Movimento:
la fine di un ciclo?
di
Marco Veruggio
La
riunione dei G8 a Gleneagles ai primi di luglio, ha fatto emergere, forse come
non mai, i paradossi del movimento no
global internazionale. Da una parte la solita starparader della politica mondiale, con qualche novità (la
presenza di Hu Jntao a testimonianza dell’affacciarsi della Cina nel panorama
delle grandi potenze mondiali) per suggellare i risultati del lavoro
preparatorio dei cosiddetti sherpa, i
funzionari dei vari stati e delle agenzie sovranazionali, cioè i veri artefici
delle politiche del capitalismo internazionale. Dall’altra un movimento di
contestazione che, aldilà dei rituali scontri con la polizia, vede la sua
immagine risucchiata dall’iniziativa del Live8, con altre star, quelle del rock, del cinema, della finanza miliardarie, che
predicano l’elemosina per i poveri del mondo e la difesa dell’ambiente
capitanate da Bob Geldof, Bono, Brad Pitt, e con la collaborazione di Bill Gates,
che debutta anche lui nel mondo dello spettacolo recitando il ruolo non troppo
originale del capitalista dal volto umano.
Tony
Blair cerca di costruire un’operazione di immagine snocciolando promesse di
aiuti all’Africa a fianco delle rockstar,
che proclamano senza troppa convinzione: “O fate qualcosa o ve la facciamo
vedere noi…” ma Bush gela gli entusiasmi dicendo che gli Usa “hanno già
dato” e che del Protocollo di Kyoto non se ne parla proprio, perché frena
l’economia (americana in particolare). Lui non ha alcuna intenzione di
mettersi contro l’apparato militar-industriale che lo sostiene per permettere
all’amico Tony di rifarsi la verginità persa con l’intervento in Iraq e i
tagli allo stato sociale. Il silenzio delle rockstar
conferma puntuale la scarsa convinzione dei proclami. E, mentre lo show
della politica maschera i fatti della politica (quella vera, che va
discretamente ma con decisione avanti per la sua strada), irrompono sulla scena
gli attentati del 7 luglio, che tolgono la scena della contestazione ai no
global seminando morti a pochi centinaia di chilometri da Gleneagles e
dimostrando quanto poco l’intervento in Iraq abbia indebolito il radicalismo
islamico. Le divergenze tra i grandi scompaiono immediatamente in nome
dell’unità antiterrorismo e la contestazione soffoca.
4
anni dopo…
A
4 anni di distanza dal G8 di Genova un’analisi politica impietosa ci dice una
cosa assai chiara: nella lotta internazionale contro la politica di potenza
occidentale a un soggetto politico che viene prepotentemente alla ribalta, il
radicalismo islamico, ne corrisponde un altro che esce di scena, il movimento,
notevolmente ridimensionato dal ruolo di seconda superpotenza mondiale che la
stampa internazionale gli attribuiva (con eccessiva enfasi) tre anni fa. Ciò
indubbiamente è legato a motivazioni complesse e non può essere
schematicamente imputato soltanto agli “errori” dei no
global. L’utilizzo delle bombe e la costruzione di una rete jihadista
mondiale finanziata tra l’altro anche col gettito derivato del petrolio
saudita rende la “concorrenza” obiettivamente incisiva. Così come non è da
sottovalutare il fatto che alla stessa stampa occidentale fa gioco enfatizzare
il “pericolo islamico” anche oltre la sua reale portata proprio per
giustificare la propria politica aggressiva e per soffocare la contestazione
interna. Ma è certo che oggi vengono al pettine una serie di nodi lungamente
elusi nel “movimento dei movimenti”.
