Ad un anno dal V congresso del Prc

 

di Ruggero Mantovani

 

Un primo bilancio di verità, dopo un anno dal V congresso, rappresenta un esercizio politico assolutamente elementare per verificare la linea politica del Prc nel vivo della lotta di classe e degli avvenimenti nazionali ed internazionali. Un bilancio costantemente evitato dal gruppo dirigente maggioritario, nella consapevolezza di rimuovere contraddizioni ed errori che, tanto più oggi, rischiano di iscrivere pericolose ipoteche sulla stessa esistenza della rifondazione comunista.

 

Una necessità politica che però vive nella coscienza di tanti militanti che al V congresso ritennero che l’uscita dal governo Prodi nel 1998 e la ricollocazione all’opposizione avesse costituito “un atto rifondativo” e che occorreva costruire un programma fondamentale della “sinistra d’alternativa”. Una proposta politica che, se da un lato ha tradotto obbiettivamente un diffuso sentimento di autonomia di classe maturato nella base militante del partito, dall’altro è stata utilizzata dal gruppo dirigente maggioritario come abbellimento (scomodando persino Engels nel definirla una “bandiera piantata nella testa della gente”), per costruire la “sinistra plurale” (tesi 37), smentita, tra l’altro, di lì a poco dalla capitolazione di Jospin in Francia.

Una linea politica che fin dall’ora si proponeva di costruire un’alternativa di governo con le forze della sinistra moderata e riformista, precostituendo un terreno per il riavvio di un processo negoziale che, malgrado giudicato “difficile e faticoso”, era posto come prioritario. La costruzione di un governo di “sinistra plurale” fu ritenuta un elemento di discontinuità e di effettiva novità da gran parte del corpo del partito, perché, seppur in forme contraddittorie, poneva la rottura con il centro liberale.

Tutta l’articolazione della proposta politica era motivata da un giudizio negativo sulle forze dell’Ulivo. La tesi 30 del documento di maggioranza sentenziava “il fallimento strategico del centrosinistra e dei Ds”: un giudizio lapidario e senza appello, esteso al “centrosinistra mondiale da Clinton a Blair”. In Italia, si asseriva: "questo fallimento ha assunto la fisionomia di scelte economiche, sociali e istituzionali distinguibili da quelle del centrodestra solo dal punto di vista quantitativo: in particolare ha prevalso la logica delle privatizzazioni, delle liberalizzazioni, del progressivo deperimento del ruolo redistributivo dello stato, della subalternità ai grandi potentati economici. (...) I gruppi dirigenti della sinistra moderata appaiono non solo incapaci di uscire dalla gabbia dell’alleanze di centrosinistra, ma soprattutto prigionieri di una continua rincorsa verso il centro e verso una ricollocazione neocentrista dell’Ulivo". E così una piattaforma d’opposizione al governo delle destre richiede “il rovesciamento” della logica del centrosinistra e delle sinistra moderata.

Ma la realtà di lì a poco smentiva l’apparente austerità della linea politica del Prc: nei primi mesi del 2002 irresponsabilmente si banalizzavano gli scioperi della Cgil qualificandoli “sciopericchi” in nome dell’autosufficienza del “movimento dei movimenti”, per poi, sull’onda delle mobilitazione di massa, promuovere Cofferati “l’uomo della possibile vittoria”, malgrado nell’estate dello stesso anno quest’ultimo spiegava di volersi candidare alla guida di un “Grande Ulivo”, confessando platealmente di voler gestire le politiche borghesi dopo la legislatura Berlusconi. Ma ancora, nell’ottobre del 2002 un nuovo correttivo della linea politica uscita dal V congresso: in un’intervista giornalistica Bertinotti affermava che la sinistra d’alternativa doveva raccordarsi con la sinistra moderata per trovare elementi di convergenza con il centro liberale della Margherita e quindi negoziare un prossimo governo con chi, rimanendo nell’economia dei testi congressuali, fino a qualche mese prima si distingueva dal centrodestra in materia di scelte economiche e sociali solo dal punto di vista quantitativo, poiché irrimediabilmente subalterno ai poteri forti.

