Irak: l'Onu tavolo di concertazione tra gli appetiti imperialisti di Usa ed Europa

L'Ulivo simbolo di guerra

L'indipendenza di classe necessaria al movimento

 

 

di Francesco Ricci

 

 

1) L'approvazione della risoluzione 1546 dell'Onu (che appoggia una foglia di fico sul controllo politico-militare degli Usa in Irak) costituisce la pietra tombale di ogni teorizzazione sull'Impero di negriana memoria. Anche prima delle contraddittorie "precisazioni" dei due autori di quel fortunato libro (che non ha certo cambiato le sorti del mondo ma ha sicuramente garantito ai due delle buone royalties) le loro strampalate teorie (incautamente adottate come libro di testo da molti) erano già state smentite da questa ennesima guerra che fin dal suo inizio confermava non solo la permanenza degli Stati nazionali (tutt'altro che assorbiti da un inesistente Impero senza confini); ma anche il conseguente permanere della lotta competitiva tra gli Stati imperialisti per difendere gli interessi delle differenti borghesie usando le non proprio novissime guerre per il controllo politico-militare delle aree strategiche: guerre di rapina per il controllo di materie prime e mercati.

In questo scenario mondiale che non si perita di apparire "novecentesco", l'Onu ha ripreso -seppure non senza difficoltà- a svolgere il ruolo per cui è nata: il ruolo di camera di concertazione dei diversi imperialismi (con buona pace di chi le attribuiva ruoli angioleschi e -con sprezzo del ridicolo- continua ancora a rivendicarne una qualche "riforma").

L'imperialismo statunitense guidato da Bush -che incontra crescenti difficoltà militari in Irak; che avrebbe bisogno di truppe di ricambio o di minori oneri militari in altre zone (ad es. in Afghanistan); che deve affrontare difficoltà politiche ed elettorali in patria- ottiene una copertura dal cosiddetto diritto internazionale per la sua sporca guerra. In cambio deve concedere all'imperialismo europeo (e all'asse franco-tedesco) -tutt'altro che "subalterno"- un nuovo spazio concertativo (con relative conseguenze sul terreno del confronto politico-diplomatico tra le diverse potenze) e qualche spazio in più alla tavola della spartizione economica irakena.

E' quello che con termini oggi di moda si definisce una vittoria del "multilateralismo" contro l'"unilateralismo" Usa. Un successo non irrilevante per l'imperialismo franco-tedesco che si avvantaggia indirettamente dello stallo in cui la resistenza irakena tiene le truppe di Bush, Berlusconi e Blair.

 

2) Il riflesso italiano di quanto sopra è uno smacco per gli ambiziosi (e megalomani) progetti internazionali di Berlusconi, che si aggiunge alle difficoltà per il governo in ogni ambito: le lotte operaie; l'ostilità crescente della grande borghesia che si prepara -v. la Confindustria di Montezemolo- a cambiare cavallo; gli scontri interni alla Casa delle Libertà, che crescono in parallelo con l'avvicinarsi della probabile sconfitta.

Ma un altro riflesso di questo reinserimento dell'Europa nella vicenda irakena sta nell'immediata "controsvolta" del centro liberale ulivista (maggioranza Ds, Margherita) che fa subito appassire alcuni argomenti che già circolavano insistentemente nel dibattito di Rifondazione. Altro che "svolta del centrosinistra come prodotto della contaminazione del movimento". Questo refrain che avrebbe dovuto sostenere (anche rincuorando i militanti) la prospettiva di un futuro governo Ulivo-Prc come cassa di risonanza della volontà dei movimenti (cioè un governo borghese che si farebbe interprete -grazie a un paio di ministri del Prc- degli interessi della classe dominata!) si è spento nella gola dei dirigenti maggioritari del partito a pochi giorni dal voto all'esaltata "mozione comune per il ritiro delle truppe". Si conferma cioè ciò che avevamo già appreso leggendo le storie di Fedro e La Fontaine: la mosca appoggiata sui cavalli -al di là delle sue aspirazioni- non decide la direzione della carrozza e nemmeno solleva la polvere sulla strada.

