Iraq: Una Guerra Infinita?
di Valerio Torre
Ad
oltre due anni dall’aggressione Usa, la situazione in Iraq non può più
neanche essere benevolmente definita come un “pantano”: benché da tempo
George W. Bush abbia “per decreto” proclamato la fine della guerra, una
resistenza composita e non coordinata, ma ben armata, tiene costantemente in
scacco gli eserciti della coalizione guidata dagli americani e le milizie delle
nuove forze armate irachene infliggendo loro costanti gravi perdite. Ad oggi,
infatti, le sole truppe statunitensi debbono annoverare circa 1.700 perdite.
Certo, i cultori dell’arte della guerra così come la si studia nelle accademie militari sono costretti a storcere un po’ il naso di fronte ad un nemico che non vanta un esercito in piena regola, guidato da generali con tanto di galloni, ma che è costretto dalla soverchiante disparità delle forze in campo ad utilizzare mezzi non proprio ortodossi come i kamikaze con il loro triste carico esplosivo: tuttavia, in fondo, è proprio questa situazione a caratterizzare quella a cui stiamo assistendo come guerriglia di resistenza.
Il
Governo fantoccio
Paradossalmente,
l’escalation di reazione cui stiamo
assistendo può farsi risalire alla nascita del nuovo governo con a capo Ibrahim
Al Jaafari, partorito con enormi difficoltà dalle elezioni truffa del 30
gennaio scorso: quello che doveva suggellare - nelle intenzioni di Bush -
l’effettiva “democratizzazione” del paese è stato salutato dai ribelli
con ben undici autobombe, esplose nel solo primo giorno del neonato esecutivo,
che hanno fatto circa quaranta morti ed oltre centoventi feriti.
In
realtà, il governo appena nominato, che doveva apparire come il più genuino
risultato di quella “esportazione di democrazia” promessa dal presidente Usa
è stato da subito caratterizzato da forte debolezza e profonda divisione fra le
componenti etniche che lo compongono, considerando peraltro che quella sunnita
non è rappresentata nell’esecutivo; e la resistenza ha subito compreso che
questo tratto di precarietà poteva costituire un elemento da sfruttare: perciò,
l’obiettivo dei kamikaze si è progressivamente spostato dai contingenti delle
truppe americane al nuovo esercito iracheno in formazione ed alle centinaia di
cittadini in fila fuori delle caserme per ottenere un reclutamento quale unica
alternativa possibile alla fame. D’altronde, gli stessi statunitensi
contribuiscono a questo riorientamento della guerriglia, dal momento che il
consolidamento della milizia nazionale consente loro di occupare le seconde
linee o di intervenire solo in caso di necessità: con un bel risparmio in
termini di vite umane!
In
ogni caso, il salto qualitativo e quantitativo da parte della resistenza può
essere attribuito alla “saldatura” di tipo militare fra le cellule
fondamentaliste che fanno capo ad Abu Musab Al Zarqawi e taluni settori del
disciolto esercito di Saddam Hussein, che, oltre a consistenti pezzi del vecchio
apparato statale baathista, annovera nei suoi ranghi scienziati ed esperti
militari i quali hanno sicuramente portato in dote al luogotenente di Osama Bin
Laden armamenti ed esplosivi.
Sta
di fatto che, benché non siano ben coordinate, le milizie dei ribelli riescono
comunque a colpire obiettivi deboli come le reclute: basti pensare che, dalla
designazione del governo iracheno ad oggi il numero di soldati e poliziotti del
nuovo esercito uccisi ha superato quota 600. È evidente l’obiettivo di minare
la relazione fra la neonata amministrazione e le masse in cerca di stabilità
socio‑economica e di far emergere l’instabilità politica del nuovo
esecutivo; il quale, esasperato dall’instancabile pressione dei resistenti ha
recentemente deciso di lanciare su Baghdad un’offensiva con 40.000 soldati
supportati da 10.000 marines. L’operazione - pensata come un maxi
rastrellamento per riportare sotto controllo la zona centrale della città e
quella occidentale dove sorge l’aeroporto - comporterà la suddivisione della
capitale in circa 600 check point che
dovrebbero servire ad assicurare il controllo delle strade.