In
Italia questo quadro è confermato e segnato da alcuni tratti inconfutabili. In
primo luogo la stagione dei social forum
si è esaurita nel volgere di pochi mesi. La nascita di queste strutture in
moltissime città a cavallo di Genova 2001, dopo aver destato grandi entusiasmi
e speranze di una nuova “democrazia dal basso”, ha lasciato a poco a poco
spazio alla rimonta degli organismi più tradizionali che avevano contribuito a
dar vita a quelle esperienze. In questo modo la carica innovativa e radicale che
realmente esse manifestavano (certo meno di quanto molti abbiano voluto vedervi)
è andata evaporando. Ciò ha significato che il quadro politico e
istituzionale, in particolare di centrosinistra, inizialmente spiazzato
dall’emergere di forme di aggregazione inedite e potenzialmente radicali, è
riuscito progressivamente a cooptare queste forze e a ricondurle all’ovile
della concertazione istituzionale. Col contributo delle burocrazie di movimento,
in cambio di un riconoscimento del loro peso politico concretizzatosi in una
manciata di posti nelle varie assemblee elettive.
Verso il 2006
La
prova del nove è data dal fatto che il quadro del dibattito attuale
all’interno di quel che rimane del movimento è tutto monopolizzato da
dinamiche di “piazzamento” dei vari gruppi e delle varie componenti in vista
delle elezioni politiche dell’anno prossimo, il tutto delimitato rigidamente
nel quadro dell’alternanza bipolare. L’unanimismo di facciata che rifuggiva
dal confronto democratico in nome di un presunto “metodo del consenso” si
scioglie come neve al sole nel momento in cui sono in gioco postazioni di
comando. Così Bertinotti due anni fa proclamava di essere d’accordo col
movimento a prescindere, e dietro a quel paravento trovava un alibi per non
esprimere una posizione autonoma nei social
forum, per non rompere l’unità si diceva; oggi, affronta con la massima
disinvoltura primarie in cui vi saranno due o tre candidature di forze del
movimento e l’unità viene bellamente archiviata come un arnese un po’
ingombrante da riesumare magari in tempi più adatti. Così anche gli altri leader,
tutti intenti nello sgomitamento per conquistarsi un posto al sole: Pecoraro
Scanio candidato dell’ala ambientalista, Casarini, sponsor di sacerdoti d’assalto da scagliare contro Bertinotti,
definito “servo degli Usa” (in una competizione volta a legittimare la leadership
di Prodi, che invece sarebbe – ne dobbiamo dedurre – uomo al di sopra delle
parti). I personaggi minori - da Giulietto Chiesa a Occhetto - che non possono
aspirare a un ruolo da protagonista, si preparano dietro le quinte a scavare la
propria nicchia nel mercato della politica. In questo quadro – viene da
chiedersi – dov’è finito il movimento in carne e ossa, quello che per due
anni ha riempito le piazze e innescato speranze di una nuova “democrazia dal
basso”? Semplice: o sta a guardare un po’ disorientato (magari anche un
po’ depresso) oppure fa da massa di manovra della solita politica
“dall’alto”.
Quali
prospettive?
Più che piangere sul latte versato o
rimembrare i bei tempi andati bisognerà chiedersi se è tutto finito. In realtà
credo che, come sempre, anche le sconfitte a volte possano sedimentare energie
carsiche pronte a riaffiorare quando le circostanze materiali lo rendano
possibile. In modo disarticolato già succede. La lotta contro la
privatizzazione dell’acqua in Campania mi sembra che rimetta in campo temi e
forze che in qualche modo vengono dall’esperienza di qualche anno fa. Così
altre situazioni sempre a livello locale. Ciò che manca è una generalizzazione
e un’unificazione di queste esperienze locali e quelle possono venire soltanto
da una circostanza materiale (così come avvenne allo scoppio della guerra) che
necessiterà tuttavia ancora una volta di profilo di classe definito e di una
chiara prospettiva politica, autonoma e antagonista, pena una seconda
cooptazione da parte del centrosinistra (dopo aver piazzato i “portavoce” di
turno in qualche scranno istituzionale). Il probabile avvento di un Prodi bis
potrebbe aiutare, frantumando le aspettative ancora forti in numerosi settori di
movimento nei confronti di un’Unione che, ingessata dalla camicia di forza
della governabilità, non avrà più spazio nemmeno per le (pseudo) sterzate a
sinistra alla Cofferati che Berlusconi al governo le ha consentito in questi
anni. Ma il problema di avere un soggetto politico credibile come scheletro e
punto di riferimento è e rimane comunque ineludibile. Su Rifondazione Comunista
pesa la maggiore responsabilità nel darvi soluzione.