Marxismo
rivoluzionario n. 3 -
speciale / lenin ottant'anni dopo
LA
POLITICA DI LENIN
Princìpi e tattica, per la rivoluzione
di
Marco Ferrando
Autonomia
di classe e battaglia per l’egemonia, intransigenza dei principi e duttilità
della tattica: sono questi gli elementi essenziali della politica di
Lenin sia sul versante russo, sia sul versante internazionale. Con una precisa
avvertenza: nessuno di quegli elementi è in qualche modo “isolabile”, ed
anzi ognuno di essi trova il suo stesso significato proprio nella relazione
dialettica con l’insieme degli altri fattori. E questa relazione a sua volta
è governata dal fine: il rovesciamento della borghesia, la conquista
proletaria del potere. Tenere presente questo insieme, razionalizzarlo,
assimilarlo è condizione decisiva per comprendere il leninismo nella sua
profondità e attualità. Rimuoverlo o disperderlo significa fare, fosse pure
involontariamente, la caricatura del leninismo; e prestarsi a quelle
innumerevoli e interessate deformazioni di cui è stato oggetto da parte della
socialdemocrazia, dello stalinismo, del centrismo.
Luxemburg
e Lenin nella battaglia internazionale antirevisionista
L’autonomia
di classe del movimento operaio dalla borghesia è la base stessa del marxismo.
Tutta la politica di Lenin parte dalla riaffermazione di questo principio
basilare. E non in termini astratti, ma nel vivo della battaglia politica
all’interno del movimento operaio internazionale e della socialdemocrazia
russa.
Lungo
il corso della sua evoluzione storica, già nel primissimo Novecento la II
Internazionale aveva visto riaffacciarsi al proprio interno tendenze apertamente
“revisioniste”: che mettendo in discussione la prospettiva stessa della
rivoluzione socialista, attaccavano il principio dell’indipendenza politica di
classe e legittimavano scelte di collaborazione con governi borghesi. Se la via
“realistica” al socialismo passava ormai attraverso la progressiva modifica
degli equilibri parlamentari e istituzionali, perché mai continuare ad opporre
un’obiezione di principio all’ingresso di propri ministri nei governi
borghesi “progressisti”? Se i socialisti fossero determinanti per una più
avanzata maggioranza politica di governo un loro disimpegno e “isolamento
propagandistico” non favorirebbe forse le forze reazionarie a tutto danno del
movimento operaio?
Eduard
Bernstein aveva dato corposità teorica a queste sollecitazioni, ben presenti
nel settore parlamentare della socialdemocrazia tedesca e nelle sue
rappresentanze istituzionali regionali (lander). E il “caso Millerand” in
Francia nel 1900, con l’aperto ingresso di un parlamentare “socialista” in
un governo borghese, testimoniava che la questione era tutt’altro che una
questione “teorica”.
Queste
posizioni furono inizialmente combattute dalla maggioranza delle forze
dell’Internazionale. Ma in termini e da angolazioni significativamente differenti.
Kautsky
e il suo “centro” svilupparono un contrasto debole, segnato dalla
preoccupazione dominante di una possibile scissione della destra parlamentare
della socialdemocrazia: un contrasto che finiva col ridurre la questione,
fondamentalmente, alla necessaria riaffermazione dell’autorità del partito
nei confronti dei suoi gruppi parlamentari ma che sminuiva il carattere politico
e di principio del problema. Era l’esordio storico del centrismo, e il
presagio della sua deriva futura.
Fu
invece la sinistra rivoluzionaria dell’Internazionale a partire da Rosa
Luxemburg a sviluppare contro il revisionismo una battaglia politica di fondo e
di principio.
Riforma
sociale o rivoluzione, scritto dalla
grande Rosa nel 1898 in diretta risposta a Bernstein, è sotto questo profilo un
testo magistrale che demolisce l’intero impianto teorico del revisionismo e ne
sviscera impietosamente le implicazioni politiche e pratiche: innanzi tutto
l’abbandono dell’indipendenza politica di classe a favore del “ministerialismo”.
E non si trattava solamente di una risposta “teorica”. Luxemburg denunciò
con vigore tutti i sintomi della cancrena che si avvicinava: dalle combinazioni
governative tra socialdemocrazia tedesca e centro borghese cattolico in alcuni
lander regionali sino al voto a favore da parte di settori parlamentari
socialdemocratici a stanziamenti governativi per la spesa militare. Ed estese la
battaglia al terreno internazionale: contrastando con due bellissimi articoli il
cosiddetto “esperimento belga”, che nel 1902-03 aveva visto il sacrificio
delle potenzialità di lotta indipendente del movimento operaio ad un
“inammissibile” blocco politico, fosse pure transitorio, tra la
socialdemocrazia belga e il liberalismo borghese in nome di una riforma
(oltretutto contraddittoria) del sistema elettorale.
Fu
proprio questa vigorosa battaglia contro le prime manifestazioni della deriva
emergente, a rivelare agli occhi di Rosa la timidezza opportunistica del centro
di Kautsky, il suo rifiuto di una battaglia vera, e quindi ad affrettare la sua
rottura col kautskismo nel 1908 (con lo scritto Teoria e prassi).
La
tendenza bolscevica della socialdemocrazia russa fu parte della battaglia della
sinistra rivoluzionaria della II Internazionale. E’ vero: Lenin comprenderà
più tardi di Rosa la natura politica del centrismo kautskiano (e quando la
comprenderà la sua contrapposizione al centrismo kautskiano sarà semplicemente
spietata). Ma la sua opposizione al revisionismo fu dall’inizio caratterizzata
da un’argomentazione di principio intransigente che andava ben al di là
dell’obiezione kautskiana. Valga per tutti l’articolo del 1908 dedicato
interamente alla denuncia del fenomeno revisionista e alla difesa
dell’indipendenza politica del proletariato internazionale: “L’esperienza
delle alleanze, degli accordi e dei blocchi col liberalismo socialriformista in
Occidente e col riformismo liberale (cadetti) nella rivoluzione russa ha
dimostrato in modo convincente che questi accordi non fanno che annebbiare la
coscienza delle masse, non accentuano ma
attenuano l’importanza effettiva della loro lotta, legando i combattenti agli
elementi più inetti alla lotta, più instabili e inclini al tradimento. Il
millerandismo francese, che è l’esperienza più notevole di applicazione
della tattica politica revisionista su grande scala, su scala veramente
nazionale, ha dato del revisionismo un giudizio pratico che il proletariato di
tutto il mondo non dimenticherà mai…
“‘Il
fine è nulla, il movimento è tutto’, queste parole alate di Bernstein
esprimono meglio di lunghe dissertazioni l’essenza del revisionismo.
Determinare la propria condotta caso per caso; adattarsi agli avvenimenti del
giorno, alle svolte provocate da piccoli fatti politici; dimenticare gli
interessi vitali del proletariato e i tratti fondamentali di tutto il regime
capitalista, di tutta l’evoluzione del capitalismo; sacrificare questi
interessi vitali a un vantaggio reale o supposto del momento, tale è la
politica revisionista.” (Lenin, Marxismo
e revisionismo, in Opere scelte, vol. II, p. 10).
E
non fu un testo isolato. Basti pensare a quanto Lenin scriveva, ad esempio, già
nel 1899: “Che cosa hanno introdotto di nuovo in questa teoria i chiassosi
‘innovatori’ che hanno al presente sollevato tanto rumore, raggruppandosi
attorno al socialista tedesco Bernstein? Assolutamente nulla: non hanno
fatto fare un solo passo avanti ala scienza che Marx ed Engels ci hanno
raccomandato di sviluppare; non hanno insegnato al proletariato nessun nuovo
metodo di lotta; non hanno che ritirarsi, prendendo a prestito frammenti di
teorie arretrate e predicando al proletariato non la teoria della lotta, ma la
teoria dell’arrendevolezza; dell’arrendevolezza nei confronti dei peggiori
nemici del proletariato, dei governi e dei partiti borghesi...” (Lenin, Il
nostro programma).
