Marxismo rivoluzionario n. 3 - speciale / lenin ottant'anni dopo

 

NATURA E FUNZIONE DEL PARTITO

Lo strumento della soggettività cosciente

 

 

di Franco Grisolia

 

 

“Dateci un’organizzazione di rivoluzionari e rovesceremo la Russia!”

Lenin, Che fare? 1902

 

 

Senza il partito, al di fuori del partito, aggirando il partito, con un surrogato di partito, la rivoluzione proletaria non può vincere”, così afferma Trotsky nel suo scritto Le lezioni dell’Ottobre pubblicato nel 1924. Senza il partito bolscevico la rivoluzione russa sarebbe stata inimmaginabile. Per oltre due decenni (un periodo relativamente breve ma intensissimo) una lotta politica e teorica forgiò lo strumento che fu capace di dirigere le masse operaie e, sotto la loro egemonia, quelle contadine alla presa del potere e all’avvio di un processo di trasformazione socialista.

Questi dati storico-politici elementari vanno tuttavia compresi e riportati ad elemento di strategia politica per l’oggi. Perchè la costruzione odierna di un partito comunista e rivoluzionario non può prescindere dallo studio e comprensione dell’esperienza bolscevica.

 

Una tradizione di lotte di frazioni

Occorre, innanzitutto, ricordare che il partito bolscevico nacque nel quadro di una costante e aspra lotta politica all’interno delle forze che si richiamavano alla prospettiva del socialismo e della rivoluzione sulla base del marxismo. Le ripetute critiche al “frazionismo”, alle discussioni “astratte”, tanto frequenti anche nel Partito della rifondazione comunista esprimono di per sè stesse un approccio antirivoluzionario e anti­comunista. Esse riflettono le tradizioni staliniste e semistaliniste della sinistra italiana e anche dell’estrema sinistra sviluppatasi a partire dal ’68. La storia del movimento “socialdemocratico” (cioè marxista nei termini precedenti alla rivoluzione d’Ottobre) russo fu infatti storia di una continua lotta di frazione, che sola permise alla frazione bolscevica di diventare, raccogliendo finalmente in sè tutto il meglio della social­democrazia il partito della rivoluzione ([1]).

Lenin teorizzò la necessità della chiara battaglia politica di frazione in quello che è uno dei suoi testi più importanti e quello fondamentale rispetto alle concezioni sul partito: il Che fare?, scritto nel 1902 e di cui riproduciamo, a seguito di questo articolo alcuni brani. In esso Lenin afferma: “Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Non si insisterà mai troppo su questo concetto in un periodo in cui la predicazione opportunistica venuta di moda è accompagnata dall’esaltazione delle forme più anguste di azione pratica… bisogna essere ben miopi per giudicare inopportune e superflue le discussioni di frazione e la rigorosa definizione delle varie tendenze. Dal consolidarsi dell’una piuttosto che dell’altra “tendenza” può dipendere per lunghi anni l’avvenire della sociademocrazia russa.”

 

L’esigenza di chiarezza teorica

Per Lenin il partito che avrebbe dovuto e potuto sviluppare il processo rivoluzionario in Russia non poteva che essere marxista rivoluzionario. In effetti il partito bolscevico, e prima di esso la socialdemocrazia rivoluzionaria — ricordiamo che i bolscevichi furono dal 1903 al 1912 una frazione, sia pure largamente autonoma, all’interno del Partito operaio socialdemocratico russo (Posdr), fondato nel 1898, ed in cui Lenin aveva gia iniziato, in particolare con il Che fare?, la battaglia contro l’opportunismo — si sviluppò in opposizione e critica alle correnti rivoluzionarie non marxiste. Cosi nel Che fare? Lenin lega la necessità della chiarezza teorica anche al pericolo rappresentato dalla “reviviscenza delle tendenze rivoluzionarie non socialdemocratiche”. Tendenze che furono importanti nel movimento popolare russo e, in realtà, dotate di un sostegno di massa (in primo luogo tra i contadini) superiore a quella dei bolscevichi. La loro rappresentanza politica essenziale fu il Partito socialista rivoluzionario (che aderì anche alla Seconda Internazionale), spesso diviso in correnti, di cui quelle più radicali si situarono spesso, insieme agli anarchici — come ricordano sia Trotsky nella sua Storia della rivoluzione russa sia Zinoviev nella sua Storia del Partito bolscevico ([2]) — a “sinistra” (almeno nei metodi) dei bolscevichi, rivendicando insurrezioni immediate, organizzando guerriglie e attentati. Tuttavia, benché col loro radicalismo attirassero anche militanti operai e studenteschi precedentemente aderenti alla socialdemocrazia, il loro rivoluzionarismo restava piccolo borghese e incapace di sviluppare positivamente un progetto di trasformazione socialista.

