Verso
il Forum sociale europeo di Firenze -
di
Marco Veruggio
La
ripresa della stagione politica non pone interrogativi soltanto rispetto alle
prospettive del movimento sindacale e della lotta contro il governo ma interroga
anche il movimento antiglobalizzazione e la sua capacità, finora piuttosto
scarsa, di inserirsi in quelle lotte non soltanto scendendo in piazza a fianco
dei lavoratori ma assumendo la centralità di quello scontro nella prospettiva
della costruzione di un “altro mondo possibile”.
L’esito
positivo e per nulla scontato delle giornate genovesi dello scorso luglio
potrebbe costituire un buon auspicio. 100.000 persone sono sfilate in corteo
nell’anniversario del G8 di Genova e dell’assassinio di Carlo Giuliani,
centinaia di persone hanno assistito ai Forum tematici di discussione e
all’assemblea conclusiva. Ma soprattutto si sono registrati alcuni avanzamenti
non eclatanti ma significativi. Mi riferisco intanto alla partecipazione della
Cgil, che non può essere ridotta a una semplice trovata tattica di Cofferati in
cerca di alleati per il futuro, visti modi in cui quella partecipazione si è
espressa. L’indicazione della Cgil era infatti quella che gli iscritti non
partecipassero al corteo del 20 luglio ma attendessero il suo arrivo nella
piazza conclusiva, ma ciò che abbiamo visto è stata una grande quantità di
striscioni della Cgil (e non solo quelli della Fiom e di Lavoro e Società)
sfilare lungo le strade di Genova. Evidentemente molti lavoratori cominciano ad
avere coscienza del fatto che gli attacchi del Governo Berlusconi al mondo del
lavoro e allo stesso sindacato sono figli della globalizzazione capitalistica.
Altro fatto degno di nota è
stata la contestazione di Luciano Violante, fischiato mentre portava una corona
di fiori nel luogo dove fu ucciso Carlo Giuliani. Una battuta d’arresto per
chi cercava di recuperare terreno dopo la precipitosa ritirata del 21 luglio
2001 (almeno per l’ala liberal dei DS, perché Cofferati veniva invece
appaludito calorosamente).
Infine un piccolo ma non
secondario particolare. Il corteo dei 100.000 sfilava con la protezione di un
servizio d’ordine voluto e organizzato da tutte le principali componenti
politiche presenti al suo interno. Pensare che solo un anno prima bastava
nominare l’espressione “servizio d’ordine” per essere accusati di voler
militarizzare il movimento e chiuderlo nel vicolo cieco della violenza “come
negli anni ’70” (ma siamo proprio sicuri che negli anni ’70 il terrorismo
sia stato provocato dai servizi d’ordine?).
Ovviamente queste luci non
cancellano le tante ombre incombenti sulla salute del movimento. Ombre che hanno
spinto molti a parlare di “crisi”, tra i no global come tra diversi
gongolanti osservatori della stampa borghese. In effetti la struttura che si era
sedimentata dopo il G8 di Genova, l’ex Genoa Social Forum diventato Forum
Sociale Italiano e le sue appendici locali, dopo aver fatto un po’ di strada
sull’onda dell’entusiasmo e della reazione antirepressiva, ha cominciato a
subire gli effetti di una serie di spinte centrifughe. La mancanza di una
discussione politica vera da una parte, il rifiuto di un’organizzazione
interna realmente democratica e rappresentativa dall’altra, sono state la
prevedibile causa dell’inizio di un processo di disgregazione, per cui ormai
da molti mesi in tantissime realtà il Forum Sociale è diventato una semplice
etichetta (in alcuni casi lo è sempre stato) o un contenitore di associazioni
che si dividono e si ricompongono a seconda che riescano di volta in volta a
trovare o meno un accordo sulla singola iniziativa. Così si cominciano a
perdere alcuni pezzi di provenienza cattolica, qualcuno comincia a far capire
che l’esperienza dei Forum sociali deve essere superata, si va avanti
approfittando della boccata d’ossigeno che la manifestazione dei 100.000 a
luglio ha insperatamente fornito e barcollando senza troppe certezze verso il
Forum Europeo di novembre.
Da questo punto di vista oggi
cogliamo anche i frutti della politica di chi, come Bertinotti e il gruppo
dirigente del PRC, ha teorizzato in questi mesi la necessità di contaminarsi,
di saper mettere in gioco la propria identità e sperimentare nuove
forme organizzative, fino al punto di dichiararsi preventivamente d’accordo
con le decisioni del movimento in nome della difesa della sua unità. Il
risultato è sotto i nostri occhi. L’unità non c’è più e un
raggruppamento solido di forze radicali e classiste all’interno del movimento,
quello che non abbiamo voluto costruire attorno a Rifondazione perché
l’egemonia è peccato capitale, non c’è ancora.
