Che
cosa difendiamo a Cuba
di Alberto Airoldi
I momenti di dibattito interni
alla sinistra italiana sono sempre più limitati alla necessità di dare
affannosamente una risposta a stimoli esterni. La recente discussione su Cuba
conferma tristemente questa regola. Improvvisamente si scoprono intellettuali e
politici di sinistra, da sempre amici di Cuba, che dicono ‘’No, basta, qui
non vi seguiamo’’, e così facendo accettano acriticamente il terreno di
discussione imposto dall’avversario: quello dei diritti umani. La discussione
diventa ben poco interessante: il fatto che Cuba violi alcuni diritti umani
significa ben poco, visto che praticamente tutti i paesi violano alcuni diritti
umani. Il terreno imposto dall’avversario in realtà sottintende che i diritti
umani fondamentali siano proprio quelli violati a Cuba e che diventino
fondamentali perché è Cuba a violarli. Un intellettuale serio dovrebbe
rifiutare questo terreno di discussione o, per lo meno, mostrare come la pena di
morte sia stata applicata informalmente in tante ‘’democrazie occidentali’’,
tra cui Italia e Spagna e come gli stessi diritti politici siano stati a volte
soppressi, per esempio per i Baschi, senza che ci fosse reazione alcuna.
Sarebbe tempo piuttosto di
avviare un dibattito serio sulla natura della formazione economico-sociale
cubana. Il suo diritto a difendersi dalle aggressioni dell’imperialismo è
indiscutibile, bisogna però avere chiaro che cosa si sta difendendo e perché.
La rivoluzione cubana, nata come
rivoluzione borghese, si trasformò rapidamente in una rivoluzione socialista,
conducendo, nel giro di pochi anni, a una quasi completa nazionalizzazione dei
mezzi di produzione. La formazione statale che attuò questa trasformazione
nacque dall’istituzionalizzazione del ’Movimento 26 di Luglio e dalla
cooptazione di alcune altre forze politiche, tra cui il Psp filosovietico. Il
processo fu lungo e controverso: basti pensare che il primo congresso del
Partito comunista cubano si celebrò solo nel 1975, 16 anni dopo la presa del
potere. Lo scopo di sconfiggere la borghesia come classe venne raggiunto in
tempi abbastanza rapidi e senza un grande spargimento di sangue: la via
principale fu quella dell’emigrazione, prevalentemente verso Miami, dove
risiedono oggi circa uno milione di cubani. Le proprietà della borghesia cubana
e internazionale furono espropriate e date in gestione allo Stato o alle
cooperative. La situazione di emergenza, tipica dello scontro di classe
immediatamente successivo al trionfo di una rivoluzione, è tuttavia perdurata
nel corso degli anni a causa della costante minaccia statunitense, tradottasi in
un tentativo di invasione, innumerevoli attentati contro i leader della
rivoluzione, contro aerei di linea, contro il patrimonio, contro le
coltivazioni, e nelle sanzioni che perdurano tuttora. Tutto ciò ha spinto
sempre più solidamente Cuba nelle braccia dell’URSS, diventata nel corso
degli anni il partner economico e militare imprescindibile. Il rapporto tra
partito e Stato si è sempre più conformato al modello sovietico. Nel 1975,
inoltre, è stato adottato il sistema di pianificazione dell’URSS Krusceviana,
che dava largo spazio all’utilizzo delle categorie mercantili e degli
incentivi materiali.
La dittatura del proletariato
cubana, pertanto, non ha sviluppato strutture di potere consiliare (o sovietico,
dir si voglia), ma ha visto accrescersi sempre di più il ruolo e i privilegi
della burocrazia del partito e dello Stato. Le differenze quantitative e
qualitative con l’URSS ci sono sempre state, ed è anche per questo motivo che
la rivoluzione cubana ha mantenuto un livello di consenso interno e
internazionale molto superiore a quello degli altri paesi del COMECON. Le
disuguaglianze sociali a Cuba sono state sempre molto più contenute e così
pure l’ipertrofia degli apparati e il controllo poliziesco.
Il crollo dell’URSS ha imposto
dei tentativi di autoriforma, che si sono tradotti, in particolare,
nell’introduzione controllata di elementi di mercato e nell’apertura al
capitale straniero. C’è chi ha parlato di reintroduzione del capitalismo.