 

3) Pareva quasi che volessimo guastare la festa con le nostre dichiarazioni in quei giorni di festeggiamenti per quella presunta vittoria del movimento "che condiziona l'Ulivo" (con annesse affermazioni del compagno Bertinotti sulla "nuova realtà" che imporrebbe addirittura di "non parlare più di centrosinistra o Ulivo"). Eravamo stati invece facili profeti.

L'Ulivo aveva scelto la "linea Zapatero" non per una conversione pacifista (fosse pure imposta dalla pressione dei movimenti e dal Prc) ma per altri motivi.

Primo (il meno importante) per riconvertire in moneta elettorale la netta avversione alla guerra che si registra in ampi settori del suo elettorato popolare -questo sì effetto reale delle lotte del movimento contro la guerra e delle lotte operaie; una spinta che veniva così imbrigliata al costo di sole tre righe su un foglio.

Secondo motivo (il più importante) perché l'Ulivo -e non certo Berlusconi- continuava anche attraverso quella risoluzione a interpretare in modo autentico gli interessi della borghesia imperialista italiana. Basterebbe andare a rileggersi gli articoli di Scalfari e Caracciolo (su Repubblica, su Limes) delle settimane che hanno preceduto la cosiddetta "svolta" ulivista per capire. I due lucidi portavoce di quei settori centrali della borghesia italiana che hanno sempre sopportato di malavoglia la gestione Berlusconi (e preparano da tempo l'alternanza con il più affidabile personale ulivista) segnalavano nei loro articoli la necessità di aprire -tanto più nel momento di massima difficoltà di Bush- una contrattazione con il governo Usa per riguadagnare uno spazio concertativo per l'imperialismo europeo e i suoi interessi. Caracciolo (con il cinismo che lo contraddistingue) evitava ai suoi lettori ogni divagazione sentimentale (che Scalfari, invece, non ci risparmia) e andava diritto al punto: dopo aver elencato gli scarsi risultati economici conseguiti dalla borghesia italiana in Irak si chiedeva: possiamo pagare i costi sociali di una guerra senza contropartite?

 

4) Per questo tutti i dirigenti ulivisti hanno accolto con sollievo il varo della risoluzione Onu. Fassino: "con l'Onu cambia tutto". Prodi: "è finito l'unilateralismo Usa". Altro che "indecisione dell'Ulivo" come protesta Bertinotti. C'è viceversa una grande coerenza dell'Ulivo: coerenza con gli interessi della classe che rappresenta.

Ciò non significa necessariamente che l'Ulivo sosterrà ora col voto parlamentare la presenza militare italiana in Irak. Questo dipenderà solo -come ha spiegato con chiarezza D'Alema- dalla concreta traduzione della risoluzione Onu in concreti vantaggi per l'imperialismo nostrano. Questa era e rimarrà l'unica bussola per orientare il centro liberale dell'Ulivo (diretto, vale la pena di ricordarlo, da quegli autentici pacifisti che hanno mandato bombardieri su Belgrado e torturatori e stupratori in Somalia). Lo annuncia con piglio marziale Rutelli:

"Quando le cose cambieranno, quando la presenza internazionale in Irak avrà la bandiera dell'Onu (...) allora ci saremo anche noi, anche se le condizioni saranno difficili. L'Italia non potrà sottrarsi."

(intervista rilasciata a Repubblica il 25 maggio, ancor prima che si raggiungesse l'accordo Onu).

