Il
capitalismo e i suoi rifiuti
di
F. Nigro, G. Di Leo, V. Giunta, M. Paparatti (*)
Il
piano siciliano di smaltimento dei Rsu e speciali redatto dall’Ufficio del
Commissario regionale per l’emergenza dei rifiuti e la tutela delle acque è
uno strumento di gestione integrata che dovrebbe recepire le direttive contenute
nel D. L.vo 22/97 (Decreto Ronchi).
Il
Decreto Ronchi individua alcune priorità nell’ambito del percorso che occorre
intraprendere per un’adeguata politica di smaltimento dei rifiuti.
intervenire
nel processo produttivo per ridurre “a monte” la quantità di merci (ad
esempio gli imballaggi), destinate a divenire sempre più rapidamente ed
abbondantemente dei rifiuti;
favorire quanto più possibile il riuso ed il riciclaggio delle merci/materie prime con il processo di differenziazione dei rifiuti;
termovalorizzare (incenerimento con produzione di energia) la frazione di rifiuti che non può essere riciclata;
porre a dimora in discariche controllate la frazione che a sua volta non può essere termovalorizzata e/o i residui di quel processo di trattamento.
Questa
scala di priorità, oltreché individuare un percorso di trasformazione
culturale complesso (rivalutazione del rapporto tra uomo e beni di consumo),
definisce le quantità di rifiuti prodotti che devono essere introdotti in
questo circuito. Naturalmente non viene definita la soglia massima (che
qualunque soggetto di buon livello ecoculturale si augura essere la percentuale
unitaria di materie riciclabili, prodotte in misura ridotta, a dimensione
ecocompatibile), ma quella minima, che a partire dall’entrata in vigore del
decreto prevede, entro alcuni anni dalla messa a regime dei sistemi integrati di
gestione dei rifiuti nelle varie regioni italiane, deve raggiungere una frazione
del 35% dell’intero volume prodotto.
Il
primo punto, quello prioritario,
cardine aspettativo intrinseco per la filosofia del decreto, è molto complesso
nella sua definizione esaustiva e nelle pratiche di sviluppo, in quanto vorrebbe
entrare direttamente entro il processo produttivo, con evidenti implicazioni
economiche per quel che riguarda l’attuale status capitalistico e la sua prospettiva futura di integrità
strutturale entro l’attuale dimensione.
Il
Decreto Ronchi vorrebbe entrare anche nel merito di una variazione radicale
della cultura popolare nei riguardi dell’antropocentrismo spinto, del circuito
capitalistico che conduce a considerare le risorse naturali e l’ambiente come
una diseconomia esterna piuttosto che come un patrimonio indispensabile per la
sopravvivenza stessa dell’uomo e della sua organizzazione sociale. Eppure, in
merito alla priorità di una riduzione dei futuri rifiuti (le merci), il Decreto
Ronchi non prevede molte soluzioni efficaci; di queste, alcune sono introdotte
con strumenti legislativi, altre contemplate come soluzioni integrative
traguardabili attraverso varie pratiche metodologiche, ma riguardano tutte i
contenitori dei prodotti, in quanto ingombranti e spesso inutili, non
i soggetti stessi.
Riguardo
al secondo livello di priorità (riciclaggio), vi è anche qui da affrontare una
tematica molto complessa, che spazia dall’educazione del cittadino nei
confronti delle metodologie di differenziazione dei rifiuti domestici,
all’individuazione dei centri di raccolta opportunamente dislocati sul
territorio, dei centri di rigenerazione delle materie prime, della loro purezza
merceologica finale, delle caratteristiche costruttive e tecnologiche degli
impianti di trattamento, ecc.
Il
terzo ed il quarto punto del Decreto Ronchi risultano decisamente minoritari
come priorità, nel senso che, l’esercizio a regime dei primi due “piani
politici” di intervento ridurrebbe automaticamente e drasticamente la quantità
di rifiuti da smaltire con le tecniche di incenerimento e di messa a dimora in
discarica. Entrambi i punti sono quindi marginalizzabili in dipendenza di un
controllo adeguato sui primi due processi di gestione.