La crisi non tocca soltanto gli
aspetti politico-organizzativi del movimento ma anche i suoi stessi dogmi. Non
c’è una sola delle tesi riformiste che in un anno hanno echeggiato in ogni
riunione di movimento che negli ultimi mesi non abbia subito una radicale
smentita dall’evoluzione materiale del mercato mondiale.
La recessione ha colpito gli
Stati Uniti, cioè la cosiddetta “locomotiva” dell’economia mondiale e
rimbalza pericolosamente verso l’Europa. La brusca revisione delle previsioni
di crescita fatta dal FMI subito dopo Ferragosto rappresenta la presa di
coscienza del capitalismo mondiale che l’idea di una facile e relativamente
indolore uscita dagli inferi è naufragata clamorosamente. La Germania è già
in recessione. Il fatto che Usa e Germania siano i principali mercati di
esportazione per l’Italia non fanno ben sperare riguardo alla nostra
situazione nazionale (del resto la produzione industriale sembrerebbe già
essere in caduta libera). Insomma se ancora qualcuno avesse dei dubbi, la
possibilità di aprire una stagione di riformismo socialdemocratico, il che in
termini economici ha sempre significato chiedere allo Stato di aumentare la
spesa sociale, non è all’ordine del giorno. Dopo il crollo delle borse e i
crack a catena da Enron in poi rivendicare la Tobin Tax, cioè chiedere al
capitale finanziario di tagliare i propri già asfittici dividendi è come
chiedere a Saddam Hussein di sciogliere l’esercito iracheno e mandare in
licenza premio la guardia presidenziale
Il rilancio dell’intervento
pubblico nell’economia (vedi le commesse militari, i sussidi all’agricoltura
e alle esportazioni, la rottamazione delle auto negli Usa) come la messa in
discussione del Patto di Stabilità in Europa tolgono la terra sotto i piedi a
chi sosteneva che la sovranità statale era ormai offuscata dal potere delle
multinazionali. E del resto una recente indagine dell’Unctad ci informa che
delle prime 100 entità economiche nel mondo (in termini di valore aggiunto) le
multinazionali sono soltanto 29, la prima delle quali, la Exxon Mobil, si trova
in quarantacinquesima posizione subito davanti al… Pakistan. Le prime 50
multinazionali nel mondo inoltre oggi contribuiscono al 2,8% del PIL mondiale,
cioè meno di 10 anni fa.
E a proposito della teoria
dell’Impero mondiale dominato dagli Usa? Sembra che l’Impero sia messo
abbastanza male negli ultimi mesi se i suoi deboli feudatari europei gli negano
l’intervento in Iraq, se il dollaro scivola pericolosamente sotto la parità
con l’Euro, se i petrodollari sauditi si spostano dai forzieri oltreatlantico
al Veccho continente, se, infine, Bush è costretto a lanciare la guerra delle
tariffe, per difendere il mercato interno americano dalle esportazioni europee.
Infine la crisi mondiale investe
i paesi dell’America Latina rovesciando anche lì alcuni altarini. Il profeta
del bilancio partecipato, il brasiliano Lula, fa metà della sua campagna
elettorale cercando di rassicurare il FMI (cioè il nemico se non sbaglio) sulle
sue buone intenzioni in caso di vittoria. In particolare sul fatto che non
allargherà i cordoni della borsa dello Stato (appunto!) e che non parlerà più
di rinegoziare il debito estero del Brasile. Per dare un segno tangibile di
buona volontà i sceglie come candidato vicepresidente un industriale di destra!
In Argentina invece milioni di
lavoratori scendono in piazza chiedendo l’azzeramento unilaterale del debito
estero, l’estromissione dei funzionari del FMI, l’esproprio delle banche e
delle aziende che licenziano. Semplice radicalismo verbale? Valentino
Castronuovo scrive sul “Sole 24 Ore” dell’11 agosto scorso – invocando
un intervento europeo per tamponare la crisi economica in Sudamerica, che sennò
“c’è da temere che la crisi si propaghi prima o poi, per una catena di
effetti indotti, ben oltre le frontiere dell’America Latina; e che
all’interno di alcuni paesi sudamericani si radicalizzino le tensioni e i
conflitti sociali: ciò che finirebbe per aprire la strada o a un ritorno di
scena dei militari o all’irruzione di movimenti rivoluzionari di estrema
sinistra.”
Insomma ci sono tutti gli
ingredienti e le condizioni per rivedere una serie di convinzioni non più
incrollabili e proprio questo dovrebbe essere il compito dei rivoluzionari in
vista di una partecipazione al prossimo Forum europeo di Firenze. Costruire un
raggruppamento anticapitalista intorno al mondo del sindacalismo di classe e ai
settori giovanili più radicali, a partire da un bilancio critico del periodo
che ci separa dalle manifestazioni genovesi del 2001, oggi diventa ancor più
necessario, ma tutto sommato anche più facile.