Un Gattopardo a Buenos Aires

 

 

di Tiziano Bagarolo

 

 

L'elezione del nuovo Presidente della Repubblica segna un punto di svolta nella crisi argentina. I risultati delle urne del 27 aprile e la rinuncia al ballottaggio di Carlos Menem –che ha aperto a Nestor Kirchner, dato largamente vincente nei sondaggi, le porte della Casa Rosada–, indicano che la crisi politica del paese latinoamericano conosce una relativa stabilizzazione ma lasciano anche intravedere i limiti di questa stabilizzazione.

Convocando elezioni anticipate, un anno fa circa, nei giorni tumultuosi seguiti alla selvaggia repressione antipiquetera di Ponte Pueyrredon, il "presidente provvisorio" Edoardo Duhalde si proponeva un disegno ambizioso: rilegittimare il potere dello Stato e l'autorità del sistema politico terremotato dalla bancarotta economica e dalla rivolta popolare del dicembre 2001. Anche se non tutti i dettagli di quel disegno si sono realizzati (Duhalde, ad esempio, si è visto comunque costretto a rinunciare alla candidatura e alle ambizioni di succedere a se stesso), non si può dubitare tuttavia che l'operazione elettorale concepita da Duhalde si sia rivelata un passaggio vincente per la classe dominante. I movimento sociali nati nel paese negli ultimi due anni, non hanno trovato una traduzione credibile sul terreno elettorale; la scena è stata per intero occupata da candidati in un modo o nell'altro espressione della classe dominante; alla fine accede alla presidenza, se non Duhalde medesimo, una sua creatura: Nestor Kirchner, anch'egli peronista, già governatore della provincia meridionale di Santa Cruz, terra povera di abitanti e ricca di ricchezze naturali su cui hanno messo gli occhi le multinazionali statunitensi.

In campagna elettorale Kirchner ha cercato di presentarsi come "uomo nuovo", moderatamente progressista e keynesiano a là Lula, rappresentante della borghesia produttiva nazionale interessata allo sviluppo del mercato interno e contraria agli eccessi di quel modello neoliberista che, dopo aver celebrato i suoi effimeri trionfi alla metà degli anni novanta, ha precipitato il paese nella catastrofe. Non si può dire tuttavia che questa immagine abbia abbagliato l'elettorato argentino: al primo turno Kirchner si è piazzato secondo raccogliendo il 22% dei voti (pari al 17% dell'intero corpo elettorale). Avrebbe vinto largamente il ballottaggio, ma solo in grazia di una sorta di "effetto Le Pen" all'argentina, essendo Carlos Menem odiato dalla maggioranza della popolazione che ritiene l'ex presidente degli anni novanta il responsabile principale della catastrofe degli ultimi anni. La rinuncia di Menem è stata perciò un vero "regalo avvelenato" per Kirchner, un modo per sottrargli la legittimazione di un voto popolare maggioritario e per rendere la sua posizione più debole di quanto già non sia. Un segno anche questo, in effetti, di quanto restino profonde le contrapposizioni in seno al Partido Justicialista, malgrado i tanti voti raccolti dai suoi candidati, e, dietro a queste, le divisioni nella classe dominante.

 

 

Una contrapposizione fittizia

 

In verità, la contrapposizione di "modelli" economici fra Menem (o Lopez Murphy) da una parte e Kirchner-Duhalde (o Rodriguez Saa e Carriò) dell'altra è più virtuale che reale. Intanto perché in passato Kirchner è stato menemista quanto il suo protettore Duhalde (che di Menem è stato addirittura vicepresidente…). Oggi cerca anch'egli di cavalcare l'onda di "sinistra" che soffia in America latina e che rappresenta ben di più di una semplice crisi dell'egemonia neoliberista; è semmai una delle espressioni politiche – con la radicalizzazione sociale e l'emergere in tutto il continente di lotte di massa con tendenze insurrezionali – della profondità della crisi capitalistica che ha travolto negli ultimi anni l'America latina.