Detto
di passata, la riscoperta di questi articoli di Lenin è già di per sé
sufficiente a smentire radicalmente la tesi tanto diffusa di una natura
esclusivamente “russa” del bolscevismo, di una sua estraniazione dalla
storia del movimento operaio europeo. La verità è opposta: nonostante
l’indubbia specificità delle condizioni russe, nonostante le specificità
delle condizioni di vita della socialdemocrazia russa del primo Novecento,
condannata ripetutamente alla clandestinità, Lenin e il bolscevismo trovarono
naturale partecipare attivamente alla vita dell’Internazionale e, in essa,
alla battaglia per il marxismo rivoluzionario e per l’indipendenza politica di
classe. Socialdemocrazia e stalinismo, per ragioni diverse hanno cancellato
“questo” Lenin internazionalista del primo Novecento. E’ bene che i
marxisti rivoluzionari lo riportino oggi alla luce.
Il
bolscevismo contro l’alleanza con la borghesia liberale
Ma
è soprattutto nella vicenda russa che la battaglia leninista per l’autonomia
del movimento operaio si dispiegò in tutta la sua ricchezza come asse centrale
del bolscevismo.
Tanta
parte della vulgata staliniana ha teso a “ricostruire” la storia del
bolscevismo russo, come storia di una ricerca di blocco con la borghesia
liberale in nome della necessità della “rivoluzione democratica”: una
ricerca che poi sarebbe naufragata per il disimpegno della borghesia russa. Non
era questo il senso – essi dicono – della vecchia parola d’ordine
bolscevica della “dittatura democratica degli operai e dei contadini”?
Nulla
è più lontano dalla verità.
La
formula della “dittatura democratica” degli operai e dei contadini, varata
da Lenin alla vigilia della rivoluzione del 1905, rivelava – è vero – un
problema irrisolto (e non secondario) circa la dinamica della rivoluzione russa
e, in essa, circa il rapporto tra misure democratiche e misure socialiste,
quindi tra proletariato e masse contadine. Era, per così dire, una formula
“algebrica”, non priva di rischi, che solo lo sviluppo della rivoluzione del
’17 e la battaglia di Lenin avrebbero tradotto – come vedremo –
in termini conseguentemente rivoluzionari.
Ma
equivocare tra tale questione e il rapporto del bolscevismo con la borghesia
liberale è una colossale mistificazione. Al di là delle sue contraddizioni
irrisolte la formula della “dittatura democratica degli operai e dei
contadini” non solo escludeva nel modo più netto ogni blocco politico con la
borghesia liberale russa ma si basava esattamente sulla rivendicazione della
rottura più radicale con quella borghesia .
In
definitiva, tutta la concezione leninista della rivoluzione russa, e tutta
la battaglia del bolscevismo contro il menscevismo – dal 1903-05 sino
all’ottobre del ’17 – ruotano attorno a questo nodo strategico cruciale:
la lotta per l’indipendenza del proletariato russo dal liberalismo borghese
“progressista”.
La
concezione menscevica della rivoluzione russa, in incubazione dal 1902-03 ma
sviluppatasi compiutamente alla vigilia del 1905, si basava su un assunto molto
chiaro: la prossima rivoluzione russa sarà “una rivoluzione borghese” in
virtù dell’arretratezza della Russia feudale e zarista, quindi il compito
della socialdemocrazia sarà quello di rispettare questa naturale tappa storica,
rispettando l’egemonia borghese sulla rivoluzione, ed anzi incoraggiandola
attivamente: perché solo se la borghesia si deciderà a prendere la testa della
“sua” rivoluzione, superando incertezze e tentennamenti, si potrà avviare
una vera modernizzazione capitalistica e occidentale della Russia, con il suo
parlamento e le sue istituzioni liberali; e solo quando questo accadrà potrà
iniziare la lotta della socialdemocrazia per il socialismo, che è tappa storica
successiva. Questa concezione generale – che interpretava il materialismo
storico in termini “positivisti”, secondo una visione sempre più dilagante
nella II Internazionale – finiva con il teorizzare di fatto una politica di
blocco con la borghesia nella “rivoluzione democratica”: quindi una
sospensione della lotta contro la borghesia nel quadro di tale rivoluzione.
Ebbene:
il bolscevismo si sviluppò contro questa concezione e questa politica. A
partire da una concezione per molti aspetti opposta della rivoluzione russa e
della sua prospettiva. Lenin riconosceva il carattere democratico dei compiti
immediati della rivoluzione (riforma agraria e assemblea costituente). Ma non
per questo riconosceva un ruolo egemone della borghesia nella rivoluzione. Al
contrario. Lenin analizzava meticolosamente i mille intrecci tra zarismo e
liberalismo russo, tra borghesia industriale e proprietà fondiaria, tra
borghesia russa e capitale internazionale. Perciò stesso comprendeva che la
borghesia russa non solo non si sarebbe posta alla testa di una “rivoluzione
democratica” ma temeva la rivoluzione popolare più di ogni altra cosa: il suo
obbiettivo massimo era il superamento dell’autocrazia zarista in direzione di
una monarchia costituzionale, ma proprio per disinnescare la miccia di una
possibile esplosione rivoluzionaria antizarista. Del resto: lo stesso
liberalismo borghese nella rivoluzione francese del 1789 o nella rivoluzione
inglese della metà del Seicento, o nel risorgimento nazionale italiano, non si
era forse sistematicamente contrapposto alla trascrescenza popolare della
rivoluzione per non mettere a rischio il proprio ruolo sociale? Il giacobinismo
francese, gli indipendenti di Cromwell, il mazzinianesimo italiano, le tendenze
piccolo borghesi radicali delle rivoluzioni borghesi: non si erano forse
scontrate, persino al di là delle loro intenzioni iniziali, con il carattere
controrivoluzionario della borghesia liberale? E se ciò era accaduto persino in
epoche storiche non ancora segnate prevalentemente dalla contraddizione di
classe tra capitale e lavoro e dello sviluppo del movimento operaio, quale ruolo
“rivoluzionario” avrebbe mai potuto esercitare la borghesia russa a fronte
di una classe operaia in rapida espansione e in un contesto internazionale
segnato dall’ascesa sociale e politica del movimento operaio? La conclusione
di Lenin era inequivoca: “La borghesia russa è e sarà controrivoluzionaria
sullo stesso terreno democratico”.
Il
suo modello di riferimento – diceva Lenin – sarà la “via prussiana”: un
compromesso politico con lo zarismo attorno a un progetto di modernizzazione
autoritaria, controllata, dall’alto, senza la partecipazione popolare e contro
le rivendicazioni operaie e contadine. Per questo un’autentica rivoluzione
democratica capace di realizzare in modo conseguente una radicale riforma
agraria e di conquistare l’assemblea costituente potrà essere realizzata
solamente dagli operai e dai contadini russi contro la borghesia russa.
La formula della “dittatura democratica operaia e contadina” rifletterà
precisamente questa prospettiva di rottura col liberalismo russo in aperta
contrapposizione al menscevismo.