Una delle caratteristiche della costruzione del partito che guidò la rivoluzione russa fu dunque il rifiuto di quel deleterio concetto della “unità dei rivoluzionari” che anche oggi viene così spesso ingenuamente ripreso. L’unità che Lenin realizzò fu quella dell’avanguardia che si riconosceva nella teoria e nella prassi nel marxismo rivoluzionario. E’ da notare ciò che ricorda Trotsky nel capitolo "L’arte dell’insurrezione" della sua Storia della rivoluzione russa: “Più di una volta gli opportunisti della socialdemocrazia internazionale presero le difese della vecchia tattica socialrivoluzionaria… mentre… era sottoposta ad una critica spietata da parte dei bolscevichi.” L’adattamento alla propria borghesia non è contraddetto dal richiamo al rivoluzionarismo generico e populista di altri paesi (specie lontani e totalmente o parzialmente non “democratici”). Così oggi in Italia Fausto Bertinotti utilizza il “sostegno” al rivoluzionario non marxista Marcos per difendere la sua politica opportunista e lottare meglio contro il marxismo rivoluzionario.

 

Partito e “coscienza esterna”

Un altro elemento centrale della teoria e prassi leninista del partito è il concetto della lotta contro la “coscienza spontanea” delle masse e contro quello che oggi si chiama “spontaneismo” e/o “movimentismo”. Quante volte ci si sente ripetere anche da compagni/e che si ritengono rivoluzionari, marxisti o leninisti (e che seguono in particolare le tradizioni che discendono dall’estrema sinistra spontaneista italiana del ’68) che i rivoluzionari devonto rappresentare “la volontà delle masse” o che “le idee giuste vengono dalla classe”. Se i bolscevichi si fossero basati su concetti di questo tipo la rivoluzione russa non si sarebbe mai realizzata. Al contrario, essi basarono la propria azione sulla lotta contro tali concezioni.

L’origine del Che fare? leniniano è esattamente questa. Il libro nacque per sconfiggere l’influenza — sviluppatasi in seno alla socialdemocrazia marxista russa — dei cosiddetti “economisti” (o “economicisti”). Questi sostenevano che al centro dell’azione della classe operaia dovesse essere la lotta per le proprie rivendicazioni specifiche (di “fabbrica”) e che la socialdemocrazia dovesse rappresentare la coscienza spontanea dei lavoratori, espressa negli scioperi e nella lotta economica in generale, che, a loro giudizio, aveva per sua natura un carattere socialista.

Lenin sviluppò contro l’“economismo” una fortissima polemica, argomentando che (si vedano i brani del Che fare? riprodotti in seguito):

• la coscienza spontanea della classe operaia, come prodotto diretto della sua lotta sul terreno economico, non è coscienza socialista e rivoluzionaria, ma solo coscienza “tradeunionistica”, che cioè mira ad ottenere migliori condizioni nel quadro dell’attuale società e dell’attuale ordinamento politico (“La storia di tutti i paesi attesta che con le sue sole forze la classe operaia è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradeunionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di cercar di ottenere dal governo determinate leggi necessarie agli operai, ecc.”, in Che fare? iI capitolo, "La spontaneità delle masse");

• pertanto compito dei marxisti è quello di portare nella classe operaia “dall’esterno” la coscienza socialista tramite il loro intervento.