Ma Kirchner, come d'altra parte Lula, non ha alcuna intenzione di rifiutare il pagamento del debito estero o di mettere in discussione la concertazione con il Fondo monetario internazionale (ossia gli interessi imperialistici che ieri hanno saccheggiato e affondato l'economia argentina e che oggi pretendono di rifarsi delle perdite aggravando ancora le condizioni delle larghe masse). In questa contesto nessun "nuovo modello" keynesiano è possibile, alternativo a quello liberista e autoritario di ieri e dell'altro ieri, ma solo un barcamenarsi fra spinte opposte: fra il timore di nuove esplosioni sociali e l'esigenza di disinnescarle con qualche parziale misura tampone, da un lato, e, dall'altro, la logica implacabile del sistema del profitto che pretende il risanamento della situazione finanziaria, la restituzione dei debiti, la riconsegna ai proprietari delle aziende occupate dai lavoratori, il ristabilimento della "legge e ordine", la repressione delle punte avanzate del movimento sociale che possono in ogni momento innescare una dinamica di contestazione generale degli assetti sociali e politico vigenti.

In questo senso l'impresa in cui sarà impegnato nei prossimi mesi il nuovo governo argentino è, come ha scritto Prensa Obrera, il settimanale dei compagni del Partido Obrero, quella del Gattopardo, "cambiare qualcosa perché non cambi nulla". Ma, come è facile immaginare, non sarà un'impresa facile.

 

 

La sinistra dopo il voto e di fronte al nuovo governo

 

Anche se la classe dominante ha tutt'altro che risolto i suoi problemi e anzi questi in larga misura restano da affrontare, è evidente che la crisi argentina non ha più caratteri rivoluzionari e di questo devono tener conto i rivoluzionari argentini. L'operazione Duhalde –portare sul piano elettorale lo sbocco di una crisi politica rivoluzionaria contando sulla riserva di mezzi che la classe dominante dispone su tale terreno–, è indubbiamente riuscita e ha avuto la capacità di mettere sostanzialmente in "fuori gioco" la sinistra rispetto alla partita elettorale.

In effetti, i partiti di sinistra e le principali organizzazioni classiste e piquetere, pur dando grosso modo lo stesso giudizio sulla natura e gli scopi dell'operazione elettorale, si sono poi divise sui modi di rispondervi.

Numerose forze del movimento e quasi tutti i partiti di sinistra (dai riformisti del movimento Autodeterminazione e libertà di Luis Zamora, ai maoisti della Corrente clasista y combativa, ai trotskisti del PTS, Partito dei lavoratori per il socialismo) hanno propagandato, con diverse motivazioni, l'astensionismo o il voto di protesta (il cosiddetto voto bronca), una "tradizione" argentina che nelle precedenti elezioni dell'ottobre 2001aveva avuto un certo impatto. Questa volta però la campagna boicottista non era in sintonia con i sentimenti di larghe masse ma interpretava piuttosto in modo classicamente estremistico la separazione che era intervenuta negli ultimi mesi fra i settori di avanguardia e le larghe masse popolari (soprattutto disoccupati, insegnati, piccola borghesia impoverita) che erano stati i protagonisti delle mobilitazioni della fine del 2001 e della prima metà del 2002. In tal modo queste forze si sono semplicemente tagliate fuori dalla partita.

Le due forze relativamente maggiori della sinistra argentina hanno scelto invece di presentare propri candidati, ottenendo tuttavia risultati modesti.

Izquierda Unida (un fronte fra il Partito comunista, il Movimento socialista dei lavoratori e indipendenti), fallito il tentativo di costruire un ampio schieramento "progressista" con Zamora e altri, ha cercato di sfruttare l'occasione della rinuncia dei leader più titolati della sinistra riformista (lo stesso Luis Zamora, il leader del sindacato socialdemocratico CTA Victor De Gennaro…) per presentare propri candidati con la speranza di una forte affermazione. In effetti Patricia Walsh ha avuto il miglior risultato della sinistra, ma con un modesto 1,7 in percentuale e perdendo in assoluto circa 200 mila voti (da 530 a 330 mila circa) rispetto a quelli raccolti da Izquierda Unida nell'ottobre del 2001.