Aggiungo
che la stessa concezione leninista del partito in contrapposizione alla
concezione menscevica – quale fu codificata nel II congresso del Posdr –
aveva una precisa connessione con le diverse concezioni delle due tendenze circa
la prospettiva della rivoluzione russa e il rapporto con la borghesia: il
menscevismo ricavava dall’“inevitabile” egemonia borghese sulla
rivoluzione democratica una funzione sussidiaria della socialdemocrazia russa
che doveva limitarsi a rappresentare le rivendicazioni economiche degli operai
lasciando “la politica” alla borghesia. Da qui anche la famosa
rivendicazione avanzata da Martov di un “partito largo” cui potesse
appartenere “ogni scioperante”. Il bolscevismo ricavava dalla necessaria
egemonia operaia e contadina sulla rivoluzione, in contrapposizione alla
borghesia, la necessità di un partito d’avanguardia di militanti e di quadri
radicato nella classe e tra le masse, capace di esercitare un ruolo
rivoluzionario indipendente ed egemone.
Infine
la diversa concezione della rivoluzione russa in ordine al rapporto con la
borghesia coinvolge l’intero confronto tra bolscevismo e menscevismo attorno
alla tattica elettorale. Il menscevismo rivendicava tradizionalmente (e
praticava) le alleanza politico-elettorali con il liberalismo russo, ciò che
nei fatti significava l’adattamento del menscevismo alla piattaforma liberale.
Il bolscevismo si oppose ai blocchi elettorali con i liberali rivendicando
l’autonoma presenza della socialdemocrazia russa alle elezioni (e ammettendo
invece la possibilità di accordi elettorali tecnici nelle cosiddette elezioni
di secondo livello, riservate ai soli “grandi elettori”).
La
politica leninista nella rivoluzione russa: l’opposizione di principio ai
governi borghesi
Ma
fu il 1917 la cartina di tornasole decisiva della politica del bolscevismo.
A
seguito della rivoluzione di febbraio, che aveva rovesciato lo zarismo sotto
l’onda d’urto di una gigantesca sollevazione popolare, i dirigenti
menscevichi e socialrivoluzionari – largamente maggioritari nei soviet
– si predisposero a sostenere il governo borghese provvisorio, dominato dal
partito borghese dei cadetti e dal partito degli ottobristi. E a partire dal
maggio ’17 entrarono direttamente in un governo di coalizione con la
borghesia. Non era forse “borghese” la rivoluzione russa? Non erano forse
“democratiche” le rivendicazioni centrali della rivoluzione di febbraio?
Occorreva consolidare la tappa democratica della rivoluzione e “l’unità
democratica” con la borghesia, evitando di spaventarla con rivendicazioni
socialiste “storicamente immature”. Questa era la politica del menscevismo.
La
posizione di Lenin fu esattamente opposta. In aperto contrasto con la stessa
posizione contraddittoria e incerta di una parte del gruppo dirigente
bolscevico, Lenin sviluppò una battaglia decisiva per affermare controcorrente
l’opposizione di classe del proletariato russo nei confronti del nuovo governo
borghese. E’ vero, affermava Lenin, le rivendicazioni di febbraio erano di
carattere democratico. Ma il governo borghese scaturito da febbraio e sostenuto
dal menscevismo si opponeva – non a caso – alla loro realizzazione: negava
la terra ai contadini, rifiutava di convocare l’assemblea costituente,
continuava la guerra imperialista in totale contrapposizione alla rivendicazione
della “pace”. Il problema non era premere sul governo borghese perché
rispondesse alle richieste di massa. Il problema era di spiegare alle masse,
sulla base della loro stessa esperienza, che nessun governo della borghesia e di
coalizione con la borghesia poteva soddisfare le rivendicazioni democratiche
elementari. E che solo rompendo con la borghesia e concentrando nelle proprie
mani, cioè nei soviet, tutto il potere era possibile realizzare le
rivendicazioni di febbraio.
Questa
soluzione, a sua volta, avrebbe intrecciato inevitabilmente il completamento
della rivoluzione democratica con la rivoluzione socialista, e la rivoluzione
socialista russa con lo sviluppo della rivoluzione socialista internazionale.
Nelle Tesi di aprile, Lenin sviluppa così sino in fondo quel principio
di indipendenza dalla borghesia che già la formula della “dittatura
democratica degli operai e dei contadini” conteneva; ma lo sviluppa contro le
ambiguità di quella formula e in opposizione a chi si aggrappava ad essa per
difendere una politica di sostegno, seppure “critico”, verso il governo
borghese provvisorio. La vittoria di Lenin nella battaglia interna al
bolscevismo su questo punto cruciale fu determinante per la stessa sorte della
rivoluzione russa.
Questa
politica di indipendenza di classe fu peraltro difesa e affermata da Lenin in un
altro passaggio decisivo del processo rivoluzionario del 1917: il passaggio
dell’agosto. E’ un vero passaggio di scuola per la politica rivoluzionaria.
Nell’agosto ’17 il governo borghese di Kerensky, che un mese prima aveva
colpito e represso il partito bolscevico schiacciandolo nella clandestinità, fu
apertamente attaccato e insidiato da destra, per opera di una controrivoluzione
militare guidata da un generale zarista (Kornilov). Non si doveva dunque
dismettere, fosse pure temporaneamente, l’opposizione di classe al governo
Kerensky, e passare al sostegno politico del governo democratico contro la
reazione zarista? Non era questa la condizione stessa della difesa della
rivoluzione di febbraio dal tremendo pericolo della controrivoluzione militare?
La
pressione sul bolscevismo fu fortissima e aprì brecce in settori dirigenti del
partito. Ma Lenin mostrò un’intransigenza inflessibile. Certo, si doveva
combattere attivamente e in prima fila la reazione controrivoluzionaria con la
più ampia rivendicazione dell’unità di lotta di tutte le forze operaie e
popolari. Ma questo non significava affatto sostenere politicamente Kerensky. Al
contrario, occorreva dire la verità alle masse, nel momento stesso dell’unità
d’azione: proprio la politica di Kerensky aveva aperto le porte a Kornilov,
proprio la negazione delle rivendicazioni di febbraio e la repressione
antioperaia e antibolscevica aveva allargato il margine di manovra della
controrivoluzione. Dunque la lotta per la terra, per l’armamento del popolo,
per l’assemblea costituente era più che mai attuale proprio per indebolire le
basi sociali della controrivoluzione, approfondire le sue contraddizioni e
sconfiggerla: ciò che implicava esattamente la continuità dell’opposizione
politica al governo, non la sua rimozione: “E anche adesso non
dobbiamo sostenere il governo Kerenski. Verremmo meno ai nostri principi. Come,
ci si domanderà, non si deve dunque combattere Kornilov? Certamente bisogna
combatterlo. Ma non è la stessa cosa. Vi è un limite tra le due posizioni, e
questo limite alcuni bolscevichi lo sorpassano, cedendo al ‘conciliatorismo’,
lasciandosi trascinare dal corso degli eventi.
“Noi
facciamo e faremo la guerra a Kornilov come le truppe di Kerenski, ma non
sosteniamo Kerenski, anzi smascheriamo la sua debolezza. Qui sta la
differenza. E’ una differenza abbastanza sottile ma essenziale e che non si può
dimenticare.” (Lenin, Al comitato centrale del Posdr, pp. 273-74).
Questa
posizione di principio che riaffermava l’opposizione comunista al governo di
“centrosinistra” non ostacolò la battaglia contro la reazione monarchica
che finì sconfitta, col concorso degli stessi bolscevichi. In compenso creò le
migliori condizioni perché un mese dopo il bolscevismo apparisse l’unico
possibile riferimento alternativo per l’avanguardia di massa degli operai, dei
contadini, dei soldati a fronte del fallimento del governo di coalizione. Era la
premessa decisiva dell’Ottobre.
E’
appena il caso di osservare che la rivoluzione d’Ottobre si realizzò
rovesciando un governo di centrosinistra, frutto di una rivoluzione democratica
e sostenuto dai vecchi partiti di sinistra: è bene ricordarlo ai tanti
teorizzatori di un Lenin precursore
dei “fronti democratici” e dei “governi progressisti”.