Per rispondere alla domanda:
‘’A Cuba è stato restaurato il capitalismo?’’ bisogna avere ben chiaro
che la restaurazione del capitalismo è un processo dialettico, e bisogna tenere
presente che le formazioni economico-sociali che definiamo ‘’stati operai
degenerati o deformati’’ sono formazioni nelle quali convivono, in
proporzioni distinte e in forma dialettica, diversi modi di produzione.
Conseguentemente la sopravvivenza di un settore di produzione mercantile,
governato dalle leggi del mercato, non significa, di per sé, che il carattere
prevalente sia quello capitalista.
Le caratteristiche più
importanti per stabilire, da un punto di vista marxista, il carattere di una
formazione economico-sociale, sono:
1) La proprietà dei mezzi di
produzione.
A Cuba ci sono diversi tipi di
proprietà:
- la proprietà dello Stato:
quasi tutte le imprese industriali, una parte delle aziende agricole, i terreni.
Le case possono essere di proprietà, non sono vendibili, ma solo permutabili;
- la proprietà cooperativa: le
Unità basiche di produzione cooperativa, grandi cooperative agro-zootecniche
che occupano il 57,6% dei suoli coltivati, hanno un vincolo che permette loro di
commercializzare le eccedenze rispetto alla produzione concordata con lo Stato
nei mercati a un prezzo di mercato; le Cooperative di produzione agricola
(piccole cooperative);
- la proprietà individuale di
piccoli mezzi di produzione (a livello individuale o familiare): si tratta dei
lavoratori per conto proprio (artigiani, trasportatori, ecc.);
- la proprietà privata delle
multinazionali che hanno investito a Cuba, la cui forma prevalente è la joint
venture con lo Stato cubano.
Cuba è uno dei paesi in cui più
in là si spinse la nazionalizzazione anche dei piccoli mezzi di produzione e
delle cosiddette professioni liberali. Nel 1970 i lavoratori in proprio erano
30.000, il 2,7% della forza lavoro. Nel 1987 questa percentuale si era ridotta
all’1,2%.
Questo portò numerosi problemi,
poiché in un contesto di scarso sviluppo delle forze produttive la
nazionalizzazione delle più piccole attività ottiene come risultato soltanto
quello di dare impulso al mercato nero. Si può comunque affermare che a Cuba di
fatto la piccola borghesia era scomparsa.
Negli anni 90 è stato
sviluppato un processo di riforme mercantili: sono stati riaperti i mercati
contadini e sono state legalizzate nuove professioni da esercitare privatamente.
I lavoratori in proprio con regolare patente sono arrivati a 205.500, ma quando
la legge è diventata più restrittiva, a partire dal 1996, il numero si è
ridotto e già nel 1997 i permessi erano diventati 170.000.
Nello stesso periodo è stato
dato impulso agli investimenti stranieri, con forti incentivi fiscali, ma
escludendo settori quali la difesa, la sanità e l’istruzione. Alla fine del
1999 erano stati firmati solo 370 accordi. La presenza del capitale straniero è
localizzata principalmente nel turismo, nei telefoni, nella produzione di
nickel, cemento, petrolio e saponi.
La maggioranza dei lavoratori in
proprio si dedica a piccole attività poco redditizie: produzione e vendita di
alimenti e bevande, vestiti, artigianato. Le attività più redditizie sono
l’affitto di stanze a turisti, i ristoranti (che non devono avere più di tre
tavoli), il trasporto di persone. I lavoratori in proprio non possono assumere
mano d’opera: il lavoro salariato continua a non essere permesso.
A Cuba si trovano tutt’al più
delle classi in embrione: se si esclude il settore dell’economia illegale,
piccoli contadini e lavoratori in proprio. Ci sono molti limiti al loro
sviluppo: imposte elevate, controlli, ecc., ma quello principale è
rappresentato dall’impossibilità della riproduzione allargata. Bisogna notare
che gli appartenenti a queste classi in formazione guadagnano meno dei
lavoratori del settore turistico (che possono ottenere molte mance) e delle
prostitute. Le classi in formazione non coincidono quindi coi settori più
privilegiati: probabilmente quel che si riscontra oggi è il brodo di coltura
che potrebbe dar vita a una nuova classe sociale. Per ora a Cuba non vi è
traccia di capitalisti cubani.
