L’impero svanisce ancora…

Postfordismo e teoria dell’Impero di fronte a guerra e recessione

                       

di Marco Veruggio

 

L’articolo di Lidia Cirillo “Fuori e contro l’ordine imperiale”, pubblicato su Liberazione del 21 maggio scorso, a seguito di un ampio dibattito sul Manifesto, mi dà l’occasione per ritornare sulla questione impero/imperialismo, a più di un anno dalla conclusione del Congresso del PRC e poco dopo le guerre in Afghanistan e in Iraq (e quindi “in fase di bilanci”, come annota giustamente la Cirillo).

 

Non è la prima volta nella storia del movimento operaio che a una fase espansiva (o apparentemente tale) dell’economia si è accompagnata una revisione teorica del pensiero marxiano tesa ad “addomesticarlo” e a renderlo compatibile con l’idea di una via parlamentare al socialismo che releghi nel ruolo di vecchio soprammobile il concetto della rottura rivoluzionaria. E’ noto che la socialdemocrazia tedesca (e segnatamente Karl Kautsky), sull’onda di un forte sviluppo dell’economia capitalistica iniziato nell’ultimo scorcio dell’800, elaborò una teoria passata alla storia come superimperialismo (o ultraimperialismo), che preannuciava un lungo periodo di prosperità tale da consentire alle classi subalterne la possibilità di costruire il socialismo attraverso una redistribuzione legale della ricchezza. L’acuirsi dello scontro tra le potenze colonialiste alla ricerca di materie prime e di nuovi sbocchi commerciali, culminato nella Prima guerra mondiale, la Grande depressione del ’29 e l’affermazione del fascismo in Europa dimostrarono la fragilità di quella teoria.

 

Qualcosa di molto simile è accaduto nel decennio scorso. L’esplosione della cosiddetta new economy, seguita al tanto strombazzato “crollo del comunismo”, ci ha riportato alle orecchie promesse di pace e prosperità per tutti. La sinistra, affermatasi nei principali paesi industrializzati si è accodata alle promesse trionfalistiche del padronato e ha gestito in prima persona l’attacco al salario diretto, alla previdenza e allo stato sociale per tutto il corso degli anni ’90. L’estrema sinistra, pur criticando formalmente il “pensiero unico” neoliberista, ha dato vita a una partecipazione diretta a governi di centrosinistra, ingenerando illusioni rispetto a un possibile “compromesso riformatore” –per usare la formula di Bertinotti– rivelatosi in seguito come una copertura a sinistra per le politiche di aggressione ai danni dei lavoratori.

 

E’ proprio in quest’ambito che si sono sviluppate una serie di teorie, di origine post-operaista, che hanno rappresentato di fatto la giustificazione (“di sinistra”) del tentativo di liquidare un approccio marxista conseguente per dare vita a esperienze di vera e propria collaborazione di classe. Da una parte si è teorizzata la scomparsa del proletariato e l’avvento di una nuova classe di lavoratori immateriali, dotati di un elevato sapere tecnologico, alludendo a questo sapere come possibile antidoto ai meccanismi di alienazione, e si è indicata nella “disobbedienza civile” il moderno sostituto della lotta di classe. Dall’altra si è proclamata la fine degli Stati-nazione e l’affermazione di un nuovo assetto internazionale, dominato da organismi sovra-statali sotto l’egemonia degli Usa: l’Impero appunto. In questo modo si è cercato di archiviare la categoria di imperialismo, finendo tra l’altro per avallare la tesi dei governi di centrosinistra secondo cui le politiche di taglio alla spesa sociale non erano il prodotto di una loro scelta soggettiva, ma il risultato necessario della globalizzazione e delle impersonali leggi del mercato.

 

Qualcuno naturalmente obietterà che il paragone col superimperialismo è incongruo (e in effetti paragonare Negri a Kautsky fa torto ai meriti e alle qualità intellettuali di quest’ultimo) e che in generale non è possibile confrontare fenomeni sviluppatisi in condizioni politico economiche così diverse. A costoro mi limiterò a ricordare che è parte costitutiva della tradizione storiografica occidentale (e non solo) concepire la storia come un processo ciclico e quindi considerare la possibilità di studiare il passato per capire il presente. Cicerone (“la Storia maestra di vita”) e Giambattista Vico (“corsi e ricorsi storici”) rappresentano la scolastica esemplificazione di come questo atteggiamento non sia appannaggio esclusivo di una piccola cerchia di ammuffiti e scrofolosi intellettuali veteromarxisti.

 

Poiché ci collochiamo appunto sul versante dei bilanci è giusto riconoscere che le “moderne” teorie di cui sopra, nell’impietoso impatto cogli avvenimenti materiali che hanno segnato l’ultimo anno, si sono sgonfiate con la stessa velocità della “bolla” neweconomyca e di tutte le promesse che l’avevano accompagnata. Il boom di internet, della telefonia mobile, del Nasdaq non sono riusciti a nascondere (se non per qualche anno) la cruda realtà degli indicatori macroeconomici e cioè che la “vecchia” economia stava passando da una fase di stagnazione iniziata negli anni ’70 alla recessione vera e propria. Quando ciò si è verificato le borse e i colossi delle telecomunicazioni sono crollati, a dimostrazione che quell’economia –ancorché vecchia– costituisce ancora il centro motore del capitalismo.