Lo sgonfiarsi in itinere del mito di Cofferati, che da possibile leader del centrosinistra è divenuto in queste settimane il candidato per le prossime elezioni a sindaco di Bologna (tra l’altro in concorrenza a Vittorio Prodi sponsorizzato dalla Margherita), ha indotto il gruppo dirigente maggioritario del Prc ad operare un potente affondo negoziale con l’Ulivo: nel marzo del 2003 si sono costituite le commissioni programmatiche paritetiche con Treu, Mastella, Pecoraro Scanio rispettivamente su Lavoro, Mezzogiorno e Ambiente. Un terreno materiale preziosissimo il cui effetto naturale è stato l’accordo per le amministrative di maggio 2003 e che costituisce fin d’oggi un trampolino di lancio per siglare l’intesa per un vero accordo politico e di governo tra Ulivo e Rifondazione.

Una prospettiva che smentisce le aspettative di migliaia di militanti che al V congresso hanno creduto ad una reale svolta a sinistra di Rifondazione Comunista. Un cambiamento di linea, in verità solo apparente, poiché assolutamente coerente con un lungo corso politico ampiamente sperimentato.

Dal semi blocco nel 1993 con la rete d’Orlando, al Polo Progressista del 1994, con cui Rifondazione era pronta ad entrare con propri ministri in un governo borghese. Dall’entrata in sette giunte regionali nel 1995, all’accordo con il governo Prodi, in cui il programma dei 100 giorni divenne di 700 coinvolgendo pesantemente il Prc in politiche antipopolari. Dai quattordici accordi per le regionali del 2000, che costituirono il terreno preparatorio per il rilancio di un nuovo compromesso per le politiche del 2001, inibito poi dalla dinamica distruttiva maturata nel centrosinistra, a cui erano regalati 46 seggi in nome della non belligeranza, all’accordo per le amministrative del 2003 stringendo persino accordi con l’imprenditore Illy favorevole alla guerra in Irak.

Una traiettoria che traduce l’attuale “svolta politica” del Prc e rende comprensibile il riproporsi, seppur in forme apparentemente nuove, della vecchia cultura del manovrismo riformista, estraneo, oggi come in passato, alle necessità più elementari di classe e all’autonomia dei comunisti.

Non è un caso che Bertinotti, nel commentare il risultato elettorale delle amministrative del 2003 (Messaggero del 17.05.2003), affermava “di non essere contento del risultato negativo della Margherita”, ritenendo la sua presenza “fondamentale nella coalizione”, arrivando persino ad accusare il movimento pacifista di aver “sbagliato” nel criticare Gasbarra (il candidato per le provinciale di Roma), giacché il suo pacifismo era definito “sincero e reale”.

La finzione diviene realtà, e una linea politica d’alternativa al centrosinistra, decantata al V congresso come musa incantatrice, strada facendo ha gettato la maschera e oggi mostra la sua reale fisionomia: costruire il compromesso politico e di governo con l’Ulivo per il 2006, sottacendo sapientemente che la Margherita e la maggioranza Ds sono allineati con Berlusconi contro l’estensione dell’articolo 18, per l’invio delle truppe italiane in Irak (come precedentemente in Afghanistan e nel Kossovo) e si riservano di aprire alla maggioranza di centrodestra sullo stesso Lodo Maccanico (vedi l’uscita dall’aula del senato al momento della votazione di settori significativi del centrosinistra).

La parabola negoziale del gruppo dirigente del Prc è divenuta irrefrenabile: così mentre il segretario dei Ds Fassino al congresso dei giovani imprenditori tenutosi a Riva del Garda, in piena sintonia con D’Amato, presidente di Confindustria, giudica il referendum sull’estensione dell’art. 18 “dannoso ed inutile” chiedendo esplicitamente “di non partecipare al voto”, Bertinotti invece di sollevare una campagna di scandalo sul tradimento ordito dagli apparati del principale partito della sinistra, costruendo nel suo blocco sociale una vasta mobilitazione, chiede al centrosinistra, in nome del risultato delle amministrative e dell’unità delle forze di opposizione, di indicare ai propri elettori la libertà di coscienza o in alternativa un “Sì tecnico”, evocando in penombra lo scambio consumato con la non belligeranza alle politiche del 2001.