Questa concezione leniniana — la più contestata e rimossa non solo da riformisti, populisti, “centristi” (cioè né riformisti né veri rivoluzionari ma intermedi), ma anche da molti di coloro che si richiamano al marxismo rivoluzionario — va intesa chiaramente nel suo duplice significato. Essa implica sia il fatto che la coscienza rivoluzionaria sia portata nella classe attraverso l’azione e l’isegnamento dei militanti di avanguardia marxisti, sia il fatto che essa sia portata “dall’esterno della lotta economica”, e cioè educando le masse ad agire sul terreno della lotta politica contro il regime politico e ogni tipo di oppressione.

E’ dalla congiunzione di questi due aspetti che nasce un approccio rivoluzionario all’intervento nelle masse. Lenin afferma, sempre nel Che fare?: “Non si ripeterà mai troppo che l’ideale del socialdemocratico non deve essere il segretario di una trade-union, ma il tribuno popolare, il quale sa reagire contro ogni manifestazione di arbitrio e di oppressione… sa generalizzare tutti questi fatti e trarne il quadro completo della violenza poliziesca e dello sfruttamento capitalistico; sa… approfittare di ogni minima occasione per esporre dinanzi a tutti le proprie convinzioni socialiste e le proprie rivendicazioni democratiche, per spiegare a tutti l’importanza storica mondiale della lotta emancipatrice del proletariato.”

Ecco il militante rivoluzionario che il partito deve costruire, così diverso da quello della tradizione dell’estrema sinistra italiana del ’68 e anche dei “marxisti rivoluzionari” inconseguenti, che il più delle volte si limita ad unire il radicalismo sul terreno economico-sindacale con la discussione politica tra soli comunisti, invece di cercare di presentare alle masse non solo il proprio impegno sul terreno immediato ma anche la propria prospettiva politica alternativa socialista e rivoluzionaria.

Dal concetto leninista del partito su cui si costruì il bolscevismo appare evidente la vacuità delle ricorrenti affermazioni della tradizione “centrista” italiana sulla necessità di costruire “un partito che sia espressione dei movimenti” oppure per usare una formula cara ai compagni (trotskisti molto inconseguenti) di “Bandiera rossa” (e della loro corrente internazionale) “un partito che rispetti l’autonomia dei movimenti”. “Rispettare l’autonomia dei movimenti” significa o lasciarli in mano a demagoghi opportunisti o, al meglio, tollerare senza lotta che essi rimangano sul loro terreno spontaneo del tradeunionismo (o equivalente economicismo per altri settori diversi dalla classe operaia), cioè, per usare le parole di Lenin, della loro “coscienza borghese”. Invece il partito della rivoluzione socialista è il partito che interviene nei movimenti di massa con le proprie proposte, per realizzare la propria egemonia politica e costruirsi come direzione e punto di riferimento, lottando per l’organizzazione democratica (due termini inseparabili) contro spontaneismo e movi­mentismo, proprio perché questa è la migliore condizione per lo sviluppo della coscienza e per la lotta per l’egemonia rivoluzionaria.

E’ in questo quadro che si crea un rapporto fecondo tra spontaneità e direzione politica di classe, rapporto che è l’elemento chiave per lo sviluppo positivo della situazione rivoluzionaria (che il partito non “crea” — Lenin, Trotsky e tutti i marxisti russi restarono sorpresi dallo scoppio delle rivoluzioni sia del 1905 che del febbraio ’17 — ma che può favorire nel suo sviluppo con la propria azione). E’ questa la grande lezione della rivoluzione dell’Ottobre ’17, nel legame dialettico tra il movimento di massa organizzato nei soviet e il partito bolscevico.