La
lezione della rivoluzione russa circa la necessaria indipendenza politica dei
comunisti fu estesa da Lenin alla III Internazionale comunista. Le fondamenta
programmatiche dell’Internazionale, già al primo congresso del 1919, furono
al riguardo inequivocabili: il rifiuto di ogni coalizione con la borghesia, di
ogni sostegno, diretto o indiretto, ai governi borghesi fu assunto dall’intero
movimento comunista internazionale delle origini come discriminante di fondo nei
confronti del riformismo e del centrismo. Peraltro, proprio il rifiuto di ogni
sostegno ai “propri” governi di guerra e la rivendicazione del disfattismo
rivoluzionario aveva rappresentato il terreno della rottura definitiva col
socialsciovinismo riformista della II Internazionale e della costituzione della
III Internazionale. Successivamente in occasione del secondo congresso
dell’Internazionale, il rifiuto di ogni forma di coalizione o sostegno ai
governi della borghesia, anche dei più “democratici”, rientrò tra le 21
condizioni formalmente poste per l’adesione all’Internazionale: e quindi
rappresentò in quel contesto uno dei terreni di demarcazione di principio da
ogni forma di centrismo conciliatore.
La
stessa critica dell’“estremismo, malattia infantile del comunismo” (su cui
tornerò) – contrariamente al diffuso luogo comune seminato ad arte dallo
stalinismo – non “ammorbidì” affatto
l’intransigente opposizione ad ogni governo borghese. Al contrario, proprio
nell’Estremismo è possibile cogliere, di passata, l’ampia
argomentazione di Lenin in replica ai comunisti inglesi su come meglio
prepararsi a rovesciare un possibile futuro governo laburista, “governo di
furfanti e
della borghesia”, entro la più totale indisponibilità a qualsiasi
attenuazione della critica dei comunisti nei loro confronti. Così come nel
quadro della difesa della politica seguita dalla sezione tedesca (criticata
invece dalla sinistra interna) Lenin non mancò di rigettare l’argomento
“teoricamente e politicamente sbagliato” secondo cui sarebbe stato possibile
entro la democrazia borghese, un governo di sinistra al di sopra delle classi
quale passo transitorio verso la dittatura del proletariato: no, diceva Lenin,
entro la repubblica borghese ogni governo, quale che sia la sua composizione
politica, altro non sarebbe di fatto che un governo della classe borghese per il
quale i comunisti non possono portare alcuna responsabilità. E proprio la
denuncia di ogni governo come comitato d’affari della borghesia “anche nella
repubblica più democratica” è al centro dell’elaborazione leninista di Stato
e rivoluzione, del Rinnegato Kautsky e di centinaia di articoli.
Infine
il principio della rottura con la borghesia e il rifiuto di ogni forma di
governismo borghese fu riaffermato in relazione al contesto dei paesi coloniali
e semicoloniali: dove il Congresso internazionale dei popoli oppressi di Baku
(1920) e le Tesi dell’Internazionale sulla questione coloniale distinguevano
nettamente la possibile convergenza dei comunisti con movimenti nazionali di
liberazione “radicali e rivoluzionari” a guida piccolo borghese (vedi la
proposta dei fronti unici antimperialisti) dall’aperto respingimento di ogni
blocco con le forze della borghesia nazionale indigena, agenzia
dell’imperialismo presso il popolo oppresso.
Su
ogni terreno e da ogni versante l’antigovernismo bolscevico rappresentò il
recupero più coerente della tradizione rivoluzionaria di Marx
e di Engels. Solo la malafede o l’ignoranza possono negare o nascondere
questa verità.
La
conquista della maggioranza della classe: la lotta di Lenin contro
l’estremismo
E
tuttavia una lettura del bolscevismo semplicemente e solo come “difesa
dell’autonomia di classe” e intransigenza dei principi, pur cogliendo un
elemento essenziale di verità, finirebbe anch’essa per darne un’immagine
semplificata e poco formativa della politica di Lenin. Magari un’immagine cara
al bordighismo e a qualche setta ultrasinistra, ma semplicemente non vera, non
corrispondente alla realtà.
Per
Lenin la difesa ostinata e prioritaria del principio dell’autonomia di classe
e del rifiuto di ogni coalizione con la borghesia non fu mai un fine a sé, una
semplice linea di confine, un puro atto di autodemarcazione. Fu sempre in
funzione della prospettiva rivoluzionaria reale. Quindi fu sempre
connessa e dialettizzata alla politica di conquista della maggioranza delle
masse politicamente attive, che è condizione decisiva per la conquista
proletaria del potere. E, a sua volta, l’azione di conquista della maggioranza
è la politica tesa a strapparla all’influenza di quei partiti e direzioni
(riformiste, centriste, nazionaliste borghesi o piccolo borghesi) che
controllano le masse in funzione della democrazia borghese e/o imperialista: è
la lotta per un’altra direzione, un'altra egemonia nella/della lotta di massa.
Questo
è un punto davvero essenziale della politica di Lenin. Una lunga tradizione,
particolarmente forte nel filone togliattiano dello stalinismo, ma soprattutto
nella “nuova” sinistra italiana ha teso spesso a contrapporre Gramsci e
Lenin nella questione strategica dell’egemonia. Secondo questa lettura, Lenin
avrebbe incarnato in buona sostanza una tradizione rivoluzionaria
operaista-economicista in qualche modo espressione dell’arretratezza russa,
del carattere semplificato di quella società civile e della particolare
debolezza di quello Stato (il tutto secondo un inquadramento esclusivamente
“russo” del fenomeno bolscevico). Viceversa Gramsci avrebbe incrnato un
marxismo creativo, vitale, occidentale, espressione della maggiore complessità
della società civile europea e quindi capace di superare la vecchia rozzezza
dell’operaismo e dell’economicismo russo in direzione del concetto
dell’egemonia.
Questa
rappresentazione è falsa da cima a fondo.
Da
un lato deforma il pensiero e la politica di Gramsci per avallarne un
inesistente antileninismo (tema che non rientra nell’economia di questo
scritto). Dall’altro ignora soprattutto un aspetto essenziale dell’intera
politica di Lenin: che è per l’appunto la battaglia per l’egemonia.
La
battaglia per l’egemonia – nel pensiero e nella politica di Lenin – si
pone a due livelli distinti e intrecciati: la battaglia per l’egemonia nella
classe e la battaglia per l’egemonia della classe sull’insieme delle masse
oppresse e sfruttate, sul blocco sociale dell’alternativa rivoluzionaria.
Sul
primo terreno Lenin sviluppò una polemica costante contro le posizioni,
generalmente estremiste (e spesso settarie) che si attestavano sulla pura e
semplice petizione comunista e rivoluzionaria di tipo identitario senza curarsi
della conquista delle masse.
Queste
posizioni, apparentemente radicali, hanno, secondo Lenin, un risvolto teorico e
pratico disastroso. Sul piano teorico contraddicono l’essenza stessa del
marxismo come “guida per l’azione” rivoluzionaria, ostile per definizione
alla semplice passività propagandistica. Sul piano politico sanciscano la
rinuncia alla costruzione di una direzione di massa alternativa e quindi
favoriscono la tenuta del controllo burocratico riformista (o centrista) nelle
masse stesse. Il bolscevismo si è quindi costruito e affermato contro queste
posizioni sul piano nazionale e internazionale. E nel corso di tutta la sua
storia.
E’
relativamente nota la polemica di Lenin contro il rifiuto di lavorare nei
sindacati di massa e contro il rifiuto alla partecipazione ai parlamenti
borghesi. Meno nota è la natura dell’argomentazione di Lenin e il fatto che
quella battaglia sia stata sviluppata nello stesso contesto russo e ben prima
della precipitazione rivoluzionaria del ’17.