Di più, mentre il governo Berlusconi sferza un attacco ai lavoratori con la riforma sul mondo del lavoro e l’ex ministro Treu, in nome dell’Ulivo, asserisce che rispetto alla riforma varata dal centrosinistra ("pacchetto Treu") non cambia nulla, si tengono in vita le commissioni paritetiche per il programma tra l’Ulivo e Prc, in cui Treu è uno dei “saggi” della commissione sul lavoro.

 

Un bilancio di verità che non smentisce solo la linea politica proposta al V congresso dal gruppo dirigente maggioritario del Prc, ma che fa emergere un quadro mondiale che mina profondamente le stesse categorie analitiche con cui si decretava la fine dell’imperialismo.

Veniva assunta la mitologia della globalizzazione, contrapponendo un “nuovo capitalismo”, il cui esito sarebbe stato quello di “aumentare enormemente le disuguaglianze, le ingiustizie e le differenze sociali tra paesi poveri e paesi ricchi”, ad un capitalismo buono che in passato “sì lasciava umanizzare, riformare e temperare”.

In questo nuovo ordine mondiale, veniva detto al V congresso con la tesi 10: "Si svuota la tradizionale funzione di mediazione dello stato” – poiché – “la leva del comando dell’economia risiederebbe nei grandi organismi costruiti su basi a-democratiche a livello internazionale, come il fondo monetario internazionale (FMI), l’organizzazione mondiale del commercio (OMC), la banca mondiale (BM) e l’organizzazione per lo sviluppo e la cooperazione economica (OCSE).”

Da ciò se ne deduceva l’inadeguatezza della nozione classica dell’imperialismo, asserendo che sarebbe stato forviante “catalogare i contrasti e i conflitti internazionali tra stati come effetti delle contraddizioni interimperialistiche” (tesi 14), pronosticando, nell’azzardo, come dimostra l’attualità, l’improponibilità di guerre imperialiste e l’utilizzo dello scontro armato tra stati per il controllo dei territori e delle risorse di mercato. 

Ma i fatti hanno la testa dura!

All’opposto la guerra in Irak, e prima ancora in Afganistan e in Kossovo, hanno smentito clamorosamente l’ideologia bertinottiana di un impero indistinto e globalizzato, riproponendo nella sua attualità il ruolo ineliminabile dello stato nazionale quale gendarme del capitale.

Tanto più oggi, la globalizzazione non è rappresentabile come quadro dell’economia mondiale, ma l’effetto naturale della restaurazione capitalistica dopo la caduta del muro di Berlino, mettendo il luce i giganteschi processi di restaurazione imperialistica nell’est europeo e in forma incompiuta in Cina, che, congiunti ai nuovi rapporti di forza nei paesi dipendenti, hanno alimentato una competizione tra stati e blocchi, privando d’ogni base reale sia la mitologia bertinottiana dell’impero, che le fantasie del campismo neo-togliattiano.

Si ripropone nel quadro mondiale la politica di terrore e barbarie dell’imperialismo, che pur mutando le sue forme non cambia la sostanza: ingenti concentrazioni monopolistiche; speculazioni finanziarie; riavvio delle politiche neo-coloniali e della guerra imperialista per il saccheggio dei paesi dipendenti.

E proprio la guerra, al di là d’ogni sua rappresentazione meta storica, mostra il carattere imperialista dell’UE, che lungi dall’essere una semplice area di dipendenza del capitalismo nord americano, a-democratica e liberista, cui contrapporre una nuova Europa sociale, come veniva asserito al V congresso dal gruppo dirigente maggioritario del Prc, si candida ad essere un polo concorrente agli USA che rivendica la spartizione del bottino dopo la guerra in Irak, ed invoca la costruzione di un esercito europeo quale strumento fondamentale per competere nella divisione delle nuove colonie del mondo.