 

Un partito di militanti attivi

Dalla concezione del rapporto ricorrente tra spontaneità e direzione deriva anche la concezione della composizione del partito rivoluzionario. Il concetto, cioè, del partito d’avanguardia formato da “rivoluzionari di professione”. Se “senza teoria rivoluzionaria non esiste movimento rivoluzionario”, se compito del partito è quello di “permeare il proletariato” della coscienza rivoluzionaria, è chiaro che esso dovrà essere formato da militanti che si pongano sul terreno di quella teoria e che si propongano questo compito. “Per “teste forti” in materia di organizzazione bisogna intendere come ho già detto più di una volta solo i “rivoluzionari di professione” poco importa se studenti o operai di origine.” (Lenin, Che fare?).

Naturalmente si tratta di comprendere bene il significato del concetto leninista e dialettizzarlo. Esso infatti ha un determinato senso nel quadro di una situazione di clandestinità, un altro in quella di un regime di democrazia borghese. Ma l’elemento essenziale rimane: il partito rivoluzionario è stato nell’esperienza bolscevica, e dovrà essere in ogni caso, un partito composto da militanti attivi — e solo da essi — che fanno coscientemente della rivoluzione lo scopo e l’attività prioritaria della propria vita (da ciò il termine di “rivoluzionari di professione”). Ed è anzi il partito in quanto tale che deve porsi il compito di trasformare in “rivoluzionari di professione” i militanti, in particolare giovani, che vi aderiscono.

Aggiungiamo che il partito formato da militanti attivi è il più democratico, perché è quello che tende a rendere più maturo, approfondito, concreto e non personalistico il dibattito. Sia pure con molte eccezioni, i militanti tendono maggiormente a decidere in base alle proposte così come le interpretano alla luce delle loro conoscenze teoriche e della loro esperienza pratica. (Si confronti invece il quadro totalmente diverso in cui si è svolto il terzo congresso del Prc: le posizioni rivoluzionarie trovarono ampio sostegno, sia pure di minoranza, tra i militanti attivi del partito, mentre la quasi totalità degli iscritti inattivi che partecipò alle votazioni si espresse — senza reale conoscenza delle posizioni a confronto — “per Bertinotti e Cossutta.”)

 

Un partito proletario

Il partito che Lenin e i suoi compagni costituirono non fu, però, un generico partito d’avanguardia. Fu un partito proletario. Anche qui si tratta di comprendere questo concetto. Nella sua Storia Zinoviev racconta come nei primi anni del secolo la maggioranza dei militanti bolscevichi non fossero operai. Solo successivamente — in particolare con la rivoluzione del 1905 — questa situazione si trasformò portando il partito bolscevico ad avere una maggioranza assoluta di aderenti operai industriali. Ma la questione dell’orientamento verso il proletariato venne posta come elemento centrale fin dalla nascita della corrente marxista nel movimento popolare russo e su questo essa si differenziò dal movimento populista. “Il conflitto tra marxisti e populisti, che prendeva forme diverse da un punto di vista dottrinale, si riduceva alla questione del ruolo della classe operaia… Nel 1889, a Parigi, in occasione del primo congresso della II Internazionale, Plechanov, allora capo indiscusso dei marxisti rivoluzionari russi, dichiarò: “La rivoluzione russa vincerà come rivoluzione della classe operaia o non vincerà”.” (Zinoviev, Storia del partito bolscevico).

Questi concetti non rimasero astrazione e si collegarono dialetticamente con quello della “coscienza portata dall’esterno”. Fin dall’inizio i quadri marxisti rivoluzionari, anche se in maggioranza studenti o intellettuali, indirizzarono la loro azione verso le fabbriche per costruire in esse i quadri operai rivoluzionari, per dare insime a loro “coscienza socialista” al nascente proletariato russo, per sviluppare le sue lotte economiche e sopratutto — come detto — il suo intervento nell’arena politica. Con l’obbiettivo quindi di costruire un partito non solo pragrammaticamente ma anche organizzativamente proletario. Un partito che lottasse per “l’egemonia del proletariato” nella rivoluzione ([3]), dopo aver realizzato la conquista della sua maggioranza al partito rivoluzionario stesso. Maggioranza che effettivamente il partito bolscevico riuscì a conquistare nel periodo precedente la prima guerra mondiale. Infatti, nel 1912 tutti i sei deputati operai eletti al parlamento nazionale (sulla base di antidemocratiche elezioni per circoscrizioni uninominali e classi sociali in cui il voto di 1 proprietario terriero equivaleva a quello di 45 operai!) furono bolscevichi, mentre nel partito la maggioranza assoluta degli aderenti era ormai costituita da operai e operaie dell’industria.