Dopo
la sconfitta della rivoluzione russa del 1905, e in particolare negli anni
1908-1910, Lenin fu impegnato nelle fila stesse del bolscevismo in uno scontro
politico durissimo contro le tendenze dell’“otzovismo” e dell’“ultimatismo”.
Queste tendenze rispondevano alla sconfitta della rivoluzione e alla diffusa
demoralizzazione con una radicalizzazione formalistica delle posizioni: “Che
senso ha lavorare in sindacati in larga misura controllati da Zubatov e dalla
polizia zarista? Che senso ha partecipare ad elezioni truccate, entro regole
elettorali vessatorie e umilianti per la socialdemocrazia russa? Che senso ha
puntare a partecipare a una Duma reazionaria, puntello dello zarismo, frutto
della sconfitta della rivoluzione?”
La
proposta era semplice: uscita dai sindacati e boicottaggio della Duma. Una
proposta che faceva proseliti nel bolscevismo perché appariva pura,
intransigente, frontalmente contrapposta a quel liquidazionismo menscevico che
puntava alla legalizzazione della socialdemocrazia entro una sorta di
costituzionalizzazione dello zarismo. La polemica di Lenin fu durissima contro
tali posizioni. E non, come potrebbe intendersi, da un versante per così dire
“moderato”, di chi si preoccupa semplicemente di “salvaguardare” la
presenza “istituzionale” del partito. Ma dal versante della prospettiva
rivoluzionaria. Proprio perché la rivoluzione è stata temporaneamente
sconfitta, proprio perché il movimento di massa è ripiegato, proprio perché i
rivoluzionari sono più deboli e isolati tra le masse, proprio per questo il
problema decisivo per i rivoluzionari non è quello di “arrendersi” al
proprio isolamento, costruendovi sopra una razionalizzazione teorica e una
retorica formalistica ma, all’opposto, è quello di rimontare la china
utilizzando tutti i possibili canali di rapporto con le masse, anche i più
distorti e deformi, anche quelli offerti dall’odiato zarismo: perché solo così
è possibile utilizzare a pieno ogni spazio per sviluppare controcorrente la
coscienza dei lavoratori e della masse, contrastare la sfiducia dilagante,
inserirsi in ogni contraddizione e fermento di ripresa, contrastare la presa del
menscevismo liquidatore e opportunistico. Tutte condizioni decisive per favorire
il rilancio rivoluzionario e, in esso, l’egemonia della socialdemocrazia
rivoluzionaria.
E’
utile ricordare che proprio il dispiegamento di questa politica permise ai
bolscevichi di conquistare alla lunga posizioni egemoni in importanti sindacati
nel momento della ripresa delle lotte (1912-14) e anche di guadagnare una
presenza modesta ma preziosa nella Duma, che si rivelerà efficacissima
nell’agitazione disfattista contro la guerra. Non a caso nella polemica
dell’Estremismo, dieci anni dopo, Lenin richiama questa esperienza del
bolscevismo e la sua attualità tanto più nel contesto europeo
occidentale. Perché tanto più in un contesto segnato, a differenza che in
Russia, da una tradizione storica della democrazia borghese parlamentare, dalla
presenza di forti e radicati sindacati di massa, sarebbe del tutto assurdo, dal
punto di vista della politica rivoluzionaria, voltare le spalle “per
principio” a questi ambiti di intervento. Tanto più in Occidente, quello
sarebbe il più grande regalo alla democrazia borghese, alle burocrazie
dirigenti dei sindacati, all’opportunismo riformista e centrista.
Larga
parte della polemica contro l’estremismo nel 1920 si appoggia proprio
sull’argomento della maggiore complessità della rivoluzione in Occidente
rispetto alla vecchia Russa: e basterebbe questo riferimento semplice per
smentire tutta la vulgata ricorrente sulla cosiddetta “angustia nazionale”
del bolscevismo russo.
“Ma
l’opportunismo parlamentare e sindacale, così diffuso in Occidente, non
mostra forse il carattere corruttivo del parlamento e dei sindacati verso le
forme del movimento operaio? Non è questa una buona ragione per tenersi fuori
da quelle sedi?” Così argomentava con sfumature interne diverse, il
grosso dell’estremismo antileninista. Ma la risposta di Lenin (e di Trotsky)
demistificava nel metodo l’equivoco di fondo di quella obiezione.
Certo:
il parlamentarismo borghese esercita una posizione corruttrice. Così come
l’ambiente della burocrazia sindacale. Più in generale tutta la politica
rivoluzionaria e tutti i rivoluzionari, quale che sia il loro ambito
d’intervento, sono esposti alla pressione quotidiana della società borghese,
delle sue istituzioni, delle sue agenzie nel movimento operaio. Ma pensare di
ovviare a questo rischio, sottraendosi alla politica di massa, significava
semplicemente rinunciare alla rivoluzione.
Ben
altra doveva essere la risposta: quella di costruire un partito capace di
ricondurre il carattere multiforme della propria politica di massa in ogni sede
del suo esercizio, ai principi della rivoluzione, alla tensione verso il fine.
Capace di subordinare il lavoro parlamentare alla prospettiva di rovesciamento
del parlamento borghese, contro ogni adattamento alle sue regole del gioco.
Capace di subordinare il lavoro sindacale alle prospettive della conquista
proletaria del potere, contro ogni logica di puro “sindacalismo” di
sinistra. La risposta di Trotsky a Gorter, dai banchi della III Internazionale
resta da questo punto di vista esemplare. E mostra una volta di più che per il
bolscevismo non esisteva alcuna questione tattica separata a sé stante (la
“questione parlamentare”, la “questione sindacale”) ma diverse
articolazioni tattiche di un’unica politica per la conquista del potere. E
che, a sua volta, proprio l’unicità e il rigore della politica rivoluzionaria
poteva governare la molteplicità della tattica evitando la deriva
dell’opportunismo.
La
tattica rivoluzionaria del fronte unico e del governo operaio
La
tattica del fronte unico e del governo operaio rispondeva da un altro versante
alla medesima questione: la conquista delle masse per il potere. Anche in questo
caso, contro le resistenze dell’estremismo e partendo dall’esperienza viva
della rivoluzione russa.
Di
cosa si trattava? Si trattava intanto di un’elaborazione tattica che poggiava
sull’analisi marxista della realtà obiettiva e sulle necessità obiettive
della lotta di classe: quelle della più ampia unità di lotta dei lavoratori
contro le classi dominanti. E al tempo stesso della stretta relazione, nella
dinamica della lotta, tra gli obiettivi immediati della mobilitazione di classe
e la necessità di rompere con il capitalismo in crisi. “Uniamoci nella
lotta comune attorno ad una piattaforma indipendente che risponda alle comuni
esigenze della nostra classe. Uniamoci nella comune rottura con la borghesia,
dentro una lotta comune per il potere dei lavoratori. Perché nessuna delle
rivendicazioni elementari della nostra classe è compatibile con questa società:
e ognuna di esse richiede una rottura anticapitalistica."
Questo
approccio, rivolto innanzitutto e sempre alle grandi masse, era traducibile in
un’impegnativa articolazione tattica. Quella della sfida alle direzioni
maggioritarie del movimento operaio, riformiste e/o centriste, perché
rompessero con la borghesia, realizzando con i comunisti l’unità d’azione
contro di essa sulla base di una piattaforma di classe. Perché questa
articolazione tattica? Perché era quella più funzionale a smascherare e a
compromettere le vecchie direzioni agli occhi dei settori più avanzati e
combattivi della loro base proletaria e così di allargare presso quella base,
l’influenza alternativa dei comunisti. Non a caso il terzo congresso
dell’Internazionale che varò la tattica del fronte unico indicò la conquista
delle masse (“alle masse!”) come motivo ispiratore della politica dei
partiti comunisti.