 

5) Ci siamo limitati fin qui a riepilogare dei fatti. E questo nostro modesto riepilogo basta da solo a riassegnare il giusto valore a tante teorie e ai loro corollari politici. Non ci riferiamo solo alle teorie sull'Impero (sia in salsa negriana che nella versione bertinottiana). Pensiamo anche alle teoria sulla "nonviolenza" come nuova levatrice della storia. In realtà anche in Irak pare che la Storia abbia dovuto ricorrere ancora all'ottocentesca scienza ostetricia decantata da Marx. Se invece di imbracciare fucili e lancia-razzi la resistenza irakena avesse alzato le mani al cielo (o praticato uno di quegli svariati modi di lotta che il giornale del partito ha recentemente pubblicizzato nel paginone centrale: sciopero della fame, esibizione del corpo inerme, e simili) a quest'ora staremmo parlando d'altro perché Bush si sarebbe già impadronito dell'Irak. Per fortuna pare che i militanti irakeni non si siano formati leggendo il libro sulla nonviolenza edito da Liberazione...

Ma la vicenda irakena -e l'evidente contrasto tra i diversi imperialismi- è, per così dire, una vendetta dei fatti anche su altre teorie non meno astruse. Compresa quella dei compagni Grassi e Sorini (e della loro area, l'Ernesto) i quali, pur riconoscendo l'esistenza dell'imperialismo e di contraddizioni inter-imperialistiche, arguiscono da ciò una necessità di costruire improbabili fronti alternativi (con la Russia di Putin, l'India, la Libia, ecc.) "per incunearsi" in queste contraddizioni ricalcando -su nuove linee divisorie- la logica dell'Internazionale stalinizzata del "blocco democratico" da contrapporre al "blocco reazionario". In realtà (e peraltro esattamente come negli anni Quaranta, visto che quella teoria impedì lo sviluppo rivoluzionario in Europa, riconsegnandone una buona parte alla ricostruzione borghese post-fascista) i diversi "blocchi" in cui si divide la borghesia mondiale sono tutti avversari del proletariato.

Il centrosinistra italiano e quello europeo non solo non sono "amici della pace e della democrazia" ma viceversa lavorano per rafforzare -anche militarmente- l'Europa nella competizione (per ora commerciale e finanziaria) con l'imperialismo statunitense.

E' quanto riconosce -e anzi rivendica- Rutelli (nell'intervista citata poco sopra):"Un'Europa che vuole veder affermati i propri valori e principi, che si considera difensore di un certo ordine morale, che vuole imporre il rispetto della legge internazionale, deve assumersi le proprie responsabilità e l'onere che comporta la creazione di un suo hard power in alleanza con gli Usa." Cosa sia lo "hard power" Rutelli lo spiega nel resto dell'intervista ed è riassunto nel titolo che la rispecchia fedelmente: "L'Europa ha bisogno di un suo esercito per bilanciare l'egemonia degli Stati Uniti."

 

6) Non c'è pace nel capitalismo. Questa è la realtà. Nemmeno in un capitalismo guidato dai "progressisti" (ecco un vero ossimoro) perché un sistema basato sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo non può fare a meno di guerre, torture, distruzione.

Per questo il movimento contro la guerra ha bisogno di autonomia -autonomia di classe- per poter crescere. E ha bisogno soprattutto -perché la sua forza non divenga paradossalmente la forza dei suoi avversari- di un altro orizzonte politico: che respinga ogni prospettiva di collaborazione di governo con il polo ulivista dell'alternanza borghese.

Il prossimo governo Prodi preparerà nuove guerre, come il candidato premier candidamente dichiara nel suo Manifesto laddove rivendica un ruolo "di potenza, anche sul piano strettamente militare per l'Europa" ("Pace, libertà, sicurezza non sono date una volta per tutte e in ogni parte del mondo. Esse possono richiedere di essere difese anche con le armi"). I comunisti non possono stare seduti nelle poltrone di quel governo di guerra: dovranno costruire nelle piazze, dall'opposizione, una alternativa di governo basata sul potere dei lavoratori. Un'alternativa socialista, internazionale, senza la quale le guerre non avranno fine.

 

(15 giugno 2004)