Si tratta, in ordine di tempo, dell’ennesima azione militare - dopo quella di Qaim, in cui si è registrato un alto numero di vittime civili - per il controllo di centri nevralgici che spesso, dopo che le truppe Usa hanno “finito il lavoro”, cadono nuovamente in mano ai ribelli: così è accaduto, per esempio a Bassora, dove il capo della polizia ha ammesso qualche giorno fa di aver perso il controllo di ben tre quartieri dopo essersene impossessato col supporto dei militari americani.
La
degenerazione della Resistenza e la guerra civile voluta dagli Usa
Tuttavia,
non può essere sottaciuta la constatazione che, col passare del tempo, la
resistenza, pur incrociando ancora istanze popolari di liberazione nazionale
(nello scorso mese di marzo centinaia di operai portuali di Bassora hanno
indetto uno sciopero per protestare contro i maltrattamenti inflitti dagli
occupanti americani; si succedono sempre più frequentemente le manifestazioni
dei poliziotti appena assunti che rivendicano il pagamento degli stipendi), si
è trovata ad essere dominata da settori integralisti islamici che hanno
costruito la propria egemonia sul generalizzato rifiuto dell’occupazione
angloamericana da parte della popolazione irachena, acuendo però lo scontro
etnico‑religioso che era sembrato passare in secondo piano in occasione
della battaglia di Najaf allorquando settori sunniti e sciiti si erano stretti a
difesa della “città santa” contro l’invasore.
D’altronde,
quello dell’aumento delle tensioni interreligiose è anche l’obiettivo
scoperto degli stessi occupanti statunitensi, i quali puntano
all’emarginazione della minoranza sunnita proprio per evitare il consolidarsi
di un fronte comune fra le due etnie che, indubbiamente, aumenterebbe il
potenziale della resistenza. La strategia americana persegue lo scopo di
costruire l’Iraq come somma di entità etnico‑confessionali. Scopo reso
evidente dal fatto che Bush punta soprattutto sulla componente sciita e su
quella curda: quelle, cioè, che furono maggiormente sotto il giogo del regime
baathista e che oggi si illudono di poter trovare un proprio spazio
politico‑economico dopo la “liberazione” portata loro dagli Usa, cui
esse hanno da subito offerto collaborazione.
Tuttavia,
il paradosso di questa linea strategica sta nel fatto che la sua applicazione ha
determinato e determina un progressivo aumento, all’interno dell’Iraq,
dell’influenza politica dell’Iran attraverso il diretto controllo della
comunità sciita filo‑iraniana nell’esecutivo nato dalle elezioni truffa
del gennaio scorso, da cui sono stati scientemente esclusi i sunniti.
Nondimeno,
l’allargarsi del quadro di instabilità sociale e politica in Iraq gioca
senz’altro a favore dell’allungarsi dei tempi di permanenza
dell’occupazione anglo‑americana, come ha recentemente confermato il
vicepresidente Usa, Dick Cheney, che ha fatto riferimento al 2009 per
l’eventuale ritiro delle truppe: si tratta, in tutta evidenza, di un tempo che
l’amministrazione americana ritiene sufficiente per portare a termine quel
progetto di insediamento, nella regione mesopotamica, di basi militari stabili
per il definitivo controllo energetico e geopolitico della zona.
Lo
Stato dell’opposizione alla Guerra
In
questo scenario, non è secondaria una riflessione sull’elemento
dell’assuefazione alla guerra da parte di un’opinione pubblica mondiale
visibilmente pervasa da un profondo senso di stanchezza e che solo in parte -
per quel che riguarda quella italiana - è stata scossa dalla vicenda del
rapimento di Giuliana Sgrena, della sua liberazione e della morte del
funzionario del Sismi Nicola Calipari, ucciso dai marines americani mentre
riportava a casa la giornalista de il
manifesto.