Questa
innovazione tattica – tanto più suggerita nel ’22 dalle difficoltà della
rivoluzione europea, dalla possibile stabilizzazione capitalistica, dalla
permanente influenza di massa della socialdemocrazia e del centrismo – incontrò
la forte resistenza del bordighismo italiano, del Kapd tedesco, del tribunismo
olandese. Una resistenza diversamente motivata: nel caso del borghismo da una
visione essenzialmente passiva e propagandistica della politica rivoluzionaria;
nel caso del Kapd e del tribunismo da una concezione della politica
rivoluzionaria come offensiva lineare e permanente.
Ma,
pur partendo da angolazioni diverse, gli argomenti finivano spesso col
convergere. “Che senso ha aver fatto la scissione e aver creato i partiti
comunisti se poi si ripropone l’unità d’azione con l’opportunismo? Perché
si deve ripiegare su tatticismi da politicanti quando i comunisti sono gli unici
a vantare la nettezza e purezza di una lotta anticapitalistica per il potere?
Come si può proporre l’unità d’azione a partiti che hanno tradito il
proletariato e votato i crediti di guerra?” Tali obiezioni rivelavano in
realtà, dentro l’involucro di un'intransigenza formale, un’incomprensione
profonda della politica rivoluzionaria e della sua complessità, sostituendola
con l’altisonanza della frase o con la retorica del sentimento. Il problema
– replicarono insieme Lenin e Trotsky – non è semplicemente riaffermare la
propria fede nel comunismo e nella rivoluzione: il problema è conquistare le
masse alla rivoluzione. Il problema non è semplicemente la denuncia del
tradimento delle direzioni riformiste e centriste: ma distruggere la loro
influenza sulle masse quindi
sottrarre la masse alla loro influenza. Non sta qui il senso stesso della
“tattica”?
Ancora
una volta fu proprio l’esperienza del bolscevismo ad essere indicata come
prezioso laboratorio ed esempio. Nel luglio del ’17 i dirigenti
socialrivoluzionari e menscevichi, che partecipavano ad un governo borghese e di
guerra, avevano represso frontalmente l’avanguardia del proletariato russo e
il partito bolscevico. Ma ciò non aveva impedito ai bolscevichi un mese dopo,
di fronte alla minaccia
controrivoluzionaria di Kornilov, di rilanciare la proposta sfida agli altri
partiti operai e contadini perché realizzassero con i bolscevichi l’unità
d’azione contro la reazione, naturalmente nel quadro della propria perdurante
opposizione al governo borghese. Anche così i bolscevichi uscirono
dall’isolamento, avvicinarono la base dei partiti riformisti, allargarono la
propria influenza rivoluzionaria. Del resto: la parola d’ordine “tutto il
potere ai soviet” aveva rappresentato la parola d’ordine centrale
della politica bolscevica nel ’17. Ma poiché socialrivoluzionari e
menscevichi detenevano la maggioranza nei soviet sino al settembre,
quella parola d’ordine aveva un solo significato: chiedere pubblicamente a
socialrivoluzionari e menscevichi di rompere con il
centro liberale cadetto e di prendere il potere attraverso i soviet
e sulla base dei soviet.
Non
era stata proprio questa tattica politica sistematica, incalzante, ad aver
logorato la credibilità delle direzioni riformiste agli occhi della loro base
di massa? Ad avere dimostrato alle masse non attraverso la sola denuncia, ma
attraverso la loro esperienza pratica, che le loro direzioni preferivano
perpetuare la coalizione col centro liberale cadetto in opposizione alle
rivendicazioni di febbraio, piuttosto che unirsi ai bolscevichi per realizzare
quelle rivendicazioni rompendo con la borghesia? E a chi obbiettava che quella
tattica poteva andar bene in Russia ma non nella moderna Europa, Lenin e Trotsky
replicarono che proprio il radicamento infinitamente più saldo e sperimentato
del riformismo occidentale rispetto al riformismo russo chiariva che tanto più
in Occidente il problema della conquista delle masse non poteva essere
affrontato semplicemente con la denuncia o con la propaganda; ma richiedeva la
complessità della manovra e della tattica e, quindi, l’assimilazione profonda
dell’esperienza vittoriosa del bolscevismo russo. Ancora una volta proprio la
maggiore complessità della rivoluzione in Occidente veniva invocata contro la
semplificazione dell’estremismo.
L’egemonia
proletaria sulle masse oppresse: l’antieconomicismo di Lenin
Ma
la concezione dell’egemonia, in Lenin non riguardava unicamente l’aspetto
– pur essenziale – della “conquista della maggioranza” del proletariato.
Riguardava anche lo sviluppo dell’egemonia del proletariato sul più ampio
blocco sociale della rivoluzione. Solo conquistando a un programma
anticapitalistico l’insieme della masse oppresse il proletariato poteva
veramente candidarsi al potere: questo era un punto centrale della politica di
Lenin, contro ogni forma di grettezza operaistica ed economicistica. Il fatto
che Lenin sia stato rappresentato lungamente come economicista ed operaista
dimostra solamente la potenza geometrica dell’incontro tra l’ignoranza e la
mistificazione.
Proprio
il Che fare? – solitamente indicato come la massima espressione del
ristretto operaismo leninista – è in realtà la più ampia argomentazione
leniniana nella necessità di superare ogni economicismo operaistico. Alle
posizioni dell’economismo – incubatore del menscevismo – che sosteneva la
necessità che la socialdemocrazia si limitasse alla lotta economica, il Che
fare? opponeva tutta la necessaria ampiezza della politica rivoluzionaria
del proletariato. Che per essere tale doveva allargare lo sguardo all’insieme
alle masse oppresse, rivolgersi ai contadini oppressi dall’aristocrazia
fondiaria, alle minoranze nazionali schiacciate dallo zarismo grande russo, alla
gioventù studentesca e alle forze intellettuali private dei più elementari
diritti di libertà; e ricondurre l’insieme delle oppressioni e delle
contraddizioni che investivano la società russa alla necessità del
rovesciamento rivoluzionario dello zarismo e della conquista del potere da parte
degli operai e dei contadini. Solo una classe operaia capace di elevarsi al di
sopra della propria spontanea coscienza tradunionistica avrebbe potuto
ricomporre attorno a sé l’intero blocco delle masse oppresse e guadagnare la
testa della rivoluzione russa. Viceversa una classe che si fosse limitata
all’angusto economicismo avrebbe affidato alla borghesia liberale l’egemonia
della rivoluzione e dei suoi sbocchi, a tutto danno non solo del proletariato ma
dell’insieme delle masse oppresse. Da qui la funzione decisiva della
socialdemocrazia rivoluzionaria, e dell’avanguardia proletaria in essa
raccolta, per sviluppare la coscienza del proletariato russo
sul terreno della rivoluzione e, con essa, la sua egemonia alternativa.
Peraltro,
tutta la politica del bolscevismo russo per quasi vent’anni è stata la
testimonianza vivente di questa ispirazione politica antieconomistica ed “egemonistica”.
La stessa formula della dittatura democratica degli operai e dei contadini –
al di là della sua algebricità – non era forse la misura della centralità
del rapporto tra proletariato urbano e masse contadine? Conquistare al
proletariato della città i contadini salariati, sottrarre la maggioranza
contadina piccolo proprietaria e non sfruttatrice all’egemonia della borghesia
liberale: questo era per Lenin il compito strategico centrale della politica
bolscevica in Russia. L’egemonia proletaria sulle masse rurali e la rottura
con la borghesia erano dunque le due facce della medesima politica, entrambe
contrapposte al menscevismo.
Questa
politica dell’egemonia proletaria sul blocco sociale alternativo non si limitò
al contesto russo ma si estese alla politica internazionale del bolscevismo.
