La crisi della Fiat

Per la nazionalizzazione sotto controllo operaio

 

di Luigi Sorge*

 

Sui mass media sono state fornite le più svariate spiegazioni sugli “errori” della Fiat. Non si può condividere l’ipotesi dell’errore. Essa suppone un retropensiero: la convinzione che se nel capitalismo le aziende non compissero “errori” e magari disponessero della mitica “politica industriale” non ci ritroveremmo con crisi, esuberi, ecc. Molto più semplicemente, la Fiat ha fatto una scelta già molti anni fa, e l’ha fatta in base all’unica logica e all’unica morale che il capitalismo conosca: il profitto. La Fiat ha già da tempo compiuto la scelta di uscire dall’auto, perché il settore presentava una concorrenza internazionale inarrivabile per l’Italia e i profitti ricavabili avevano un’entità inferiore a quella di altri settori. Dov’è l’errore, dal punto di vista capitalista? A me pare invece tutto molto logico. Diversi dati aiuteranno a dimostrarlo.

Nel ‘90 la quota Fiat nel mercato italiano era del 52% (con Lancia e Alfa), oggi è al 31%. In Europa si è passati dal 14% all’8%. Un calo, dunque, che percorre tutti gli anni Novanta. La Fiat aveva 130 mila dipendenti nel 1980, calati a 90 mila a metà anni Ottanta, poi a 50 mila a inizio dei Novanta (12 mila quadri e impiegati vennero buttati fuori tra il ’93 e il ’94), per arrivare ai 37 mila di oggi. Tutto ciò corrisponde alla scelta ben precisa di mantenere l’azienda in una china di “produttiva decadenza”: di non investire, ma di ridurre le spese all’osso, un’operazione di “spolpamento” dell’azienda per ricavarne risorse da gettare altrove, finché dura. Operazione, del resto, nella quale la Fiat è esperta: ha fatto così con l’Alfa Rorneo acquistata nel 1986 (nei fatti regalatale dallo Stato) pur di non vederla cedere alla Ford e l’ha progressivamente smantellata, lo stesso era accaduto con Lancia ed Innocenti.

Mentre disinvestiva nel settore auto, la Fiat acquisiva altrove. Solo negli ultimi anni: nel ’99 Case, Kobelco e Pico, e nel 2001 è entrata alla grande nel settore elettrico. Montedison, oggi controllata da Fiat con il 24,6%, è la seconda azienda del comparto dopo l’Enel. La Fiat dunque, al pari di qualsiasi azienda capitalista, si fonda sulla ricerca del profitto, del suo profitto, e da quel punto di vista ha compiuto, dieci anni fa, la scelta giusta. Solo che si tratta di una scelta, come tutte quelle dettate dal profitto, che non coincide affatto con gli interessi degli operai.

I due interessi, quello capitalista e quello operaio, sono contrapposti e non c’è alcuna “gestione illuminata” da parte dei padroni, nessuna splendida “politica economica” che potrebbe conciliarli. La sinistra e i sindacati dunque non possono sperare di cavarsela cercando di suggerire a Montezemolo & co. la maniera migliore per fare i capitalisti, perché Montezemolo & co lo sanno già, purtroppo. Si deve agire in maniera tale da inceppare e sconfiggere quella logica. Lo stesso Galateri afferma che in 25 anni la Fiat ha ricevuto aiuti dallo stato per 4,5 miliardi di euro, senza contare la cassa integrazione e il regalo dell’Alfa Romeo.

 

Il nuovo piano industriale 

Il 3 agosto 2005 a Palazzo Chigi, davanti al Governo ed alle oo.ss., la Fiat ha illustrato il proprio piano industriale e finanziario per i prossimi 4 anni, un piano che Fim e Uilm hanno apprezzato, mentre la Fiom ha sospeso il proprio giudizio di merito in attesa di discuterlo con i delegati delle aziende interessate. Un piano che può piacere ai sindacati ma non deve ingannare i lavoratori perché si presentano altri anni di enormi sacrifici attraverso cassa integrazione e licenziamenti. Ne è riprova la forte crisi che vive l’indotto Fiat e l’ininterrotta cassa integrazione di tutte le fabbriche del gruppo. Inoltre, l’amministratore delegato Marchionne ha affermato che dal 2007 ogni nuova vettura sarà assegnata ai vari siti produttivi in base a dei criteri individuali, ai costi di produzione, ai dati occupazionali, alla produttività, ecc.

Ciò significa una cosa sola: che si scatenerà una “guerra” tra i vari stabilimenti per farsi assegnare i nuovi modelli a colpi di accordi che ridurranno sempre più diritti, aumento della produttività, diminuzione dei costi (salari), aumento dell’orario di lavoro (non è un caso che Federmeccanica nel contratto tuttora in discussione chiede di rivedere l’orario di lavoro e Confindustria attacca l’istituto del ccnl stesso per abolirlo). Tutto questo porterà, senza tema di essere accusati di catastrofismo, ad una guerra tra poveri, con l’unico risultato di darla vinta ai padroni del vapore comunque essi si chiamino.

 

La nostra prospettiva 

Credo che di fronte a questi dati si possa affermare tranquillamente che il destino di migliaia di lavoratrici/ori non possa essere lasciato in mano a lor signori. Ma è ora che noi operai ed operaie afferriamo il nostro destino con le nostre mani e decidiamo che in ogni realtà di lavoro - che si chiami Fiat, Alitalia o altro - ove si determini una crisi vera o presunta (delocalizzazione per maggiori profitti nei paesi a bassissimo costo di manodopera) si passi all’occupazione per rivendicarne la nazionalizzazione senza alcun indennizzo e sotto il controllo operaio.

Per quanto riguarda la Fiat, costruita con il sudore e il sangue dei lavoratori e con i soldi pubblici - soldi che sono finiti sempre nelle tasche degli azionisti, per fare ristrutturazioni servite solo a licenziare - non c’è altra strada che la nazionalizzazione di tutto il gruppo senza indennizzo e sotto il controllo operaio. E ciò deve passare attraverso l’unico strumento efficace per realizzarla, la lotta e l’occupazione di tutte le fabbriche senza aver paura dello scontro che ne scaturirebbe con i padroni e i loro servi. Non dobbiamo aver paura di decidere il futuro nostro e dei nostri figli abolendo ogni forma e concetto di delega: solo con l’intervento in massa del proletariato industriale possiamo sconfiggere un sistema che si nutre d’ingiustizie, di sfruttamento, di guerre - per dirla con una parola, la barbarie del capitalismo - verso un nuovo mondo possibile, il Socialismo.

 

*Operaio Fiat