Tuttavia i bolscevichi persero questa maggioranza nel corso della guerra mondiale, anche per il massiccio afflusso di nuova classe operaia dalle campagne, nel quadro dello sviluppo della produzione di guerra. Ma essi la seppero riguadagnare nel periodo tumultuoso tra il febbraio e l’ottobre ’17 e portarla all’alleanza egemonica con i contadini e alla vittoria. Come scrive Zinoviev nella sua Storia: “Il nostro partito non ha svolto un ruolo decisivo nella rivoluzione di Febbraio, e non avrebbe potuto svolgerlo, visto che la classe operia era per la difesa nazionale. In cambio, nei mesi seguenti esso ha realizzato il “capitale” investito nel movimento operaio per un quarto di secolo e, sulla base dell’idea dell’egemonia del proletariato, ha liberato la classe operaia russa dall’influenza dei menscevichi e degli s-r [socialrivoluzionari ndr], portandola alla vittoria definitiva sulla borghesia”.

 

Nessun feticismo della forma-partito

La teoria leninista del partito, quale sopra esposta, configura forse un “feticismo” della “forma partito”? Per nulla; è anzi esattamente il contrario. “Non c’è movimento rivoluzionario senza teoria rivoluzionaria”. Il partito è necessario ma solo se mantiene chiaramente il suo carattere marxista e rivoluzionario. Esso è uno strumento, non un fine. Lenin dimostrò nel concreto il contenuto della sua concezione del partito durante tutta la sua vita.

Si dimentica quasi sempre, in primo luogo, che egli costruì il partito della rivoluzione proprio “distruggendo”, con un’aspra lotta di frazione, il “suo” partito originario, cioè il Posdr, e che per questo egli fu condannato come “settario”, “dogmatico”, “distruttore” e “frazionista” non solo dai suoi avversari in Russia, ma anche dalla larga maggioranza del movimento socialista internazionale.

Ma anche rispetto alla frazione bolscevica Lenin subordinò sempre l’unità alla chiarezza politica. La storia della frazione bolscevica è essa stessa storia di lotte di tendenze. Essa fu particolarmente acuta nel 1907-1909, quando Lenin fu in aspro contrasto (mentre lottava nell’insieme del movimento operaio russo contro l’opportunismo di destra) con larghi settori “ultrasinistri”, in particolare sulla questione della partecipazione alle elezioni per il parlamento zarista e anche della partecipazione ai sindacati, diretti da riformisti (o peggio). Così noi vediamo Lenin ad una conferenza nazionale del partito nel 1907 (allora ancora unificato; la rottura finale e formale sarà nel 1912) che vota, unico tra i delegati bolscevichi, insieme ai menscevichi per la partecipazione alla terza duma (parlamento zarista), eletto con i criteri reazionari già ricordati (anzi con alcune altre clausole negative).

Nella sua Storia Zinoviev racconta: “Lenin, con alcuni altri, difese la partecipazione, ma la maggioranza [dei bolscevichi, ndr] era contro di lui. Gli si rimproverava di evolvere verso la destra consigliando agli operai di entrare in quella che sarebbe stata un’assemblea arci­rea­zio­naria… Per un certo periodo la tendenza antisindacale ebbe la meglio nella frazione bolscevica… Lenin pensava che dovessimo rimanere legati alla massa operaia… Se gli operai stavano nei sindacati, lo do­vevamo fare anche noi. Se potevano inviare alla duma zarista anche un sol uomo, bisognava farlo: avrebbe detto agli operai la verità e noi avremmo stampato e diffuso il suo discorso… Se in quel momento la tendenza antileninista avesse riportato una vittoria, il partito [la frazione bolscevica, ndr] si sarebbe trasformato in una setta.” Ed è di fronte a questo rischio che nel 1908 Lenin progettò addirittura di abbandonare la frazione bolscevica e di costruirne una nuova, ciò che non accadde perchè finalmente riuscì vincitore nello scontro interno.

