Prezzi “del cavolo” e alleanze “del cavolo”!

Come i comunisti dovrebbero affrontare il carovita

di Marco Veruggio 

 

Da qualche mese il tema dell'aumento dei prezzi, la polemica sull'euro e sui dati Istat tengono banco sulle prime pagine dei giornali e nei servizi giornalistici televisivi. L'argomento è stimolante soprattutto perché è totalmente inesplorato nei termini di un approccio classista alla questione. Il versante da cui infatti viene comunemente affrontato è quello generico dei consumatori, concetto che - com'è ovvio - non individua una classe e neanche un gruppo sociale omogeneo. Per quanto mi riguarda il modo più corretto di affrontare la questione è considerare la dinamica dei prezzi dal punto di vista dei lavoratori, considerandoli nel duplice ruolo di produttori e consumatori. Tre sono i nodi da sciogliere: la dinamica dell'inflazione, le cause che determinano questa dinamica, le politiche da perseguire a tutela delle fasce deboli.  

Primo punto: la necessità di adottare provvedimenti antinflazionistici è  stata il leit motiv degli economisti che hanno gestito il passaggio dalle politiche economiche degli anni '80 a quelle degli anni '90, in parallelo al trapasso tra I e II Repubblica. Non a caso uno dei pilastri costituenti della nuova stagione è rappresentato dagli Accordi del Luglio '93, che lanciavano la cosidetta "politica dei redditi" giustificandola appunto con la necessità di affrontare la spirale inflazionistica. Queste politiche hanno dimostrato di avere una loro efficacia (dal punto di vista padronale ovviamente) portando dei risultati in parte probabilmente reali, in parte frutto - come sempre - di evidenti falsificazioni contabili. Il trucco c'è e si vede facilmente. Intanto è chiaro che l'inflazione programmata è sempre largamente al di sotto di quella "reale"; in secondo luogo il dato "reale" con le virgolette è altrettanto chiaramente inferiore a quello reale senza virgolette. Come Marx insegna la scienza non è mai neutrale e la statistica non fa eccezioni: chi abbia studiato un minimo questa disciplina sa che l'esattezza dell'indagine è legata all'individuazione di un campione statistico “significativo” su cui effettuare le misurazioni. Nel nostro caso tale campione è costituito dal cosiddetto paniere Istat, che è - almeno dal nostro angolo visuale - assai poco “significativo”. Non si tratta solo della composizione merceologica (il famoso esempio del pane calmierato o delle sigarette nazionali di qualche anno fa). Vi sono almeno altre 2 questioni sollevate recentemente anche da uno studio della Federconsumatori. Il paniere Istat è costruito nell'ipotesi di una spesa media mensile di circa 2000 euro per famiglia, un'ipotesi che per molte famiglie rappresenta un sogno. E' evidente che per una famiglia che guadagni circa la metà l'inflazione "percepita" è molto più alta perché maggiore è l'apporto percentuale della spesa destinata ai consumi di prima necessità (quelli che spesso registrano i maggiori aumenti) sul totale del reddito. In secondo luogo l'Istat non soltanto fa una scelta classista nell'individuare i generi che compongono il paniere, ma misura l'andamento dei prezzi facendo riferimento una media "ponderata" nel senso che ogni genere pesa nel paniere secondo percentuali prestabilite: ad esempio la spesa per alberghi e ristoranti pesa per l'11% contro il 9% della spese per la casa (affitti) e l'1% della spesa per la RC auto. Ma chi si può permettere di spendere ogni mese in ristorante l’equivalente di più di una mensilità di affitto? Chi dilapida in tortellini e abbacchi 11 volte quello che paga per l’assicurazione dell’auto? Le proporzioni sono totalmente sfalsate rispetto alla realtà di una famiglia normale e i risultati ovviamente ne risentono. La crescita dell'inflazione negli ultimi anni è diventata talmente eclatante da far diventare questi trucchi dei veri e propri segreti di Pulcinella.

Secondo punto: il fatto stesso che si combatta l'inflazione attraverso la moderazione salariale sottintende un'affermazione di parte, cioè che ci troviamo in presenza di un'inflazione da costo del lavoro. L'esplosione inflazionistica in seguito all'introduzione dell'euro è la prova provata del contrario: nel gennaio 2002 non ci sono rinnovi contrattuali importanti, i salari rimangono nominalmente fermi eppure aumenta tutto. E' il più classico esempio di inflazione da prezzi. La polemica/tormentone tra Governo e opposizione sulle colpe dell'euro d'altra parte è vuota e tutta politica: è chiaro che il cambiamento di moneta non genera automaticamente inflazione se non nella misura del tutto irrilevante determinata dagli arrotondamenti per eccesso in seguito all'introduzione dei centesimi. L'inflazione si spiega da una parte come recupero dei profitti persi in seguito alla crisi economica internazionale, dall'altra - senza scomodare Marx - col vecchio adagio: "L'occasione fa l'uomo ladro". E l'occasione non poteva essere più ghiotta. Vi ricordate quando l'esperto di turno ci ammoniva a cercare di "pensare in euro e non in lire" per essere all'altezza del nuovo corso? Ora capiamo tutti il perché!

