nazionale, attraverso una
rete di solidarietà e di servizi sociali, dall’istruzione alla sanità, dal
puro sostentamento alla sicurezza sociale, ha permesso a questa organizzazione
un radicamento che non può che preoccuparci per le prospettive che schiude,
prima fra tutte la costruzione di uno Stato islamico, teocratico, da
contrapporre allo Stato ebraico. Gioca sicuramente a suo favore il risultato
positivo ottenuto in Libano dagli Hezbollah , organizzazione che può vantare a suo merito l’unica
sconfitta inflitta ad Israele, costringendolo al ritiro.
Per tale motivo ritengo sia
necessario guardare con attenzione a quello che la rete di Organizzazioni non
governative palestinesi sta proponendo soprattutto nella West Bank. Alternativa laica sia ad Hamas, che alla corrotta Autorità Nazionale Palestinese.
Paese |
Campi profughi ufficiali |
Profughi registrati |
Profughi Registrati e
residenti nei
campi |
Giordania |
10 |
1,740,170 |
307,785 |
Libano |
12 |
394,532 |
223,956 |
Siria |
10 |
413,827 |
120,865 |
West Bank |
19 |
665,246 |
179,541 |
Striscia di
Gaza |
8 |
922,674 |
484,563 |
Totale |
59 |
4,136,449 |
1,316,710 |
Fonte:
UNRWA aggiornato al 31
Dicembre 2003 |
[*1](1) Dahlan Con l'aiuto della Cia conduce le prime azioni rivolte a debellare Hamas e la Jihad dopo le stragi terroristiche del 1996. Dahlan partecipa al vertice di Camp David dove sostiene di aver più volte spinto Arafat all'accordo.