Ugualmente nella primavera del 1917, rientrando dall’esilio, Lenin dovette sviluppare una battaglia controcorrente nel partito, non solo contro il gruppo dirigente Kamenev-Stalin che teneva un atteggiamento ambiguo (né sostegno né opposizione) verso il governo prov­vi­­sorio di “centro-sinistra”, ma anche verso quei quadri dirigenti più radicali che proponevano l’opposizione al governo ma senza trarne tutte le conseguenze di progetto rivoluzionario immediato. E fu solo questo riorientamento del partito che permise ad esso di svolgere il ruolo che svolse nell’Ottobre. Non fosse riuscito nel riorientamento Lenin avrebbe certamente cercato di raggruppare su un nuovo asse organizzativo le forze conseguentemente rivoluzionarie.

Sono dunque la socialdemocrazia “classica” e lo stalinismo che fanno del “partito della classe operaia” un feticcio, un fine in sé a cui tutto subordinare. La lezione di Lenin è al contrario che il partito proletario d’avanguardia è uno strumento indispensabile ma pur sempre uno strumento in vista del fine: la presa del potere da parte del proletariato.

Ma se così è, e se Lenin dovette riorientare il partito addirittura nel ’17, non si deve concludere che la questione centrale non è tanto il partito proletario quanto il suo gruppo dirigente, o addirittura il suo o i suoi leader? Porre la questione in questo modo significherebbe non cogliere la dialettica che permise il trionfo dell’Ottobre. Lenin dovette sì ri­orientare il partito ma riuscì a farlo perché esso era “quel partito”, e per questo, d’altra parte, esso riuscì a dirigere le masse.

 

Il ruolo di Lenin e quello del “suo” partito nell’Ottobre

Come ricorda in varie occasioni Trotsky, senza Lenin non ci sarebbe stato il trionfo dell’Ottobre, ma senza il partito — cioè un corpo formato da migliaia di quadri e militanti operai, forgiato in anni di lotte politiche interne ed esterne ([4]) — Lenin non sarebbe stato in grado di dirigere la classe operaia alla vittoria. Ecco come Trotsky riassume tutto ciò due decenni dopo il ’17 nel suo scritto Classe, partito e direzione: “Che vi era all’“attivo” del bolscevismo? All’inizio della rivoluzione, solo Lenin manteneva una concezione rivoluzionaria chiara e profonda. I quadri russi del partito erano dispersi e notevolmente confusi. Ma il partito godeva di autorità tra gli operai d’avanguardia. Lenin godeva di autorità tra i quadri del partito. La concezione politica di Lenin corrispondeva allo sviluppo reale della rivoluzione, ed era convalidata da ogni nuovo avvenimento. Questi elementi dell’“attivo” fanno meravi­glie in una situazione rivoluzionaria, cioè in circostanze di acutizzazio­­ne della lotta di classe. Il partito allineò la sua politica in accordo alla concezione di Lenin, che armonizzava con l’autentico corso della rivoluzione — e perciò trovò saldo appoggio in decine di migliaia di operai d’avanguardia. In pochi mesi, basandosi sullo sviluppo della rivoluzione, il partito fu in grado di convincere la maggioranza della classe operaia della correttezza della propria impostazione: questa maggioranza, organizzata in soviet, potè a sua volta attrarre soldati e contadini.”.