Il
piano di gestione dei rifiuti siciliano non rispetta, nella sua costituzione, le
priorità del Decreto Ronchi. Dalla lettura dei suoi contenuti si evince difatti
che la percentuale del 35% di materiali da riciclare è da considerare
utopistica. Inoltre, la politica programmatica del governo regionale si dirige
-in sintesi- verso le tecniche di termovalorizzazione piuttosto che verso quelle
del riciclo, invertendo di fatto gli ordini di priorità contenuti nella
normativa nazionale. Anzi, il riciclo viene pressoché scartato come ipotesi
risolutiva -anche parziale- e la differenziazione dei rifiuti relegata in una
dimensione di marginalità che non ha eguali in tutta Italia.
In
particolare, il numero ed il dimensionamento degli impianti di
termovalorizzazione siciliani lascia intendere una loro vita media almeno doppia
rispetto a quella ufficialmente dichiarata (20 anni). Viene così paventato un
lungo periodo di esercizio monopolistico, di grandi affari economici “per
pochi”, collegati con questa tipologia di industria dei rifiuti. E’
plausibile ipotizzare persino un mercato extraregionale collegato con
l’incenerimento dei rifiuti, che così produrrebbe un notevole inquinamento
atmosferico collegato con l’immissione di un ingente quantità di diossine e
furani.
L’attuale
dimensionamento ottimale degli impianti di trattamento dei rifiuti (in Sicilia
sono previsti in pratica solo gli impianti di compostaggio, cioè di
trasformazione della frazione organica di produzione domestica) segue la logica
del profitto mimetizzato dal pretesto dell’autosostentamento. Le dimensioni di
questi impianti sono state adeguate ai relativi bacini di utenza (A.T.O. ovvero
ambito territoriale ottimale) che, per semplici coincidenze, si identificano con
unità d’ambito elettorale. Questo
è il primo approccio errato al problema della gestione dei rifiuti: occorre
rideterminare i bacini di utenza, ridimensionandoli entro caratteristiche
territoriali uniformi e gestibili con impianti di trattamento a minore impatto
ambientale.
Questa
soluzione, ad esempio, implica anche l’adozione di una politica del lavoro
finalizzata soprattutto soprattutto all’assorbimento degli L.S.U. (almeno una
parte), che in ambiti territoriali più ristretti, potrebbero operare garantendo
una sufficiente affidabilità ed efficienza per quel che riguarda il servizio di
raccolta dei rifiuti, soprattutto nelle propaggini periferiche dell’ambito
territoriale.
Si
dovrebbe poi favorire, semplicemente così come prevede il Decreto Ronchi, la
realizzazione di centri di riciclaggio, magari monomateriale, sempre a gestione
sociale, con dislocazione territoriale opportuna in relazione sia alla
ricettività ambientale che alla presenza di poli industriali o produttivi
capaci di assorbire le materie prime rigenerate.
Una
più modesta dimensione degli impianti di trattamento dei rifiuti inoltre
costituirebbe uno strumento di contrasto nei confronti della soglia di
attenzione dell’ecomafia.
Riguardo
alla localizzazione dei centri di trasferenza, riciclaggio, compostaggio,
termovalorizzazione, dei rifiuti, ad oggi individuabili necessariamente in aree
industriali, è un criterio che andrebbe rivisto, soprattutto nel quadro delle
rinnovate dimensioni (contenute) degli impianti, anteponendo alla scelta sulla
loro ubicazione degli studi territoriali adeguati, che analizzino vasti settori
territoriali e che mettano in risalto i paraggi ambientalmente idonei ad
ospitare i centri di trattamento; in pratica dei “piani regolatori”
d’ambito specifici al tematismo rifiuti.
Andrebbe
poi, di conseguenza, resa idonea l’impalcatura infrastrutturale collegata con
il riciclo dei rifiuti (rete viaria, ecc.), ma soprattutto favorite -a priori-
le condizioni per avviare un reale “mercato del riciclo”, che qui in Sicilia
è di fatto inesistente.
Si
ribadisce infine che, è completamente assente l’azione di educazione al riciclo e al riuso verso i cittadini che dovrebbe
promuovere l’esecutivo regionale, anche attraverso incentivi alle
amministrazioni locali (obiettivi contemplati ma non attuati). Ma tant’è che
la quasi totalità della cittadinanza in Sicilia non ha neppure percezione dei
livelli drammatici cui si è giunti nell’ambito del degrado ambientale legati
ai processi di eccessivo sfruttamento delle risorse e degli impatti inquinanti
risultanti dai processi di trasformazione in merci: connotati che assumono ormai
un carattere di pressoché totale irreversibilità.
