La
lotta dei palestinesi
Testimonianza di ritorno dalla Palestina
di Letizia Mancusi
Sono partita per la Palestina nella settimana di Pasqua,
sono partita per placare il senso di impotenza che sentivo rispetto al dramma di
questo popolo, sono partita per testimoniare là la mia solidarietà, sono
partita per capire e per vedere con i miei occhi cosa stava succedendo in quella
terra.
E’ bastato arrivare all’aeroporto di Tel Aviv per
percepire con chiarezza dai volti duri e senza apparenti emozioni dei numerosi
soldati israeliani, di essere entrati in un paese in guerra.
L’ostilità ostentata con cui siamo stati trattati,
sequestrati per otto ore in un androne spoglio dell’aeroporto, ci hanno anche
fatto immediatamente comprendere quanto una volta entrati in Palestina sarebbe
stato difficile muoverci.
La prima cosa di cui ha paura Israele è che il mondo
prenda coscienza della realtà, realtà ben diversa da quella che la potente
propaganda sionista riesce capillarmente ad inculcare nelle menti e nelle
coscienze dell’occidente.
E la realtà è ben peggiore di quanto si possa
immaginare, indipendentemente dal precipitare degli avvenimenti di quei giorni
che hanno visto Israele cogliere al volo l’occasione di un attentato
particolarmente sanguinoso per accelerare con la guerra il processo di totale
annessione della Palestina e di annientamento del popolo palestinese.
La verità è negli occhi delle persone che incontri,
nelle mani che stringi, nelle parole mezze in inglese e mezze in arabo che
ascolti, negli edifici distrutti.
Distruzioni non casuali ma sistematiche e razionali, con
una volontà ben precisa, quella di cancellare la storia, la vita di un popolo,
di annientarne l’identità, di distruggere il senso di appartenenza a quella
terra.
E allora si abbattono Università, Conservatori, scuole,
anagrafi cittadine, centri culturali.
Si distruggono gli edifici storici come a Nablus dove è
stato completamente distrutto il centro storico da poco restaurato, compreso un
magnifico bagno turco (il più antico della regione).
Con la scusa del terrorismo si incarcerano i giovani, gli
uomini in attività, si uccidono senza pietà donne e bambini.
Si umilia sistematicamente un intero popolo sottoponendo
tutti indistintamente alla vergogna dei check point, decine, disseminati dentro
e fuori le città palestinesi, spesso a pochissima distanza uno dall’altro,
dove soldati arroganti, spesso giovanissimi, decidono chi può e chi non può
passare, picchiano, spintonano, assolutamente incuranti della nostra presenza.
Si distrugge completamente l’economia palestinese,
un’economia ancora basata sostanzialmente su agricoltura e pastorizia.
Il viaggio da
Gerusalemme ad Hebron, intrapreso contravvenendo le disposizioni
dell’organizzazione insieme ad altre tre compagne, è stato rispetto a questo
problema esemplificativo.
L’intero territorio della Cisgiordania è interrotto e
spezzettato da strisce di asfalto molto simili ad autostrade, le famigerate by
pass road destinate a collegare tra loro e con Israele le centinaia di colonie
presenti sul territorio, strade vietate ai palestinesi che devono fare giri
lunghissimi per raggiungere i campi o i villaggi vicini, magari situati in linea
d’aria poche centinaia di metri.
Le colline sono state desertificate, su quasi tutte sorge
sulla cima la colonia israeliana, e tutt’intorno gli ulivi secolari sono stati
a migliaia sradicati, così come i vigneti di cui si intravede appena lo
scheletro di quelli che dovevano essere i supporti delle piante.
Per chilometri non si vedono altro che decine e decine di
colonie, molto più simili a fortificazioni che a agglomerati residenziali,
circondate da filo spinato e presidiate da postazioni militari tutte
rigorosamente fornite di mezzi pesanti e torrette con mitragliatrici spianate.
Hebron è una città della Cisgiordania abitata da
centoventimila palestinesi e da circa 450 coloni (nessuno ne conosce l’esatto
numero) sistemati all’interno della città, la parte più antica e
significativa, sotto protezione dell’esercito israeliano; l’accordo su
Hebron che risale agli inizi del 1997, assegna a questi, che non superano quindi
lo 0,3% dell’intera popolazione, il 20% del territorio cittadino contro il
restante assegnato ai palestinesi.
Si entra e si esce dalla città solo attraverso un check
point esclusivamente pedonale e da lì passano anche tutti i rifornimenti.