Questa la grande lezione del bolscevismo da studiare e di cui riap­pro­priarsi dopo tanti decenni di tradimenti, errori e confusioni anche nel seno dell’avanguardia del movimento operaio. Per costruire in una inevitabilmente lunga lotta, sulle basi conseguenti del marxismo rivoluzionario — contro ogni opportunismo ma anche contro le spinte settarie dell’autoisolamento dalla classe quale è nella realtà — un corpo organizzato — coeso ma in continuo dibattito e confronto interno — di migliaia di quadri rivoluzionari inseriti profondamente nel movimento operaio, in lotta contro l’influenza del riformismo ma anche del puro “economismo” e “spontaneismo”; un partito in lotta costante per guadagnare la maggioranza politica della classe ad una prospettiva anticapitalistica e portarla, al maturare delle condizioni obbiettive, alla conquista del potere.

 

 

Note

 

1)     Basti pensare che nel 1912 il Partito operaio socialdemocratico russo (Posdr) si divideva, secondo un elenco steso da Rosa Luxenburg, in 12 frazioni. Quella bolscevica era la più importante ma lungi dall’essere egemone. Il partito che diresse la rivoluzione nel 1917 fu in realtà il prodotto della congiunzione ai bolscevichi di cinque altre frazioni (tra cui quella diretta da Trotsky) e di minoranze significative di ulteriori tre.

 

2)     La storia del partito bolscevico di Zinoviev, edita in volume nel 1923, è stata recentemente pubblicata in edizione italiana dalla Graphos con il titolo La formazione del partito bolscevico 1898-1917. Il testo è basato su un ciclo di conferenze tenuto da Zinoviev, allora segretario dell’Internazionale Comunista, nello stesso 1923 in occasione del XXV anniversario del Partito operaio socialdemocratico russo. E’ un ottimo testo popolare sulla storia del partito bolscevico e sui problemi politici legati al suo sviluppo che consigliamo ad ogni compagno di leggere e su cui pensiamo di tornare in un prossimo futuro con una recensione.

 

3)     E’ diffuso in Italia un mito secondo cui il concetto di egemonia è una inno­vazione teorica peculiare del pensiero di Antonio Gramsci, che lo distaccherebbe dal rigido “dogmatismo” della III Internazionale leninista. In realtà il grande rivoluzionario italiano non ha fatto che riprendere un concetto proprio da decenni del marxismo rivoluzionario russo (“I promotori dell’idea dell’egemonia del proletariato nella rivoluzione sono Plechanov e Lenin”: così Zinoviev nella sua Storia, 1923); Gramsci, con grande brillantezza, ripropone questa tematica centrale in Italia. Per altro, l’utilizzo del termine “egemonia” — più vago, a prima vista, di altri — nel periodo del carcere costituiva per Gramsci anche un elemento di prudenza rispetto ad ulteriori misure repressive dei suoi carcerieri fascisti.

 

4)     Ecco cosa afferma Trotsky in una lettera del ’21 allo storico comunista Olminsky: “Soltanto il bolscevismo, con la fermezza irriducibile della sua linea, ha raccolto nelle sue file gli elementi veramente rivoluzionari dei vecchi intellettuali e dell’avanguardia della classe operaia”.



 

 

[3] E’ diffuso in Italia un mito secondo cui il concetto di egemonia è una inno­vazione teorica peculiare del pensiero di Antonio Gramsci, che lo distaccherebbe dal rigido “dogmatismo” della III Internazionale leninista. In realtà il grande rivoluzionario italiano non ha fatto che riprendere un concetto proprio da decenni del marxismo rivoluzionario russo (“I promotori dell’idea dell’egemonia del proletariato nella rivoluzione sono Plechanov e Lenin”: così Zinoviev nella sua Storia, 1923); Gramsci, con grande brillantezza, ripropone questa tematica centrale in Italia. Per altro, l’utilizzo del termine “egemonia” — più vago, a prima vista, di altri — nel periodo del carcere costituiva per Gramsci anche un elemento di prudenza rispetto ad ulteriori misure repressive dei suoi carcerieri fascisti.