Enron, Worldcom… il capitale nel suo labirinto

 

di Alberto Airoldi

 

 

In un divertente articolo, recentemente tradotto su ‘’Affari & Finanza’’, l’economista americano Paul Krugman spiega come funzionavano le varie truffe attuate dalle maggiori compagnie USA ricorrendo all’esempio di una gelateria. E’ un po’ come dare al gotha del capitale statunitense dei cioccolatai, uno sfottò impensabile solo qualche mese fa, quando finanzieri e manager godevano ancora di un’ammirazione pari a quella dei sacerdoti nell’antico Egitto. Ora la loro fama riposa in pace, assieme alla new economy, sotto le macerie di Enron, WorldCom e di altri colossi. 

I fallimenti spettacolari di quest’ultimo anno, tra cui annoveriamo il più grande della storia del capitalismo, non sono stati un fenomeno improvviso e imprevedibile.

 

 

L’11 settembre c’entra molto poco

 

Da anni i tentativi di sopperire a una forte crisi di accumulazione nell’economia reale hanno generato un mare di contraddizioni, tra le quali l’abnorme rigonfiamento che caratterizza i mercati finanziari. Rischi di crolli globali si sono avvertiti nel 1997 con la crisi del Sud est asiatico, nel 1998 con quella Russa e Brasiliana, e in seguito con la Turchia, l’Argentina e ancora il Brasile. Tuttavia a essere nell’occhio del ciclone sono proprio gli USA. Il crescente indebitamento delle imprese e le quotazioni troppo elevate delle azioni rendono fragilissima la finanza USA.

Il crack della Enron ha reso visibile a tutti su quali basi si reggesse il miracolo economico degli ultimi anni. Si tratta di un crack da 68 miliardi di dollari, più 800 milioni di fondi pensione dei dipendenti, più 5.000 licenziamenti. Uno dei ‘’trucchetti’’ usati dalla Enron era quello di contabilizzare tutti i profitti previsti per future e ipotetiche vendite nel bilancio dell’anno in corso. Ancora più disarmante la truffa della WorldCom, che contabilizzava le spese di gestione come investimenti. Il tutto serviva a fare apparire florida e dinamica l’azienda, gonfiandone così a dismisura il prezzo delle azioni.

Insomma, in poche parole, i geni della finanza, laureati nelle migliori università del mondo, falsificavano i bilanci di alcune delle maggiori multinazionali con trucchi degni di Totò e Peppino. E, inoltre, le più prestigiose agenzie di certificazione ne garantivano l’autenticità. Per dei marxisti non dovrebbe rappresentare una sorpresa il fatto che il capitalismo sia un sistema votato alla rapina, dotato di una razionalità assai limitata e di breve periodo. Solo dosi massicce e quotidiane di ideologia dominante sulla fine della storia, pappagallescamente riprese dalla sinistra, sempre pronta a riconoscere la forza e la razionalità, seppur nell’ingiustizia, del capitalismo, possono aver indotto molti a dimenticarsene. La cialtronaggine, però, non finiva qui: queste multinazionali godevano dell’appoggio determinante di vari ministri del governo USA e dello stesso presidente. Inoltre i loro manager, lautamente pagati con le stock options hanno fino all’ultimo speculato con esse, mettendosi poi in salvo dal crollo. Come dire: gli USA sono un Paese fondato sul conflitto di interessi, sulla frode legalizzata e certificata. Con buona pace dell’Ulivo e del suo patetico Cicciobello che invoca per l’Italia una normativa sul conflitto di interessi ‘’come quella degli USA, Paese di grande civiltà giuridica’’.

Questa estesissima rete di collusioni serviva a spacciare illusioni sulle prospettive di sviluppo delle aziende in questione. Tutti avevano da guadagnarci: i manager, che vedevano le proprie stock options rivalutarsi continuamente, le agenzie di certificazione, che ricevevano lauti compensi per certificare il falso, i politici (repubblicani e democratici), che ricevevano lauti finanziamenti per le loro campagne elettorali (e contraccambiavano con commesse pubbliche, privatizzazioni ad hoc, ecc.), gli speculatori, che si ritrovavano titoli dal valore in crescita continua. Questo meccanismo si completa con le truffaldine statistiche adottate dall’amministrazione Clinton, in base alle quali siamo stati illusi su una nuova età dell’oro negli USA. Oggi questa ubriacatura di massa sembra essere volta al termine, e forse a volgere al termine è pure l’epoca d’oro della speculazione finanziaria. Senza dubbio è finita l’illusione della new economy, l’idea che l’accumulazione di capitale potesse avvenire grazie alla borsa e grazie ai miracoli delle nuove tecnologie, fino a teorizzare un superamento del capitalismo e delle sue contraddizioni e crisi in favore di un modello in grado di garantire una crescita continua e armonica.

I crack di Enron e WorldCom hanno contagiato altre compagnie (per esempio i supermercati Kmart e Global Crossing) e hanno sprofondato nel discredito l’intero sistema (nessuno crede più alle certificazioni, tutti si immaginano profitti ampiamente gonfiati anche per le più grandi come la General Electric). Il disastro coinvolge anche i fondi pensione: i fondi 401K della Enron sono evaporati, portando con sé non solo i risparmi dei dipendenti Enron, ma anche parte di quelli di altri fondi pensione (come quello dei lavoratori pubblici della California, il più grande del mondo).