 

Ad un anno dal V congresso rimane assolutamente centrale il giudizio positivo sulla nascita del movimento antiglobal e la sua capacità di contagio che ha esercitato nella società civile, sia nazionale sia internazionale. Un vento nuovo che ha rappresentato l’effetto naturale della crisi di egemonia politica dell’imperialismo e al contempo ha segnato un terreno sociale in cui sono maturate le più imponenti manifestazioni operaie e pacifiste dal dopo guerra ad oggi.

Tuttavia il V congresso veniva celebrato dal gruppo dirigente maggioritario del Prc, tessendo le lodi della spontaneità del movimento e dell’autosufficienza del “movimento dei movimenti”.

Nel nome dell’ebbrezza movimentista il Prc ha ritenuto di esaltare e di subordinarsi ad iniziative simboliche, assumendo ricette utopistiche e minimali, il tutto condito con l’abbellimento estetico della disobbedienza.

Il rifiuto di costruire all’interno dei movimenti una direzione di marcia e di conquistarne un’egemonia alternativa, ha finito per depotenziare l’enorme sensibilità antiliberista che il movimento ha impresso in ampi settori di massa. L’esaltazione di “culture critiche” del capitalismo sono servite al gruppo dirigente del Prc per riattivare il codice teorico del riformismo e della collaborazione di classe, tradotto egregiamente nel neokeynesismo (razionalizzazione delle speculazioni finanziarie), nel democraticismo (riforma del WTO, della Banca mondiale e dell’ONU) e nel neo proudhonismo (cooperativistico del terzo settore).

La rinuncia a combattere le impostazioni neo riformiste e piccolo borghesi, se da un lato ha minato profondamente l’anticapitalismo latente nel movimento, dall’altro ha rappresentato il fattore principale di un obiettivo ristagno del movimento e della sua capacità propulsiva: la prima vittima del movimentismo è stato il movimento stesso.

Una linea politica, d’altronde coerente con l’asse strategico di fondo del Prc, con la sua ricerca, dimostrata tanto più oggi dalla realtà, di portare in dote la forza ricavata dal movimento sull’altare del compromesso governista con l’Ulivo e che oggi in assenza di una piattaforma generale unificante di tutte le domande delle classi subalterne, rischia di vanificare la stessa campagna referendaria sull’art. 18 vissuta anch’essa come leva di contrattazione.   

 

Dopo un anno dal V congresso se tutte le questione di fondo: prospettiva politica, natura delle categorie analitiche sui conflitti e sulle politiche capitalistiche, rapporti con il movimento, tenevano sottotraccia la ricomposizione negoziale con l’Ulivo, oggi quest’accelerazione è un fatto oggettivo, centrale persino nel dibattito e nello scenario politico.

Ma la prospettiva di un accordo politico con l’Ulivo tale da indurre il Prc ad entrare in un governo di centrosinistra con propri ministri, costituisce obiettivamente un tradimento delle aspirazioni dell’autonomia di classe che migliaia di militanti, in buona fede, ricercavano nella costruzione di una sinistra di alternativa. Questa prospettiva costituisce fin d’ora la distruzione politica del Prc, la rimozione del suo atto fondativo quale partito autonomo e di classe, e delle stesse aspettative di tanti lavoratori di far rinascere una nuova rappresentanza politica e sociale del movimento operaio.

Il partito comunista è e deve costruirsi come parte più avanzata della classe e, in nome di questa, la rifondazione comunista deve essere salvata dallo sciagurato manovrismo del suo gruppo dirigente: deve essere salvato dai suoi militanti con un congresso straordinario per dire no alla liquidazione della rifondazione comunista e alla morte del movimento, l’unico che potrebbe mandare a casa Berlusconi e porre le basi per la costruzione di un governo dei lavoratori.