All’interno della città la situazione è drammatica, la
disoccupazione è quasi totale, l’attività agricola e di pastorizia
totalmente impedita (le poche pecore e capre rimaste circolano per le strade dei
sobborghi della città cibandosi di quella poca erba che trovano) e con
l’inizio della seconda intifada l’atra umiliante occupazione: manovalanza
sottocosto e a giornata nella costruzione delle numerose colonie che circondano
l’intera città, è stata totalmente interrotta.
Le carenze alimentari e sanitarie sono evidenti, basta guardare i nugoli
di bambini che escono dalle case.
E allora si chiede alle persone con cui riesci a parlare
se queste condizioni drammatiche sono contingenti, dovute al precipitare degli
avvenimenti, e scopri invece che già dal 1993 dopo la firma dei famigerati
accordi di Oslo, al di là una iniziale euforia, la situazione non certo rosea
è andata rapidamente peggiorando.
Il dramma del popolo palestinese rappresenta
l’esemplificazione, scomoda a molta sedicente sinistra e a parte del
movimento, del persistere di un feroce imperialismo e colonialismo.
La lotta di liberazione di questo popolo, che passa
attraverso una resistenza che dura ormai da oltre ottanta anni, rappresenta il
simbolo della lotta tra giustizia e ingiustizia, tra oppressi ed oppressori.
Una lotta di liberazione dimenticata negli anni novanta e
che non riesce ad assumere un ruolo
centrale nella discussione e nella elaborazione politica di tutta la sinistra,
compreso il PRC.
“Due popoli due Stati” è il dito dietro il quale si
nascondono tutti, dai DS a Rifondazione ai cosiddetti “Disobbedienti” alle
associazioni pacifiste sia laiche che confessionali, è uno slogan talmente
povero di implicazioni che è “buono” per tutti anche per Berlusconi. E’
un modo come un altro per non assumersi la responsabilità di leggere
profondamente gli avvenimenti e tentare di dare uno sbocco politico plausibile,
è un atteggiamento sostanzialmente equidistante, e come grida E.W. Said quando
le due parti in gioco non possono contare sulle stesse forze, trattarle da pari
equivale a schierarsi contro il più debole.
Ritengo sia necessario riflettere sulle disastrose
conseguenze che la scelta del negoziato, da Oslo agli ultimi tentativi di
accordo con il governo Sharon, ha portato sia alla lotta di liberazione che alle
condizioni materiali di vita dei palestinesi nei territori occupati.
Le ambigue e fumose risoluzioni firmate da Arafat
hanno permesso ad Israele non di indebolire ma di rafforzare le proprie
posizioni nei territori occupati mentre la propaganda sionista tacitava il mondo
convincendo tutti che la Palestina si avviava
verso una pace giusta.
E’ indispensabile porci l’obiettivo politico di
ricostruire attraverso una operazione di informazione capillare e senza timori
di accuse di antisemitismo una coscienza diffusa e consapevole di appoggio e
solidarietà con il popolo palestinese.
Una operazione che deve partire da una rigorosa lettura
degli avvenimenti storici, sappiamo
che già a partire dal 1897 il movimento sionista si è posto l’obiettivo,
funzionale all’imperialismo occidentale nell’area, di liberare la Palestina
dei suoi abitanti arabi con il mito di “una terra senza popolo per un popolo
senza terra”. Sappiamo che la guerra combattuta nel 1948 dalle forze sioniste
ha forzatamente cacciato oltre 700.000 palestinesi dalla propria terra, sappiamo
che la guerra del 1967 ha creato altri 300.00 profughi e come dichiarato dal
falco Begin: “non era così necessaria ad Israele se si esclude il desiderio
di aggiungere altra terra al proprio territorio”.
Sappiamo con certezza che Israele non ha mai
effettivamente concepito la possibilità di una reale autodeterminazione del
popolo palestinese.
Sappiamo che in Cisgiordania e a Gaza ma anche per gli
arabi israeliani vige nei fatti un sistema di apartheid che niente ha da
invidiare a quello che era in vigore in Sud Africa.
Quindi a questo punto si rende necessario uno sforzo da
parte di tutti noi nel ristabilire la verità storica e contingente del dramma
palestinese come base di partenza che concretamente possa legare a livello
nazionale e internazionale tutti coloro che si oppongono realmente
all’imperialismo, al neocolonialismo e al razzismo con l’obiettivo chiaro di
un reale cambiamento e per la costruzione di una società socialista.