Le
ragioni imperialiste della guerra all’Irak
di Matt Siegfried (*)
Il governo degli Stati Uniti sta preparando una nuova
guerra in Iraq. Una sezione dell’Amministrazione Bush, che riflette una parte
della classe dominante americana, da tempo sta perseguendo un assalto all’Iraq
con lo scopo di rovesciare il regime di Saddam Hussein. Non è una sorpresa per
nessuno sapere che questo gruppo è strettamente collegato all’industria
petrolifera, e, in misura minore, a quella bellica. Il Vice-Presidente ed ex
Segretario della Difesa e numero uno della Halliburton Corporation, Dick Cheney,
è il principale rappresentante di questi interessi dell’amministrazione.
Halliburton, con un valore nominale di mercato di oltre 18 miliardi di dollari,
è la più grande compagnia di fornitura petrolifera del mondo. E’ anche
divenuta uno dei principali appaltatori di costruzioni per l’esercito USA
dall’avvento dell’amministrazione Bush. Se Chevron-Texaco (che chiamò
un’imbarcazione come il Consigliere di Bush alla Sicurezza Nazionale,
Condoleeza Rice) ha bisogno di zone in Nigeria o di nuovi pozzi petroliferi
nell’Artico, Halliburton provvede. Le piste di lancio per i bombardamenti
americani sulle feste nuziali in Afghanistan e il campo di prigionia nella Cuba
occupata sono costruiti da Halliburton.
Tutto questo non è un complotto, né una coincidenza- è
il modo in cui funziona il capitalismo americano.
Il governo giudica suo compito primario difendere ed
espandere gli interessi americani costituiti.
Negli USA c’è una connessione costante tra governo ed
affari. Questa, naturalmente, non è la realtà dei soli Stati Uniti, ma di
tutti i governi capitalisti del mondo.
Utilizzando lo stato d’animo bellicoso generato dal
clima politico post-11 settembre, l’ala destra americana ha profuso uno sforzo
concentrato per convincere il governo a lanciare una nuova guerra del Golfo. I
falchi sono stati in ascesa sin dall’inizio della primavera, sebbene non senza
contraddizioni e una opposizione reale da parte della classe dominante, del
governo e dell’esercito, che temono alcune delle conseguenze di una nuova
guerra. Queste conseguenze includono la prospettiva di un aumento del prezzo del
petrolio e la pressione inflazionistica che si produrrebbe sulla già agitata
economia; l’ulteriore destabilizzazione di una regione già in subbuglio per
la “guerra al terrorismo”, le continue sanzioni all’Iraq, e il patronato
USA su Israele; e l’aumento eccessivo dell’impiego di risorse militari
“volontarie”, solo per nominarne alcune.
Ci sono però dei distinguo tra le forze che sostengono
una nuova guerra. Alcune di queste vogliono vendicare il proprio fallimento del
tentativo di rovesciare Saddam Hussein nell’ultima guerra, e la sua permanenza
al potere dopo tutti gli attentati dell’ultima decade nel tentativo di
isolarlo e di rimpiazzarlo. Questo assomiglia e un po’ alla faccia rossa per
la rabbia dello scolaro prepotente i cui sforzi d’intimidazione vadano a
vuoto. Egli non può restare il prepotente se gli altri rifiutano di subire la
sua prepotenza.
Un’altra motivazione è che gli Stati Uniti hanno un
tremendo bisogno di esibire la loro “guerra al terrorismo”. Il Mullah Omar e
Osama bin Laden si sono rifiutati, fino ad ora, di offrire i propri cadaveri per
una foto-trofeo. Anche se gli imperialisti hanno chiaramente raggiunto molti dei
loro obiettivi in Afghanistan, la guerra “tutto cerca e niente trova” sembra
essersi affievolita senza aver raggiunto molti dei grandi propositi che erano
stati portati in suo favore. Una guerra in Iraq devierebbe molte accuse dei
politici americani di estrema destra e, insieme, di alcuni democratici, di
essere “soft” con Al Qaeda e con l’Asse del Male. Quando gli altri nemici
si mostrano troppo sfuggenti, la stella nefasta di Saddam tende a risorgere
nella psiche del governo statunitense. Essi sembrano appassire senza un nemico
da paragonare a Hitler.
Un’altra motivazione è il petrolio, e non solamente il
petrolio entro i confini iracheni. Mentre gli scopi strettamente economici sono
a volte esposti semplicisticamente come la motivazione primaria della politica
bellica americana, e tutti i sostenitori della guerra hanno una combinazione di
motivi per perorare la loro causa, sarebbe folle sottostimare la forza degli
interessi petroliferi nel regolare la politica statunitense. La competizione tra
le potenze imperialiste per l’accesso e il controllo del petrolio è aumentata
dopo il collasso dell’Unione Sovietica. Una ragione di ciò è che le risorse
precedentemente off-limits dell’ex Unione Sovietica si sono aperte, portando
ad un nuovo “Grande Gioco” per le ricchezze degli stati dell’Asia centrale
(che ora convenientemente ospitano basi militari USA per la guerra contro il
vicino Afghanistan) e del mar Caspio. Perché lasciare tutto quel petrolio ai
russi ed ai centro-asiatici? La privatizzazione delle vecchie compagnie
energetiche di stato è una potenziale manna di molti miliardi di dollari per
gli interessi petroliferi americani, a patto che le nuove compagnie facciano
affari con quelle americane ed incrementino le agevolazioni verso l’Halliburton
Corporation.