Terzo punto: che fare? Vediamo innanzitutto cosa non fare, a partire da alcuni esempi concreti. I Ds  hanno pubblicato un Manifesto per i consumatori, intesi come una sorta di minestrone interclassista in cui stanno fianco a fianco consumatori in senso stretto e risparmiatori, casalinghe da hard discount e detentori di titoli Cirio. Immaginate quale interesse possa suscitare la riforma della Consob  in un pensionato al minimo o nel collaboratore di un call center! Il decalogo è da manuale: riconoscere politicamente i consumatori, cioè un soggetto che non esiste e a cui proporre concertazione, dialogo sociale e altre amenità; integrare le associazioni del settore nell’apparato statale e amministrativo; sguinzagliare la magistratura; favorire le produzioni biologiche (dove un chilo di mele costa come una cesta di ostriche!); legare le tariffe dei servizi pubblici alla qualità (“Il servizio lascia a desiderare? Però paghi poco!”); infine  riformare appunto gli organismi di controllo sul risparmio. E’ una proposta che in realtà ha una sua logica, quella di istituzionalizzare ogni forma di conflitto legato alla questione dei consumi e del risparmio. La “fedeltà repubblicana” dei Democratici di sinistra ancora una volta viene confermata!

Il Prc ha dedicato all’aumento dei prezzi una serie di manifesti murali (“Prezzi del cavolo!”, ecc.) molto colorati ma poco propositivi. Come spesso capita si dà tanto spazio alla denuncia, ma si prova imbarazzo a suggerire i rimedi. I quali finiscono più spesso in calce ai meno vistosi volantini. Uno di questi indica 5 richieste:

1) rivalutare ogni anno stipendi e pensioni all’inflazione reale. E’ la richiesta avanzata nella proposta di legge n. 1032 sottoscritta da Alfonso Gianni e altri nostri parlamentari, assolutamente corretta in astratto, problematica se calata nella realtà materiale. Dico problematica perché non mette in discussione l’ultrascreditato indice Istat, cioè non affronta il problema fondamentale: la falsificazione dei dati (prevedendo tra l’altro la verifica del disallineamento con scadenza soltanto annuale). In un paese in cui – contro ogni evidenza – un governo dopo l’altro sostengono che la disoccupazione scende, la ripresa è dietro l’angolo e gli italiani sono tutti più felici (il tutto documentato con tanto di sondaggi e indagini statistiche) non è difficile sostenere che l’inflazione “reale” è bassissima. Il principio della scala mobile dei salari (così come delle ore di lavoro) è assolutamente corretto, ma non è indifferente come lo si articola. In una fase in cui la disponibilità dei lavoratori alla lotta è in ascesa (lo dimostra l’aumento vertiginoso delle ore di sciopero negli ultimi anni) credo che bisognerebbe prima porre con forza la richiesta di aumenti salariali consistenti e generalizzati e porre al centro la contrattazione sindacale, poi chiedere la reintroduzione della scala mobile modificando i criteri di misurazione dell’inflazione (dove il prima e il poi indicano non tanto una scaletta temporale quanto una priorità politica). Altrimenti il rischio è che l’attenzione si sposti dalle vertenze contrattuali qui ed ora a una proposta istituzionale proiettata in un futuro indistinto, col rischio di ripetere la vicenda degli autoferrotranvieri, in cui il Partito, nel pieno degli scioperi, invece di concentrarsi sull’organizzazione delle lotte spostava l’attenzione in avanti su un referendum che è finito come era lecito attendersi.

2) aumentare tutti i trattamenti pensionistici al di sotto dei 500 euro: richiesta sacrosanta ma è ben poca cosa!

3) introdurre il salario sociale: qui una parentesi va aperta, perché l’esempio della regione Campania è significativo di come, nella pratica di cogestione col Centrosinistra, le rivendicazioni-montagna partoriscano provvedimenti-topolino. Intanto bisognerebbe chiarirsi le idee su cosa si intende per salario sociale, perché spesso viene il dubbio che qualche dirigente del Prc tenda a spacciare come tale provvedimenti che hanno più del “reddito minimo di inserimento” o, ancora peggio, dell’elemosina elargita in funzione di mantenimento della pace sociale. Il caso campano è eclatante: il progetto del Prc viene a poco a poco svuotato fino a ridursi all’erogazione di una somma di 350 euro mensili per i nuclei familiari con un reddito inferiore ai 5000 euro annuali! L’operazione è talmente lampante che gli stessi consiglieri regionali del Prc votano a favore, su pressione di Bertinotti in persona, con una dichiarazione di voto estremamente critica in cui paragonano il “salario sociale” di Bassolino alle provvidenze versate un tempo da un ente assistenziale come l’Eca. Bertinotti invece dichiara alla stampa che presto cenerà con Bassolino… “per festeggiare”!

4-5) bloccare le privatizzazioni e i conseguenti aumenti delle tariffe: siamo tutti d’accordo. Il problema è che  bloccare le privatizzazioni stipulando alleanze col Centrosinistra è come combattere la malasanità alleandosi con De Lorenzo!

Insomma anche il problema del carovita non si combatte prima scrivendo proclami e poi seguendo le ragioni degli equilibri di coalizione. O si pone con forza la richiesta di forti aumenti salariali che vadano a rompere con la politica dei redditi, di un’inversione di tendenza nei processi di liberalizzazione a partire dai servizi essenziali, di un vero salario sociale per i disoccupati o sennò si finisce per ottenere “vittorie” che noi stessi non abbiamo il coraggio di rivendicare, come nel caso della Campania. Accanto al problema della piattaforma c’è quello della costruzione della battaglia politica nelle organizzazioni di massa, a partire dai sindacati dei lavoratori e in occasione dei prossimi rinnovi contrattuali (autoferrotranvieri, commercio), ma senza escludere le associazioni dei consumatori, per quanto poco entusiasmante sia il panorama che esse ci offrono. Vale anche per esse il principio che applichiamo ai sindacati. Non conta tanto la radicalità delle posizioni che esse esprimono quanto il loro radicamento sociale, che, coi tempi che corrono, ho l’impressione che sia destinato a crescere.