Ad
esempio, partendo da un’adeguata differenziazione, favorita da sistemi
efficaci di raccolta, può essere proposta:
una divisione in siti di stoccaggio e di trasformazione di dimensioni ridotte a tal punto da divenire antieconomiche per gli interessi mafiosi;
la vicinanza dei siti alle industrie già esistenti in grado di riciclare le materie prime;
una posizione dei siti, con una loro interdistanza adeguata, tale che renda possibile una frammentazione della sinergia delle associazioni mafiose e quindi un controllo più efficace della loro pressione;
una loro ragionata posizione rispetto ai percorsi o ai centri turistici;
la riconversione di aree industriali dismesse, da individuare, per utilizzarle come centri di trasformazione;
la
ristrutturazione delle norme di procedura per l'assegnazione degli appalti
di gestione dei centri di trasformazione.
Certo,
il dimensionamento degli impianti di trasformazione deve avere una soglia
minima, per garantire la prospettiva occupazionale e l’economicità della
struttura (autosostentamento e produzione di reddito), rendendola fattibile per
le singole province o per frazioni di esse, ma deve avere anche una soglia
massima che li renda antieconomici per gli interessi mafiosi, al di sotto della
soglia di attivazione dei processi di intimidazione ed infiltrazione criminale.
In
questa prospettiva vi è da trasformare radicalmente l'impianto politico e
infrastrutturale attuale legato al tema dei rifiuti in Sicilia, e prioritario
tra i problemi da risolvere sarebbe quello della gestione degli appalti legati
sia alla raccolta che alla trasformazione e vendita delle materie prime
riciclate.
La
normativa europea impone l’espletamento di gare d’appalto per aggiudicare il
servizio di raccolta dei rifiuti solidi urbani che superi importi di entità
economicamente rilevante, quindi, onde evitare che le procedure di appalto siano
inquinate dalla presenza mafiosa, bisogna individuare soluzioni procedurali che
possano contrastare e controllare l'interesse delle associazioni criminali e la
loro infiltrazione nel tessuto sociale integro e nella fattispecie nel processo
economico legato alla gestione dei siti di trattamento (ad esempio la presenza
di una stazione unica appaltante, peraltro già prevista per legge).
L'aspetto
poi della riconversione di aree industriali dismesse riduce il problema legato
al potenziamento della rete viaria, che di norma serve adeguatamente i siti
industriali e che dovrebbe quasi certamente essere ristrutturata a quella
esistente se la scelta dei siti dovesse ricadere in ambiti territoriali non
industrializzati, con aggravi di spesa per gli enti locali. Le ex aree
industriali sono già dotate di una strutturazione adeguata per la produzione,
con spazi attrezzati o da attrezzare se non già esistenti. Non si dovrebbero
realizzare, come prassi, strutture nuove per il trattamento dei rifiuti e ciò
avrebbe implicazioni relative sia al dispendio di risorse finanziarie che sui
riverberi ambientali derivanti dall'antropizzazione di ulteriori settori di
territorio.
La
trasformazione monotipica dei rifiuti solidi urbani abbatterebbe inoltre le
emissioni inquinanti per ciascun sito di trasformazione, ed esse verrebbero
distribuite nel territorio, con conseguenze più sopportabili per le popolazioni
e per gli ecosistemi.
Inoltre,
il realizzare centri relativamente piccoli di trasformazione monotipica dei
rifiuti solidi urbani implicherebbe ad esempio l'abolizione, o la diminuzione in
numero e dimensione, dei centri di trasferenza.
La
vicinanza dei centri di trasformazione ai poli industriali permetterebbe di
ridurre i costi di trasporto delle materie prime rigenerate, con una conseguente
ricaduta economica sui gestori dei centri stessi.
Ma
il Decreto Ronchi, in quanto strumento di regolamentazione di un’emergenza
ambientale legata allo smaltimento dei rifiuti (e quindi alla produzione di
merci) non può essere inteso per una forza comunista solamente come l’unico
obiettivo politico di una sua perfettibilità, parametro di valutazione per
l’ambito di azione programmatica strategica, bensì come un processo
transitorio, probabilmente tra i più adeguati a gestire la questione ambientale contingente, ma esso stesso necessariamente
superabile come traguardo per una soluzione permanente delle distorsioni insite
nel processo capitalistico.