 

La reazione della borghesia ha attinto da un repertorio che è tutto tranne che nuovo, inasprendo le misure antioperaie all’interno e rilanciando politiche di difesa degli interessi nazionali sostanziate in una serie di avventure espansionistiche per l’acquisizione di risorse e mercati esteri. La guerra contro l’Afghanistan e l’Iraq sono l’esito prevedibile di questa politica. Sotto la copertura ideologica della “lotta al terrorismo” Stati Uniti ed Europa hanno dato vita a una serie di operazioni politico-militari condotte dapprima sotto un velo di apparente concordia. Ma a poco a poco è apparso evidente che al di sotto di questo velo si celavano tensioni e antagonismi nazionali destinati a esplodere. La vicenda delle ispezioni Onu in Iraq, l’opposizione più o meno decisa da parte di potenze come Francia, Germania, Russia (e Cina) all’intervento americano, così come lo scontro sulle quote della ricostruzione del Paese costituiscono la verifica empirica di quanto sia riduttivo leggere tutti gli avvenimenti come il prodotto semplice e chimicamente puro del cosiddetto unilateralismo del governo Bush. E’ chiaro che l’unilateralismo è la reazione americana a un’evoluzione dei rapporti materiali in cui l’Europa è, con evidenza crescente, un potenziale e pericoloso antagonista all’egemonia degli Stati Uniti. All’imperialismo americano si contrappone un imperialismo europeo, cero non ancora maturo, ma in grado di sfidarlo, sia pure – per ora – soltanto sul piano diplomatico.

 

Tutto ciò non era imprevedibile, a condizione di sottoporsi alla fatica di un’analisi scientifica dello sviluppo economico globale, meno appagante forse delle immaginose ed evocative teorizzazioni postmoderne, ma alla lunga certamente più utile. Qualche anno fa la rivista Limes dedicava un numero agli assetti politici post ’89 introdotto da un articolo dal titolo eloquente: “A cosa ci serve la Nato?”. Dopo il crollo del Muro –si argomentava– l’alleanza atlantica è destinata a perdere il suo ruolo di baluardo contro i paesi dell’Est e dovrà essere ristrutturata rendendo la partecipazione degli Stati aderenti funzionale ai loro interessi nazionali. Nel nostro caso ciò significherà, ad esempio, assicurare un supporto alla penetrazione delle aziende italiane verso est e richiederà di dotarsi di un’adeguata struttura militare che preveda innanzitutto la creazione di forze di pronto intervento in grado di spostarsi velocemente di migliaia di chilometri per assicurare una risposta militare qualora tali interessi fossero messi in pericolo. Qualche anno dopo, già in piena campagna antiterrorismo, il quotidiano Il Riformista (com’è noto testata di riferimento dell’area dalemiana) pubblicava un articolo intitolato “Ora serve un “imperialismo” europeo”, in cui la stessa tesi veniva sviluppata e popolarizzata, questa volta non da un tecnico, ma da un delegato Fiom della Nuovo Pignone.

 

Ovviamente il processo di costituzione di un blocco imperialistico non è esente da contraddizioni, ma sarebbe semplicistico interpretarle come alibi per negare la realtà di quel processo. Non è un caso che, dopo l’esplodere della contestazione “pacifista” di Schroeder e Chirac nei confronti di Bush e dei suoi alleati europei, nelle settimane successive alla fine delle operazioni militari in Iraq, da entrambe le parti siano stati lanciati segnali di distensione e si sia rimesso mano al tentativo di arrivare a una posizione comune “europea”. Anzi proprio l’incapacità di esprimere un atteggiamento unitario durante la crisi è stata stigmatizzata da tutti e ha rappresentato uno stimolo ulteriore al rilancio del processo costituente e alla definizione di un assetto istituzionale comunitario, in cui la politica estera e in particolare la difesa comune rappresentano uno dei pilastri (anche in quest’ottica va interpretata tutta la polemica sulle procedure decisionali: diritto di veto, maggioranza doppia, ecc.)

 

In ogni caso, se guardiamo ai fatti, i soggetti che denotano maggiori sintomi di crisi sono i presunti dominatori della globalizzazione, gli organismi sovrannazionali: Nato e Onu sono state messe in scacco e proprio dalle ambizioni particolaristiche delle grandi potenze industriali. Non a caso anche un economista moderato come Paolo Sylos Labini parlava di “espansione imperialistica americana” su Repubblica del 25 maggio scorso.