 

 

Borsa e capitale speculativo

 

Per comprendere la portata di quel che sta accadendo bisogna fare una rapida digressione su che cosa si intende per speculazione finanziaria. I marxisti hanno spesso colpevolmente ignorato le evoluzioni del capitale finanziario, per un pregiudizio ‘’produttivista’’, del tutto immotivato, già che lo stesso Lenin chiarisce la stretta connessione tra capitale produttivo e capitale speculativo. Se masse enormi di capitale hanno preso negli ultimi anni la via della speculazione, questo è dovuto alle crescenti difficoltà incontrate nel processo di valorizzazione del capitale (e cioè nella produzione di merci). La speculazione non crea profitti, ma gioca su quote future di plusvalore atteso. La borsa trasferisce profitti da un settore all’altro, ma non crea profitti aggiuntivi: essa può crescere solo sulla base di una crescita dei profitti nei settori produttivi, e quindi solo se aumenta il saggio di sfruttamento della forza lavoro (intensificazione degli orari, incremento di produttività grazie alle nuove tecnologie, ecc.). Se, però, si crea la convinzione che i profitti vi sono, e che continueranno a crescere, ecco che masse crescenti di capitali, incapaci di valorizzarsi nel processo produttivo, si getteranno sul mercato azionario. E’, per esempio, quello che è successo con la cosiddetta new economy, in particolare coi titoli tecnologici. Oggi si scopre che gran parte di quegli enormi profitti era inesistente e che i settori della microelettronica e delle TLC versano in una grave condizione di ‘’eccesso di capacità produttiva’’ (in termini marxisti sovrapproduzione). Improvvisamente titoli gonfiatisi a dismisura sono diventati poco più che spazzatura, cancellando miliardi che erano sì solo sulla carta, ma che venivano considerati come realmente esistenti.

Qualcuno crede che il crollo degli indici azionari stia sgonfiando la cosiddetta bolla e riconducendo la borsa a valori reali. La realtà è ben diversa: la recessione ha drasticamente ridotto gli utili delle imprese e il rapporto tra prezzi e utili delle azioni è quindi ulteriormente salito, toccando il massimo storico. Questo vuol dire, in parole povere, che mai è stato così lungo il tempo da attendere per essere (teoricamente) ripagati da un investimento effettuato. Gli speculatori non acquistano le azioni per i loro rendimenti, ma per rivenderle al momento opportuno (spesso quasi istantaneamente) e realizzare la differenza di prezzo. Questo meccanismo funziona quando una massa crescente di capitali si getta nella speculazione spingendo verso l’alto i prezzi dei titoli. In questa situazione, che ha caratterizzato l’ultimo decennio, sono proliferate varie forme di contratti (futures, options), quali strumenti per cercare di minimizzare eventuali perdite e di massimizzare i profitti speculativi.

Resta da comprendere quale rapporto ci può essere tra le crisi finanziarie e quelle reali. Secondo Marx le crisi finanziarie sono determinate da una cessazione improvvisa del credito, che si era precedentemente gonfiato a dismisura, causata dalla caduta nel lungo periodo del saggio di profitto. Si verrebbe così a interrompere la catena dei pagamenti delle scadenze venute a maturazione.

Oggi negli USA i debiti hanno raggiunto i 5.000 miliardi di dollari tra obbligazioni e prestiti bancari. Un piccolo incremento dei tassi d’interesse delle obbligazioni metterebbe a repentaglio la sopravvivenza di molte aziende. Ad affossare la Kmart, per esempio, è stato il declassamento, da parte delle agenzie di rating, dei propri titoli. Una catena di fallimenti, ovviamente, finirebbe per coinvolgere il sistema bancario. Il tutto insisterebbe su una crisi di sovrapproduzione che nel corso del 2001 ha, per esempio, dimezzato il flusso degli investimenti diretti nel mondo. Una carenza generalizzata di liquidità non può che affossare ulteriormente gli investimenti, aggravando la situazione di produzione e consumi e moltiplicando e i fallimenti. Si tenga presente tra l’altro che i tassi d’interesse negli USA sono al livello minimo storico, in termini reali probabilmente (lo scetticismo sulle statistiche USA è ormai d’obbligo) sono addirittura negativi, e quindi anche un’ulteriore espansione della liquidità appare assai problematica.

Tutto questo non significa che lo sbocco necessario di questa situazione sia un crack globale, ma che i potenziali punti di rottura tendono a moltiplicarsi. Intanto della new economy non parla più nessuno, e tantomeno del ‘’modello americano’’. Questa situazione sarebbe letale per altri Paesi, ma gli USA fanno a sé, e hanno senza dubbio molte più risorse degli altri per cercare una via d’uscita dalla crisi. Sciaguratamente una delle vie più sperimentate cui ricorrono in questi frangenti si chiama guerra.