Anche
lo scandalo delle crudeltà nel carcere di Abu Ghraib, che in un primo momento
aveva sollevato un vasto scandalo con la diffusione delle fotografie che
riproducevano umiliazioni e torture inflitte ai prigionieri iracheni, si è via
via placato fino alla collettiva presa d’atto della decisione della Corte
militare statunitense che ha mandato assolti i responsabili in alto grado
dell’esercito d’occupazione sanzionando soltanto qualcuno dei soldati
responsabili materiali delle sevizie, definiti “mele marce”.
Probabilmente,
parte di questo senso collettivo di assuefazione è dovuta al progressivo
scadimento dell’informazione: a parte le notizie sui quotidiani attacchi
suicidi o sulle operazioni militari, nessun altro approfondimento giornalistico
viene più offerto. Non vi sono più inchieste o reportage indipendenti poiché
gli Usa hanno di fatto allontanato la stampa non embedded, apertamente dichiarata non gradita.
Ma
questo è solo un aspetto del problema. Ciò che appare caratterizzare questa
fase è la ricomposizione, sia pure contraddittoria, delle contraddizioni
interimperialstiche fra gli Usa e quei paesi - Francia, Germania, Russia - che
si erano dichiarati contrari alle operazioni militari in Iraq senza però
opporsi esplicitamente all’occupazione. Il vertice di Istanbul di un anno fa
sembra essere stata l’occasione per negoziare, attraverso il coinvolgimento
diretto della Nato in territorio iracheno (formalmente solo per
l’addestramento delle truppe, ma in realtà con un ruolo che non può non
essere soprattutto politico), un rinnovato equilibrio che preservi
l’indiscutibile ruolo centrale dell’America consentendo però agli altri
paesi prima esclusi di partecipare alla spartizione del bottino di guerra.
E così, tutti questi fattori hanno determinato il progressivo sfilacciamento nella società della contrarietà alla guerra in Iraq ed all’occupazione americana, mentre la parola d’ordine “via le truppe dall’Iraq” sembra aver assunto un carattere rituale.
…
E Il Prc?
Tuttavia,
nel quadro della politica interna non può essere sottaciuto il ruolo, da questo
punto di vista, estremamente negativo, che ha giocato il Prc. Il mancato
sostegno alla resistenza irachena; la volontà più volte manifestata di non
andare allo scontro parlamentare su una mozione che per davvero rivendicasse il
ritiro immediato ed incondizionato delle truppe italiane, con l’obiettivo
scoperto di non dover essere costretto a confliggere con gli altri partiti
dell’Unione; la gestione della fase del sequestro delle due Simone con la
legittimazione del governo guerrafondaio di Berlusconi attraverso il tavolo di
concertazione a Palazzo Chigi; da ultimo, il sostanziale boicottaggio della
manifestazione nazionale del 19 marzo scorso; sono stati tutti elementi di
disorientamento dei militanti e, più in generale, del popolo della sinistra che
improvvidamente aveva visto in Rifondazione uno dei punti di riferimento
dell’opposizione generalizzata alla guerra d’aggressione Usa all’Iraq. Ma,
al contempo, hanno tutti costituito parte significativa e niente affatto
secondaria del percorso di ricomposizione negoziale fra il Prc di Bertinotti e
la grande borghesia imprenditoriale e finanziaria rappresentata da Prodi.
Anche
su questo terreno, però, richiamandosi ai principi dell’internazionalismo e
della reale lotta all’imperialismo, Progetto comunista assume l’impegno già
dichiarato: nessun governo della borghesia - foss’anche un governo
Prodi‑Bertinotti - sarà privato di un’opposizione comunista e di
classe!
31
maggio 2005.