 

Un altro aspetto in cui la teoria dell’Impero ha mostrato tutti i suoi limiti è quello della politica economica. La crisi sovrapproduttiva internazionale ha infatti provato ancora una volta che gli Stati, “impossibilitati” a intervenire nell’economia quando si tratta di difendere salari e pensioni, tornano di buon grado protagonisti quando si tratta di preservare rendite e profitti. La guerra dei dazi tra Stati Uniti ed Europa (a dispetto del WTO) e, dopo l’11 settembre il cosiddetto keynesismo di guerra espresso dall’amministrazione Bush, così come la messa in discussione del Patto di stabilità in Europa sono un esempio lampante ma non unico. Nel Giappone ancora in ginocchio dopo la crisi del ‘97 si sta pensando di creare un organismo analogo al nostro vecchio Iri. Gli stessi provvedimenti di rottamazione inventati da Prodi a beneficio della Fiat e riproposti oggi da Berlusconi per vendere televisori e lavatrici, così come il rilancio delle opere pubbliche da parte del ministro del cemento Lunardi dimostrano che non c’è niente di nuovo sotto il sole. E del resto la “crisi della globalizzazione” non ha avuto come primo atto quel vertice Wto di Seattle dove a naufragare contro la reazione dei governi (oltre che contro le proteste di massa) fu proprio quell’Accordo Multilaterale sugli Investimenti, che, se approvato, avrebbe messo in discussione la sovranità nazionale dei paesi fatti oggetto di investimenti esteri? Il cosiddetto “movimento dei movimenti” nasce quindi in concomitanza con un rifiorire delle ambizioni nazionali e non con un loro indebolimento.

 

La maggioranza del Prc, nella sua affannosa e zigzagante rincorsa ai movimenti ha assunto molti elementi, pur con alcuni distinguo e correzioni in itinere, dalle teorie del Postfordismo e dell’Impero (fatta eccezione per coloro che dimostrano il loro attaccamento al leninismo raffigurando la Cina come un baluardo contro l’imperialismo americano e l’ingresso di questo Paese nel Wto come un errore da addebitarsi ai soliti “compagni che sbagliano”). Tuttavia gli avvenimenti dell’ultimo anno hanno indotto alcuni, soprattutto gli interpreti di sinistra del bertinottismo, a riflettere sulla necessità di riformulare una teoria assunta, già a suo tempo, con qualche distinguo (anche se accettata poi nella sostanza). L’articolo di Lidia Cirillo citato all’inizio rappresenta un tentativo abbastanza raffinato di correre ai ripari correggendo un po’ la rotta. L’autrice apre dichiarando di collocarsi “sul versante opposto” rispetto ai sostenitori della teoria dell’Impero (salvo poi riproporne le tesi, sia pure con la dovuta cautela). Ciò che afferma non è che “non vi saranno più conflitti tra Stati o che su essi non si possa far leva o ed entro certi limiti sperare”. Piuttosto dà a intendere –con l’accortezza di non dirlo mai in modo troppo esplicito– che il nostro obiettivo non è più la conquista del potere statuale, bensì “un ciclo di lotte che investa dal basso i meccanismi di funzionamento del sistema economico e dei rapporti sociali”, espressione che in sé e per sé significa tutto o niente, ma che è ben assonante ai linguaggi evocativi e democraticheggianti tanto cari ai movimenti.

 

La giustificazione teorica di tutto ciò comincia col segnalare una “svista” di Marx. L’autore del Capitale, nei suoi ragionamenti, “che si collocano al livello dell’astrazione teorica”, avrebbe considerato solo i meccanismi economici, tralasciando quelle variabili sociali, politiche, culturali, militari, di genere, che agiscono sulle dinamiche economiche, “le interrompono, le spezzano, per lunghi periodi le rovesciano” (e così, quatti quatti, si liquida, senza argomentare, pure il materialismo storico). Il ‘900 avrebbe visto queste variabili esprimersi nella storia sostanziandosi negli Stati, prima la Russia bolscevica, poi gli Stati nati dalle lotte di liberazione nazionale e questo schema sarebbe stato poi assunto nel linguaggio e nella cultura della sinistra radicale negli anni ‘60/’70. Ma quell’ “orizzonte politico, culturale, simbolico –ammonisce la Cirillo senza dimostrarlo– non c’è più”. E con questa certezza apodittica e pesante quanto una lastra tombale la questione è chiusa.

 

La conclusione marxistically correct è che tutto ci riconduce a Marx (bacchettato affettuosamente poco prima e poi ripescato in extremis) e alla sinistra del movimento operaio ai primi del ‘900, cioè appunto –secondo l’autrice– al “ciclo di lotte che investa dal basso, ecc., ecc.” e alla necessità di “trasformazioni radicali prima di tutto nei paesi imperialisti, nel cuore della Metropoli, al Centro o come ciascuna-o preferisce dire” (viva la democrazia!). In questo tripudio di movimentismo e di lotte dal basso, ma in piena rotta di avvicinamento a un pieno accordo politico e programmatico col centrosinistra (come rivendicato da Fausto Bertinotti sulla stampa nazionale) ci viene naturale rivolgere una semplice domanda ai compagni della maggioranza. Se gli Stati rappresentano ormai delle carcasse obsolescenti alla periferia del sistema, se un futuro radioso passa attraverso il multiforme e policromatico ribollire dei movimenti, come mai tanta accorata pervicacia nel perseguire l’accesso alle istituzioni e agli esecutivi che governano lo Stato (italiano) e le sue articolazioni locali?