2) Il carattere del sistema
finanziario.
Il sistema finanziario cubano è
monopolio statale. Negli ultimi anni vi sono stati dei cambiamenti relazionati
alla riorganizzazione delle imprese statali e la costituzione delle UBPC. Le
imprese cubane dovranno essere in attivo, e ciò sarà misurato con categorie
monetarie. Lo Stato taglierà le sue sovvenzioni e le imprese godranno di un
elevato grado di autonomia. E’ ovvio che un’impresa in attivo, in un
contesto di efficienza finanziaria, potrà essere venduta con molti meno
problemi, ma finora questa efficienza, misurata con criteri capitalistici,
riguarda esclusivamente imprese di proprietà statale.
La riforma del sistema
finanziario ha comportato dei cambiamenti, per esempio nel dicembre 1999 il
Comitato esecutivo del Consiglio dei Ministri ha approvato l’uso, per quanto
riguarda le entità statali, delle cambiali e dei pagherò
3) Il controllo del commercio estero.
Lo Stato cubano non detiene più il monopolio del
commercio estero. Tuttavia le imprese che possono commerciare con l’estero
senza passare dal ministero sono imprese statali.
Cuba è scesa, nel corso degli
anni, a diversi compromessi con l’imperialismo, sia nella gestione
dell’economia, sia in questioni di politica internazionale. Le riforme
adottate, tra l’altro, non sono state accompagnate da un aumento dei diritti
democratici dei lavoratori, tra cui quello di sciopero, cosa che avvenne invece
nell’URSS della NEP. Tuttavia questo non significa che la burocrazia cubana
stia ricostruendo il capitalismo. Gli ostacoli a un processo di restaurazione
del tipo nicaraguense o russo non sono solo soggettivi, legati al ruolo di Fidel
Castro e di settori del partito decisamente più consistenti di quelli che si
opposero a Gorbaciov, ma anche e soprattutto oggettivi. La burocrazia cubana non
solo ha potuto vedere la sorte toccata al Nicaragua, ma vive nella
consapevolezza che una volta reintrodotto il capitalismo vi sarà il ritorno di
una buona parte dei fascisti di Miami. Centinaia di migliaia di reazionari,
desiderosi di riprendersi le proprietà espropriate e di consumare le proprie
vendette non permetteranno a una parte della burocrazia la pacifica
trasformazione in nuova classe capitalista come avvenuto in Russia, o in agiati
possidenti come in Nicaragua. Oggi Cuba, potendosi appoggiare ad alcuni settori
delle borghesie latinoamericane, è meno isolata che in passato, e dispone
quindi di margini di manovra anche nel caso in cui dovesse venire meno il suo
leader carismatico, col suo prestigio e il ruolo di mediazione tra i vari
settori del partito.
La difesa di Cuba, pertanto, è
la difesa di uno Stato operaio deformato, ma con le sue conquiste e col suo
valore simbolico (d’altronde la consegna sempre ripetuta negli ultimi anni è:
‘’Difendere la patria, la rivoluzione e le conquiste
del socialismo’’, e alla figura del Che è sempre più spesso affiancata
quella del nazionalista progressista Josè Martì). Gli interessi di Stato
collocano Cuba a fianco di alcune borghesie latinoamericane piuttosto che di
molti movimenti di lotta. Tuttavia Cuba in America Latina è tuttora il simbolo
della resistenza antimperialista e della possibilità del socialismo. Le scelte
dell’ultimo periodo si iscrivono in questo quadro e seguono la logica di dover
dare un segnale forte a chi, dall’interno o dall’esterno, volesse
organizzare provocazioni per giustificare un intervento statunitense. I metodi
utilizzati, per quanto estremi, in un continente dove la morte per malattie
curabili è all’ordine del giorno e dove si fanno ancora i conti dei desaparecidos, non intaccano certo la simpatia e il sostegno per
Cuba: prova ne è stata l’accoglienza trionfale per Castro in Argentina.
Il problema è piuttosto un altro, che cosa ne è dello
slogan: ‘’Al di fuori della rivoluzione nulla, all’interno della
rivoluzione tutto?’’. Ovverosia quale democrazia e quale dibattito è
concesso oggi, non ai ‘’dissidenti’’ prezzolati dagli USA, ma a chi
sostiene la rivoluzione cubana.