Da Genova 2001 alle politiche 2006

Movimento: la fine di un ciclo?

 

di Marco Veruggio

 

La riunione dei G8 a Gleneagles ai primi di luglio, ha fatto emergere, forse come non mai, i paradossi del movimento no global internazionale. Da una parte la solita starparader della politica mondiale, con qualche novità (la presenza di Hu Jntao a testimonianza dell’affacciarsi della Cina nel panorama delle grandi potenze mondiali) per suggellare i risultati del lavoro preparatorio dei cosiddetti sherpa, i funzionari dei vari stati e delle agenzie sovranazionali, cioè i veri artefici delle politiche del capitalismo internazionale. Dall’altra un movimento di contestazione che, aldilà dei rituali scontri con la polizia, vede la sua immagine risucchiata dall’iniziativa del Live8, con altre star, quelle del rock, del cinema, della finanza miliardarie, che predicano l’elemosina per i poveri del mondo e la difesa dell’ambiente capitanate da Bob Geldof, Bono, Brad Pitt, e con la collaborazione di Bill Gates, che debutta anche lui nel mondo dello spettacolo recitando il ruolo non troppo originale del capitalista dal volto umano.

Tony Blair cerca di costruire un’operazione di immagine snocciolando promesse di aiuti all’Africa a fianco delle rockstar, che proclamano senza troppa convinzione: “O fate qualcosa o ve la facciamo vedere noi…” ma Bush gela gli entusiasmi dicendo che gli Usa “hanno già dato” e che del Protocollo di Kyoto non se ne parla proprio, perché frena l’economia (americana in particolare). Lui non ha alcuna intenzione di mettersi contro l’apparato militar-industriale che lo sostiene per permettere all’amico Tony di rifarsi la verginità persa con l’intervento in Iraq e i tagli allo stato sociale. Il silenzio delle rockstar conferma puntuale la scarsa convinzione dei proclami. E, mentre lo show della politica maschera i fatti della politica (quella vera, che va discretamente ma con decisione avanti per la sua strada), irrompono sulla scena gli attentati del 7 luglio, che tolgono la scena della contestazione ai no global seminando morti a pochi centinaia di chilometri da Gleneagles e dimostrando quanto poco l’intervento in Iraq abbia indebolito il radicalismo islamico. Le divergenze tra i grandi scompaiono immediatamente in nome dell’unità antiterrorismo e la contestazione soffoca.

 

4 anni dopo…

A 4 anni di distanza dal G8 di Genova un’analisi politica impietosa ci dice una cosa assai chiara: nella lotta internazionale contro la politica di potenza occidentale a un soggetto politico che viene prepotentemente alla ribalta, il radicalismo islamico, ne corrisponde un altro che esce di scena, il movimento, notevolmente ridimensionato dal ruolo di seconda superpotenza mondiale che la stampa internazionale gli attribuiva (con eccessiva enfasi) tre anni fa. Ciò indubbiamente è legato a motivazioni complesse e non può essere schematicamente imputato soltanto agli “errori” dei no global. L’utilizzo delle bombe e la costruzione di una rete jihadista mondiale finanziata tra l’altro anche col gettito derivato del petrolio saudita rende la “concorrenza” obiettivamente incisiva. Così come non è da sottovalutare il fatto che alla stessa stampa occidentale fa gioco enfatizzare il “pericolo islamico” anche oltre la sua reale portata proprio per giustificare la propria politica aggressiva e per soffocare la contestazione interna. Ma è certo che oggi vengono al pettine una serie di nodi lungamente elusi nel “movimento dei movimenti”.