Nell’Occidente
avanzato dell’Europa capitalista la III Internazionale contrastò ogni deriva
o suggestione operaistico-sindacalista. La polemica leninista con l’anarco-sindacalismo
internazionale nei primi anni venti aveva esattamente questo segno. Ma benché
poco conosciuta, questa battaglia politica di Lenin e di Trotsky passò anche
attraverso le fila della stessa III Internazionale, talora intrecciandosi con la
battaglia contro l’estremismo. Il tribunismo olandese e il kapdismo, in
particolare (e in una certa misura anche il bordighismo) polemizzarono
pubblicamente con la concezione bolscevica della rivoluzione in Occidente
rimproverandole una visione eccessivamente estesa del blocco sociale
rivoluzionario. “In Russia eravate costretti a un blocco sociale con i
contadini data l’arretratezza di quella società. Ma nell’Europa
capitalistica la rivoluzione deve essere esclusivamente operaia. Perché tutto
il resto della società, inclusa la piccola borghesia impiegatizia, la piccola
borghesia commerciale urbana, la piccola borghesia rurale, è organicamente
legata al capitale. Rivolgersi a questi strati significa compromettere la
rivoluzione”.
Gorter
in particolare si era distinto per questa polemica nella sede del terzo
congresso dell’Internazionale comunista. E proprio a Gorter giunse la replica
di Trotsky, a nome della maggioranza leninista dell’Internazionale. Una
replica teorica e politica. La replica teorica contestava a Gorter l’operaismo
gretto dell’antico Lassalle, il quale aveva affermato che al di fuori del
proletariato il resto della società rappresentava “un’unica massa
reazionaria”; già Marx aveva polemizzato contro questa concezione, nella sua Critica
del programma di Gotha. E questa critica restava attuale, non solo
relativamente ai paesi coloniali e semicoloniali, ma anche nel contesto del
capitalismo dell’Europa
occidentale. Tanto più in una società capitalistica strutturata e complessa
segnata da un dominio plurisecolare della borghesia, il proletariato non potrà
realizzare la rivoluzione se non saprà intervenire in tutte le contraddizioni:
sottraendo all’influenza della borghesia capitalistica settori inferiori di
classe media, neutralizzandone altri, intercettando fasce di piccola borghesia
impoverita dalla crisi del capitale, sia nella città sia nelle campagne.
Naturalmente
questa posizione non aveva nulla a che spartire con quella che sarà
togliattianemente la cosiddetta “politica delle alleanze” condotta dallo
stalinismo. Che cercava, come nell’esperienza del Pci, di legarsi a interessi
medioborghesi privilegiati (vedi il “ceto medio” emiliano) per subordinare
ad essi il proletariato e negoziare meglio la collaborazione di classe con la
grande borghesia. All’opposto: la politica dell’egemonia proletaria sugli
stati inferiori della classe media per Lenin e per Trotsky era parte integrante
della politica di rottura con la borghesia e di costruzione delle condizioni di
successo della rivoluzione. Era un caso che proprio Lenin nel 1915,
nell’indicare i requisiti di una situazione rivoluzionaria, citasse tra questi
lo spostamento a sinistra delle classi medie?
In
realtà Lenin dimostrava una volta di più una visione complessa della dinamica
rivoluzionaria e della linea di frattura di una rivoluzione proletaria: che non
era riducibile semplicemente alla linea divisoria, economicamente intesa, tra
capitale e lavoro, ma al processo vivo della lotta di classe, alla costruzione e
scomposizione dei blocchi sociali, all’intreccio tra fattori sociali e
avvenimenti politici, alla lotta multiforme tra le classi fondamentali sul
terreno dell’egemonia sociale politica, culturale.
Peraltro,
proprio la storia europea del Novecento – col fenomeno del fascismo e del
nazismo – avrebbe dimostrato, seppur a negativo, il peso della piccola
borghesia negli equilibri della lotta di classe nell’Occidente avanzato
smentendo ogni economicismo semplificatorio e confermando la necessità di una
politica rivoluzionaria capace della più ampia egemonia di classe.
Socialismo
e liberazione nazionale: la complessità della rivoluzione socialista
Infine,
il concetto di egemonia del proletariato sull’insieme delle masse oppresse
trovò in Lenin una espressione di carattere mondiale. Uno degli sviluppi più
profondi del marxismo rivoluzionario da parte di Lenin fu rappresentato dalla
comprensione dell’enorme importanza dei grandi sommovimenti anticoloniali dei
popoli oppressi, a partire dall’Asia, e della sollevazione di tutte le
nazionalità oppresse dall’imperialismo ai fini dell’affermazione della
rivoluzione socialista internazionale.
Già
in Russia la politica di pieno sostegno del bolscevismo al diritto di
autodeterminazione delle nazionalità oppresse dall’impero russo aveva
concorso alla vittoria dell’Ottobre. E proprio questo sarà uno dei primi
punti d’attacco di Stalin alla tradizione politica del bolscevismo, come
rivela il durissimo contrasto tra Stalin da un lato e Lenin (e Trotsky)
dall’altro, attorno alla questione georgiana.
Ma
è sul terreno mondiale che la questione assumeva un carattere rilevantissimo,
in particolare dopo l’Ottobre. La vittoria della rivoluzione, congiunta agli
effetti della prima guerra imperialista, e alla spartizione coloniale che ne
seguì, fu un potente impulso allo sviluppo del movimento anticoloniale su scala
internazionale: in Asia, a partire dall’India e dalla Cina, in Medioriente e
nell’intera nazione araba, nel cuore stesso dell’Europa, a partire
dall’Irlanda e dai Balcani.
Il
marxismo rivoluzionario – secondo Lenin – doveva assumere quel vasto moto
come un riferimento essenziale. I comunisti rivoluzionari dei paesi delle
nazionalità oppresse dovevano prender parte attiva al sommovimento
anticoloniale evitando ogni ripiegamento propagandistico e attendista, e
battendosi apertamente al suo interno per uno sbocco coerente antimperialista e
socialista, in contrasto aperto col nazionalismo borghese e incalzando le
contraddizioni delle forze nazionaliste piccolo borghesi più radicali. Ogni
rinuncia alla battaglia per l’egemonia proletaria nel movimento anticoloniale,
magari in nome dell’arretratezza economica sociale di quei paesi, avrebbe
significato riproporre, nella sostanza, l’impostazione del menscevismo russo.
Proprio la rivoluzione d’Ottobre aveva dimostrato, contro ogni lettura
positivistica del marxismo, che un paese arretrato può essere più maturo per
la rivoluzione proletaria di un paese avanzato. E che la rivoluzione socialista
in quel paese arretrato poteva a sua volta sospingere l’intero processo
rivoluzionario mondiale.
Analogamente,
i partiti comunisti dell’Occidente capitalistico e dei paesi imperialisti
erano chiamati dalla III Internazionale ad un pieno e incondizionato sostegno ai
sommovimenti anticoloniali delle nazioni oppresse. E quindi a combattere non
solo ogni socialsciovinismo a sostegno del “proprio” imperialismo contro la
nazione che esso opprimeva, ma anche qualsiasi neutralità pacifista tra nazioni
dominanti e nazioni dominate. Costruire nel proletariato delle metropoli
d’Occidente la coscienza della convergenza di fondo con le ragioni dei popoli
oppressi dal proprio imperialismo, sostenere la loro rivolta contro il proprio
imperialismo, era per Lenin, un compito prioritario dei partiti comunisti
d’Europa e d’America. Anche per favorire nei movimenti coloniali una
cosciente indentificazione nel comunismo e quindi la battaglia di egemonia dei
comunisti delle nazioni oppresse.
In
questo quadro, e in questo spirito, la III Internazionale assunse la
rivendicazione del diritto all’autodeterminazione di tutte le nazioni oppresse
(ivi incluso il diritto alla separazione). Un diritto già rivendicato dal
movimento per la III Internazionale, e in primo luogo dal bolscevismo russo, nel
pieno corso della guerra imperialista.