Del
resto, nel decreto stesso si contempla -priorità massima ma di lunga
prospettiva- la necessità di ridurre a monte la produzione delle merci ad una
dimensione ecocompatibile, di superare quindi (anche se non se ne discute la
pratica metodologica) l’attuale meccanismo di produzione capitalistico.
Bisogna
proporre un’adeguata marginalizzazione dei contenuti del Decreto Ronchi, nel
senso di qualificare gli strumenti normativi in esso contenuti in una dimensione
di una rinnovata società dei consumi. Un modello di società quindi capace di
proporre sistemi economico-produttivi al
di là degli spazi unici e distorti del profitto. Una società radicalmente
diversa dagli attuali modelli effimeri e
materialistici che caratterizzano non solo i rapporti tra uomo e merci ma,
quale aspetto eticamente devastante e orrendo, anche quelli tra uomo e ambiente
e tra uomo e uomo.
Il
Decreto Ronchi auspica -in modo tutto sommato indefinito- il raggiungimento di
un modello produttivo pseudo-socialista,
ma nei fatti esso nasce quale strumento di regolamentazione ex-post,
ambisce unicamente a riorganizzare il circuito delle materie prime all’interno
del sistema industriale attuale, ma non ne propone concretamente (con strumenti
adeguati) una modifica della sua essenza, una sua conversione strutturale verso
altri canoni consumistici. Non interviene nella dimensione del libero mercato,
della sua struttura intrinseca, se non introducendo principi di responsabilità
verso quei produttori inquinanti.
Nella sua manifestazione normativa quindi, il Decreto Ronchi vuole correggere i
meccanismi di produzione (indirizzandoli verso processi chiusi, dove vi possa
essere il massimo realizzabile di riuso e riciclo), ma non argina la dimensione
capitalistica del processo di trasformazione (e depauperamento irreversibile)
delle risorse naturali in merci. In pratica, non ponendo limiti all’espansione
produttiva (se non con precisione legislativa a quella degli imballaggi e delle
confezioni) e visto che il riciclo delle materie prime può essere realizzato
solo in una certa misura, il degrado ecologico (e sociale) viene soltanto
dilatato nel tempo; non viene quindi impedito ma mantenuto con contenuti (di
profitto) ed effetti (socialmente deculturalizzanti e destabilizzanti) diversi,
nelle forme, da quelli attuali.
In
questo il Decreto Ronchi fallisce a priori,
in quanto si realizza dall’interno di un sistema organizzativo capitalistico
saldo, non ravvisa a pieno quindi tutte le sue ripugnanti manifestazioni lesive
della dignità dell’uomo.
Per
questi motivi, più che intervenire in un processo malato (l’attuale sistema
produttivo) è necessario rimuoverlo, superarlo ideologicamente, proponendo
culturalmente, tecnologicamente e industrialmente una base di organizzazione
sociale nella quale il rapporto tra uomo e merci rientri in una dimensione che
mantenga integre le capacità naturali di riequilibrio delle risorse e quindi le
possibilità per le generazioni future di poterne usufruire.
Rifondazione
Comunista intende rapportarsi con le istituzioni (Comuni, Province, Regione) e
con le forze politiche e sociali (sindacati, associazioni) che concordano su
obiettivi transitori, con proposte alternative, ma ritiene contemporaneamente (e
prioritariamente) che sia necessario favorire i processi di auto-organizzazione
delle masse e degli sviluppi propositivi derivanti dalle azioni di opposizione e
di lotta verso le politiche frustranti e lesive dell’integrità sociale.
Questi processi di contrasto risultano tra i più efficaci strumenti di
pressione nei riguardi degli enti preposti al (mal)governo e più in generale
dell’ordine costituito (vedasi ad esempio i fatti
di Scanzano Ionico).
Per
raggiungere l’obiettivo che si prefissa il Decreto Ronchi è condizione
fondamentale abolire la proprietà privata collegata ai mezzi di produzione
delle merci e socializzarla all’interno di un’economia anticapitalista
pianificata. Solo così può realizzarsi una reale produzione di qualità, che
si indirizzi verso i bisogni reali, contingenti e le aspettative future
dell’uomo (rispettandone contemporaneamente la dignità lavorativa) e che si
adegui alla ricettività ambientale.
(*)
Estratto dal documento "La questione ambientale legata alla produzione e
smaltimento dei rifiuti: il problema della gestione dell’emergenza e quello
del suo superamento" presentato dagli autori per il dibattito nella
Federazione di Messina del Prc (marzo 2004)