In Italia questo quadro è confermato e segnato da alcuni tratti inconfutabili. In primo luogo la stagione dei social forum si è esaurita nel volgere di pochi mesi. La nascita di queste strutture in moltissime città a cavallo di Genova 2001, dopo aver destato grandi entusiasmi e speranze di una nuova “democrazia dal basso”, ha lasciato a poco a poco spazio alla rimonta degli organismi più tradizionali che avevano contribuito a dar vita a quelle esperienze. In questo modo la carica innovativa e radicale che realmente esse manifestavano (certo meno di quanto molti abbiano voluto vedervi) è andata evaporando. Ciò ha significato che il quadro politico e istituzionale, in particolare di centrosinistra, inizialmente spiazzato dall’emergere di forme di aggregazione inedite e potenzialmente radicali, è riuscito progressivamente a cooptare queste forze e a ricondurle all’ovile della concertazione istituzionale. Col contributo delle burocrazie di movimento, in cambio di un riconoscimento del loro peso politico concretizzatosi in una manciata di posti nelle varie assemblee elettive.

 

Verso il 2006 

La prova del nove è data dal fatto che il quadro del dibattito attuale all’interno di quel che rimane del movimento è tutto monopolizzato da dinamiche di “piazzamento” dei vari gruppi e delle varie componenti in vista delle elezioni politiche dell’anno prossimo, il tutto delimitato rigidamente nel quadro dell’alternanza bipolare. L’unanimismo di facciata che rifuggiva dal confronto democratico in nome di un presunto “metodo del consenso” si scioglie come neve al sole nel momento in cui sono in gioco postazioni di comando. Così Bertinotti due anni fa proclamava di essere d’accordo col movimento a prescindere, e dietro a quel paravento trovava un alibi per non esprimere una posizione autonoma nei social forum, per non rompere l’unità si diceva; oggi, affronta con la massima disinvoltura primarie in cui vi saranno due o tre candidature di forze del movimento e l’unità viene bellamente archiviata come un arnese un po’ ingombrante da riesumare magari in tempi più adatti. Così anche gli altri leader, tutti intenti nello sgomitamento per conquistarsi un posto al sole: Pecoraro Scanio candidato dell’ala ambientalista, Casarini, sponsor di sacerdoti d’assalto da scagliare contro Bertinotti, definito “servo degli Usa” (in una competizione volta a legittimare la leadership di Prodi, che invece sarebbe – ne dobbiamo dedurre – uomo al di sopra delle parti). I personaggi minori - da Giulietto Chiesa a Occhetto - che non possono aspirare a un ruolo da protagonista, si preparano dietro le quinte a scavare la propria nicchia nel mercato della politica. In questo quadro – viene da chiedersi – dov’è finito il movimento in carne e ossa, quello che per due anni ha riempito le piazze e innescato speranze di una nuova “democrazia dal basso”? Semplice: o sta a guardare un po’ disorientato (magari anche un po’ depresso) oppure fa da massa di manovra della solita politica “dall’alto”.

 

Quali prospettive? 

Più che piangere sul latte versato o rimembrare i bei tempi andati bisognerà chiedersi se è tutto finito. In realtà credo che, come sempre, anche le sconfitte a volte possano sedimentare energie carsiche pronte a riaffiorare quando le circostanze materiali lo rendano possibile. In modo disarticolato già succede. La lotta contro la privatizzazione dell’acqua in Campania mi sembra che rimetta in campo temi e forze che in qualche modo vengono dall’esperienza di qualche anno fa. Così altre situazioni sempre a livello locale. Ciò che manca è una generalizzazione e un’unificazione di queste esperienze locali e quelle possono venire soltanto da una circostanza materiale (così come avvenne allo scoppio della guerra) che necessiterà tuttavia ancora una volta di profilo di classe definito e di una chiara prospettiva politica, autonoma e antagonista, pena una seconda cooptazione da parte del centrosinistra (dopo aver piazzato i “portavoce” di turno in qualche scranno istituzionale). Il probabile avvento di un Prodi bis potrebbe aiutare, frantumando le aspettative ancora forti in numerosi settori di movimento nei confronti di un’Unione che, ingessata dalla camicia di forza della governabilità, non avrà più spazio nemmeno per le (pseudo) sterzate a sinistra alla Cofferati che Berlusconi al governo le ha consentito in questi anni. Ma il problema di avere un soggetto politico credibile come scheletro e punto di riferimento è e rimane comunque ineludibile. Su Rifondazione Comunista pesa la maggiore responsabilità nel darvi soluzione.