Apparentemente soddisfatta di questo risultato, oggi IU valuta il governo Kirchner come un governo "debole" perché scarsamente legittimato dal voto popolare e indica come prospettiva quella di costruire una "pressione" su di esso attraverso i movimenti per "costringerlo a mantenere le promesse elettorali" e imporgli un "cambiamento di modello". E in questo compito sembra identificare il proprio ruolo per la fase a venire. Un approccio che rivela la mancanza di una autonoma prospettiva strategica di classe e un'attitudine sostanzialmente riformista anche se in salsa movimentista.

 

 

I compiti dei rivoluzionari nella nuova fase

 

Anche il risultato di Jorge Altamira, il candidato del Partido Obrero (la cui piattaforma politica abbiamo presentato nel numero precedente di Progetto comunista), è stato modesto e al di sotto delle aspettative (circa 143.000 voti, pari allo 0,8%), in contrasto con i risultati positivi della campagna elettorale del partito in termini di partecipazione e di reclutamento di nuove forze.

Il Partido Obrero dà un diverso giudizio sul governo e sui compiti che derivano dalla nuova fase. Il successo del piano di Duhalde chiude una fase della crisi argentina. La parola d'ordine di un otro Argentinazo, cioè di una seconda spallata rivoluzionaria per completare l'opera iniziata dalla rivolta del dicembre 2002, parola d'ordine che era stata avanzata nelle manifestazioni della seconda metà del 2002 in contrapposizione alla convocazione elettorale di Duhalde, non è più all'ordine del giorno, per quanto una simile prospettiva resti una possibilità che richiede tuttavia una maggiore preparazione politica. E' necessario infatti che le masse facciano l'esperienza del nuovo governo e della sua natura antipopolare.

Ciò cambia le priorità nell'iniziativa dei marxisti rivoluzionari. La questione del potere non è più, nell'immediato, in primo piano. In primo piano sono due altri terreni. Il primo è quello economico-sociale, su cui si tratta di rilanciare l'iniziativa rivendicativa, per sfruttare la contraddizione fra i bisogni e le attese delle masse e i ristretti margini di manovra del governo borghese, per consolidare i legami fra i settori d'avanguardia e i settori più larghi, per rompere la tregua, che le burocrazie sindacali cercheranno di preservare, e rilanciare le lotte; in ultima analisi per rompere l'egemonia delle burocrazie peroniste sulla classe operaia che è stata, ancora una volta, la chiave di volta della impasse della rivoluzione argentina e del recupero di consenso politico del peronismo e della classe dominante.

Centrale è dunque rilanciare l'iniziativa su un programma rivendicativo e politico di natura transitoria a partire dai bisogni delle masse (un lavoro vero, il recupero del salario, l'indennità per i disoccupati, la difesa delle fabbriche occupate, il rifiuto degli aumenti tariffari e delle privatizzazioni, la difesa del diritto alla pensione e alla casa ecc.) che inevitabilmente si scontrano con la politica economica del governo e pongono con immediatezza l'esigenza di rifiutare le imposizioni del Fondo monetario internazionale e dell'imperialismo, di non pagare il debito, di nazionalizzare il sistema bancario per metterlo al servizio della ricostruzione dell'economia nazionale e non di chi organizza il suo saccheggio, ecc.

Il secondo terreno è quello della costruzione dell'alternativa politica di classe. Il bilancio dell'esito elettorale, che ha visto la sinistra andare in ordine sparso e raccogliere risultati al più modesti, condiziona oggi la discussione su questo punto e si riaffaccia, anche se in modi confusi, il tema del fronte unico di classe. Per il Partido Obrero, tuttavia, la questione dell'unità, depurata da ogni ottica strettamente elettoralistica econtingente, si deve misurare sulla chiarificazione delle questioni strategiche del programma, della rottura con ogni illusione di una possibile uscita "progressista nazionale" (cioè riformista) alla crisi, della piena indipendenza di classe rispetto a qualsiasi ipotesi di convergenza con settori borghesi sedicenti "progressisti" o "antimperialisti"…

Si tratta in realtà di una discussione che è aperta in tutta l'America latina, a fronte di esperienze come quelle di Chavez in Venezuela o di Lula in Brasile, e alla tendenza a riproporsi ora in un paese ora in un altro di scontri a carattere semi-insurrezionale. I problemi posti, in altre parole, sono quelli della rivoluzione. Ma a ben vedere non riguardano solo l'Argentina o l'America latina.