Un’altra ragione è che il vecchio equilibrio tra le
potenze imperialiste e la comune minaccia sovietica si è rotto, il che
significa che ogni potenza è più libera di perseguire i propri interessi
petroliferi, compreso l’accesso diretto al petrolio. Questa è la reale
spiegazione dell’opposizione francese alle sanzioni all’Iraq. Mentre molti
paesi comprano petrolio direttamente dalla Compagnia Petrolchimica Irachena (IPC,
nazionalizzata nel 1972), la Francia è l’unica potenza occidentale che ha una
parziale proprietà sull’IPC. Le sanzioni le impediscono di sfruttare appieno
questa relazione.
Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, con quattro delle
cinque maggiori compagnie petrolifere del mondo, sono state tagliate fuori
dall’investimento nell’IPC e quindi fuori dal controllo di oltre il 10% del
petrolio mondiale, che è prodotto dall’Iraq. E’ davvero sorprendente allora
che questi due Paesi siano i più risoluti nel voler continuare nelle sanzioni
ed ora nel volere la guerra, noncuranti delle conseguenze per la popolazione
irachena?
Giappone e Germania praticamente non hanno risorse
petrolifere interne, così la seconda e la terza economia del mondo devono
acquisire il loro varco nel mercato petrolifero. Mentre la ricchezza garantisce
loro l’accesso, questi due Paesi sono tuttora militarmente confinati nei
propri territori nazionali come conseguenza della seconda guerra mondiale.
Pertanto restano legati agli Stati Uniti per la protezione del loro accesso al
petrolio. Per gli Stati Uniti, il controllo del petrolio significa potere sui
propri amici, che sono anche i propri rivali. Nella più grande bolletta del gas
della storia gli Stati Uniti hanno fatto sborsare a Germania e Giappone decine
di miliardi di dollari per il proprio petrolio del Kuwait nell’ultima guerra
del Golfo. La recessione e i problemi politici in casa rendono Germania e
Giappone molto meno volenterosi di ripetere una simile spesa.
I più mercenari guerrafondai nel governo USA considerano
il controllo sul petrolio come il punto di partenza della loro politica, più
che il regime di Saddam Hussein. Quando guardano le mappe mondiali vedono
risorse e zone d’influenza, piuttosto che paesi e popoli. Con tutto quello che
è accaduto nell’ultima decade considerano una urgente necessità rimodellare
parti del mondo secondo i propri interessi, in virtù dell’essere l’unica
super-potenza, pressoché obbligata e consacrata a fare questo.
Questo atteggiamento non è una novità
dell’amministrazione Bush. Gli interventi “umanitari”
dell’amministrazione Clinton erano fondati sullo stessa ottica arrogante, che
considera il Medio-Oriente troppo importante per essere lasciato alla sua gente.
Lo scopo di questo gruppo è di imporre una Pax americana alla regione. I costi
e le conseguenze di una tale follia brutale possono essere solamente immaginati,
ma la distruzione che Israele infligge ai palestinesi è un buon punto di
partenza per farsene un’idea.
Il petrolio iracheno è una parte della motivazione. Il
petrolio in generale è la motivazione più grande. Ma la radice
dell’attitudine cow-boy
dell’attuale governo statunitense è la natura del capitalismo e
dell’imperialismo in generale, chiunque sia a praticarli. Cioè,
l’imposizione violenta degli interessi di pochi, i capi delle “grandi
potenze” imperialiste, sulla grande maggioranza della popolazione mondiale. Le
vite disgraziate dei molti sottostanno al profitto ed al potere dei pochi.
Noi, la classe lavoratrice del mondo, non siamo
semplicemente “masse sfruttate” da essere compatite. Siamo una potenza che,
combattendo per i nostri propri interessi, combatte per la liberazione
dell’umanità.
La crisi sta attualmente scuotendo i continenti come
conseguenza degli ultimi vent’anni di crociata neo-liberista. Da Jakarta a
Buenos Aires, da Johannesburg a Jenin, da Seattle a Genova migliaia di persone
hanno marciato sotto la bandiera “ un altro mondo è possibile”. E’
arrivato il momento di dare un nome a questo mondo: socialismo,
e di fronte ad una nuova guerra americana bisogna iniziare, con urgenza, a
battersi per esso. Battersi cioè per l’utilizzo comune, razionale ed equo di
ciò di cui la natura, limitatamente, ha dotato il pianeta: ecco cosa significa
battersi per il socialismo.
I lavoratori, le “masse sfruttate” esistono anche
negli Stati Uniti, sebbene in modo solitamente più silenzioso che nel resto del
mondo. I lavoratori americani devono entrare in questa lotta con le proprie voci
piuttosto che con quelle di altri che parlino al posto loro. Quello che gli
Stati Uniti hanno deciso circa la guerra non la rende inevitabile, e più
combattivi saremo, più grande sarà la chance di evitarla. Dovessero aver
successo nel lanciare la loro guerra, noi ci opporremo. Se trionferanno nei loro
piani, noi dimostreremo la perfidia della loro vittoria e useremo le lezioni
imparate per resistere alla prossima guerra, che siamo sicuri arriverà. Le
guerre sono nella natura dell’imperialismo, dobbiamo sottolineare questa realtà:
per sconfiggere la guerra è necessario
sconfiggere il capitalismo.
(20 agosto 2002)
(*) l’autore è dirigente della Trotskyst League degli
Stati Uniti, che partecipa al Movimento per la Rifondazione della Quarta
Internazionale. Questo articolo è stato scritto a metà agosto, prima della
ulteriore precipitazione della guerra.
(traduzione di Enrica Franco e Davide Margiotta)