Questa
impostazione incontrò obiezioni e resistenze lungo il processo della sua
maturazione. Non solo da parte del riformismo e del centrismo, com’è
naturale, ma anche nel campo del marxismo rivoluzionario. “Se i comunisti
sono per il superamento delle nazioni, come possono sostenere i diritti
nazionali, sia pure di nazioni oppresse? Se i comunisti sono i rappresentanti
coerenti della classe operaia ‘che non ha patria’ come possono combinare
l’indipendenza di classe col sostegno a movimenti nazionali non proletari per
di più guidati da forze nazionaliste?” E ancora: “Il concetto di
autodeterminazione nazionale non è forse contraddetto dalla natura stessa
dell’imperialismo che nega ogni possibile indipendenza reale delle nazioni
soggiogate? L’unica risposta vera alle istanze nazionali dei popoli oppressi
è la rivoluzione proletaria e non la rivendicazione di ‘diritti nazionali’
esclusivamente formali”. Queste e altre obiezioni schematicamente
riassunte – venivano poste alternativamente o da tendenze diverse
dell’“estremismo” o da tendenze che inclinavano verso posizioni centriste.
In un caso, autorevolissimo, dalla marxista rivoluzionaria Rosa Luxemburg,
seppur negli anni relativamente lontani del dibattito sulla questione polacca.
Lenin
(come la maggioranza dell’Internazionale) replicò energicamente a questi
argomenti critici con un vigore proporzionale all’importanza cruciale che tale
questione a suo avviso rivestiva per i destini stessi della rivoluzione
socialista internazionale. Il testo di Lenin Contro l’economicismo
imperialista è, tra gli altri, un efficace compendio di tale replica. “E’
vero”, diceva Lenin, “i comunisti sono i veri custodi
dell’indipendenza proletaria ma, proprio in ragione della propria prospettiva
indipendente, devono far proprie tutte le ragioni di emancipazione delle masse
opresse, ivi inclusa l’emancipazione nazionale dal giogo coloniale. Non farlo
sarebbe – questo sì – la rinuncia alla propria prospettiva, a unico
vantaggio dell’imperialismo e delle stesse borghesie nazionali dei popoli
oppressi, votate al compromesso subalterno con l’imperialismo”.
“E’
vero”, diceva Lenin, “i comunisti rivendicano il superamento storico
delle frontiere nazionali dentro la prospettiva della repubblica proletaria
mondiale. Ma questa prospettiva di libera federazione dei popoli del mondo
implica la rottura di ogni sudditanza coatta delle nazioni oppresse alla
dominazione imperialista. A sua volta, nessun popolo può essere libero se
opprime altri popoli.”
E
ancora, in risposta alla Luxemburg: “E’ vero, l’autodeterminazione
nazionale piena e stabile delle nazioni oppresse è incompatibile con la natura
economica dell’imperialismo. Ma proprio per questo, come altre rivendicazioni
democratiche, il principio di autodeterminazione nazionale va connesso alla
prospettiva proletaria socialista: e può contribuire ad avvicinare a tale
prospettiva, proprio sulla base dell’esperienza concreta della sua
incompatibilità con il capitalismo mondiale, masse grandi dell’umanità.
Viceversa, il rifiuto di quella rivendicazione significherebbe voltare le spalle
alle aspirazioni di emancipazione e di libertà di quelle masse oppresse e per
di più proprio nel momento del loro levarsi di fatto contro il giogo coloniale”.
Ma
al di là di ogni replica specifica, Lenin trae spunto dal confronto sulla
questione nazionale per riproporre una lezione di fondo sui caratteri stessi
della rivoluzione proletaria. La rivoluzione proletaria internazionale secondo
Lenin (e Trotsky) non poteva che riflettere il carattere ineguale e combinato
del capitalismo mondiale. Chi pensa alla rivoluzione socialista come a una linea
retta e uniforme, semplicemente e unicamente “proletaria”, scambia la realtà
con la propria immaginazione. Tanto più nel quadro internazionale.
Ecco
cosa scriveva Lenin a commento dell’insurrezione irlandese del 1916 e contro
la sottovalutazione della sua importanza: “Credere che la rivoluzione
sociale sia immaginabile senza le insurrezioni delle piccole nazioni
nelle colonie e in Europa, senza le esplosioni rivoluzionarie di una parte della
piccola borghesia, con tutti i suoi pregiudizi, senza il movimento delle masse
proletarie e semiproletarie arretrate contro il giogo dei grandi proprietari
fondiari, della Chiesa, contro il giogo monarchico, nazionale, ecc. significa
rinnegare la rivoluzione sociale. Ecco: da un lato si schiera un esercito e
dice: ‘Siamo per il socialismo’, da un altro lato si schiera un altro
esercito e dice: ‘Siamo per l’imperialismo’, e questa sarà la rivoluzione
sociale! Soltanto da un punto di vista così pedantesco e ridicolo sarebbe
possibile affermare che l’insurrezione irlandese e un ‘putsch’.
“Colui
che attende una rivoluzione sociale ‘pura’, non la vedrà mai. Egli è un
rivoluzionario a parole che non capisce la vera rivoluzione…
“La
rivoluzione socialista in Europa non può essere nient’altro che
l’esplosione della lotta di massa di tutti gli oppressi e di tutti i
malcontenti. Una parte della piccola borghesia e degli operai arretrati vi
parteciperanno inevitabilmente – senza una tale partecipazione non è
possibile una lotta di massa, non è possibile nessuna rivoluzione
– e porteranno nel movimento, non meno inevitabilmente, i loro pregiudizi, le
loro fantasie reazionarie, le loro debolezze e i loro errori. Ma oggettivamente
essi attaccheranno il capitale, e l’avanguardia cosciente della
rivoluzione, il proletariato avanzato, esprimendo questa verità oggettiva della
lotta di massa varia e disparata, variopinta ed esteriormente frazionata, potrà
unificarla e dirigerla, conquistare il potere….” (Lenin, Risultati
della discussine sull’autodecisione, p. 353).
Conclusione
Riscoprire
la verità del bolscevismo, liberandolo dalle sue caricature, non significa solo
onorare la sua storia ma investirlo nel futuro del movimento operaio e dalla sua
giovane generazione.
Anche
oggi, come un secolo fa, si dischiude una svolta d’epoca profonda, segnata
dalla crisi del capitalismo internazionale, dalla rottura dei vecchi equilibri
sociali e politici, dalla ripresa delle contese imperialistiche e delle corse
coloniali, dall’acutizzarsi della lotta di classe e dello scontro tra
imperialismo e popoli oppressi.
Anche
oggi, come un secolo fa, le vecchie direzioni del movimento operaio consumano la
crisi del proprio riformismo, si associano sempre più strettamente ai governi
liberali controriformatori e coloniali, moltiplicano le contraddizioni con la
propria base sociale.
Anche
oggi, come un secolo fa, è necessaria una battaglia internazionale per una
nuova direzione del movimento operaio e per il rilancio della prospettiva
rivoluzionaria e socialista, quale unica vera alternativa alla barbarie del
capitalismo.
E
così, come un secolo fa, la riscoperta da parte di Lenin del “vero” Marx,
riscattato dalle deformazioni riformiste, fu decisivo per il rilancio della
prospettiva rivoluzionaria, così oggi il recupero del “vero” Lenin,
liberato dalle deformazioni staliniane, socialdemocratiche e centriste, è
decisivo per la rifondazione di un partito rivoluzionario. Perché, tanto più
oggi, solo il recupero dell’intransigenza dei principi e, insieme, della
complessità della rivoluzione, può armare la lotta per la conquista del
potere.