Dove
va il Prc?
di Ruggero Mantovani
L’appello contro l’accordo
con l’Ulivo e la richiesta di un congresso straordinario, non è dunque una
questione posta da una parte del Prc ad un’altra, né tantomeno una campagna
tattica della sinistra del Prc.
La richiesta di sancire
democraticamente il rifiuto di un accordo programmatico col centrosinistra,
attiene più profondamente alle stesse radici della Rifondazione Comunista, alla
sua autonomia programmatica, alla sua indipendenza di classe dalle forza della
borghesia liberale.
Attiene in definitiva al futuro
di milioni di lavoratori e alla necessità di costruire un’opposizione
radicale alle politiche liberiste, già ampiamente sperimentate durante i
governi del centrosinistra, di cui il "pacchetto Treu", la
Turco-Napolitano in materia d’immigrazione e le finanziarie di “lacrime e
sangue” ne sono state l’eloquente traduzione pratica.
La scelta di rinegoziare con
l’Ulivo un accordo programmatico che porterebbe il Prc, per la prima volta
nella sua storia, ad entrare con propri ministri in un governo borghese, mina
profondamente le ragioni stesse della Rifondazione Comunista e la sua funzione
di rappresentanza politica e sociale delle masse popolari. D’altronde la
nascita del Prc non è stata un fatto artificioso, né tantomeno una simbolica
autoproclamazione di forze minoritarie. La necessita di rifondare un partito
comunista era ed è iscritta nella condizione di classe di milioni di lavoratori
e disoccupati, e nella necessità di costruire quel soggetto politico che faccia
coincidere l’emancipazione delle masse popolari con l’alternativa
socialista.
Di conseguenza la rifondazione
comunista per i suoi compiti e per i suoi obiettivi storici non è paragonabile
alla nascita di nessun altro partito: essa nasce dalle viscere delle classi
subalterne e a queste lega tutta la sua sorte, porta l’impronta incancellabile
della classe da cui è nata e in definitiva la sua origine ne predetermina il
suo ruolo e ne guida tutta la sua storia.
L’appello contro l’accordo
tra Prc e Ulivo per le prossime elezione del 2006 riflette in sé una questione
fondamentale: una scelta così grave, da un versante di classe, non può essere
decisa dall’apparato dirigente ma dall’intero corpo del partito con un
congresso straordinario, proprio perché il congresso non è appuntamento routinario,
né uno strumento esclusivamente organizzativo, ma segna viceversa il momento più
significativo della costruzione della linea politica e del programma generale
del nostro partito.
Ma allora perché il gruppo dirigente maggioritario
rifiuta categoricamente la richiesta del congresso, che permetterebbe ad ogni
iscritto del nostro partito di poter pronunciarsi sulla ipotesi dell’entrata
nel 2006 in un governo con l’Ulivo?
Un confronto congressuale richiederebbe un bilancio di
verità sulla linea politica perseguita fino ad oggi, costantemente evitato
poiché renderebbe chiaro che l’enfatica proclamazione della svolta a sinistra
del V congresso, che prevedeva la rottura con il centro liberale e sentenziava
il fallimento strategico del centrosinistra, strada facendo in questi mesi ha
mutato direzione facendo svoltare decisamente a destra il partito.
Dopo un anno dal V congresso se tutte le questioni di
fondo (prospettiva politica, natura delle categorie analitiche sui conflitti e
sulle politiche capitalistiche, rapporti con il movimento), tenevano
sott’acqua la ricomposizione negoziale con l’Ulivo, oggi
quest’accelerazione è un fatto oggettivo, centrale persino nel dibattito e
nello scenario politico. Un’accelerazione del rapporto negoziale che in questi
mesi è divenuta irrefrenabile. Ricordiamone le tappe.
Nei primi mesi del 2002 dal
definire gli scioperi della CGIL “sciopericchi”, in nome
dell’autosufficienza del “movimento dei movimenti” si proclamava Cofferati
“l’uomo della possibile vittoria”, malgrado lo stesso dapprima
si candidava a leader dell’Ulivo per poi riparare più modestamente con la
candidatura a sindaco di Bologna.
Nell’ottobre del 2002 la “sinistra d’alternativa”,
tanto decantata al V congresso, diveniva l’artificio retorico per giustificare
l’impalcatura politica con cui strutturare i rapporti con la sinistra moderata
e le convergenze con il centro liberale della Margherita.
Nel marzo del 2003 erano
costituite (e attualmente tenute in vita), le commissioni programmatiche
paritetiche con Treu, Mastella, Pecoraro Scanio rispettivamente su Lavoro,
Mezzogiorno e Ambiente, proprio nel momento in cui l’ex ministro Treu, a nome
dell’Ulivo, asseriva in merito alla riforma Biagi del governo Berlusconi, che
nulla cambiava rispetto alla riforma varata dal centrosinistra (appunto col
"pacchetto" che porta il suo nome).
Un terreno prezioso su cui sono
state costruite le alleanze con l’Ulivo per le amministrative del 2003, che fa
ritenere a Bertinotti che “la Margherita
è una forza fondamentale nella coalizione”.
Una svolta celebrata
pubblicamente da tutti i commenti politici del centrosinistra, i cui leader
hanno più volte definito i nuovi rapporti tra il Prc e l’Ulivo come “salto
di qualità”, “vero punto di svolta” considerando la desistenza del
1996 superata e reale la possibilità di una convergenza programmatica con
l’obiettivo di ministri comunisti in un futuro governo dell’Ulivo.
Un commentario politico del
centrosinistra eloquentemente ben esemplificato dal titolo del settimanale Aprile
(giugno 2003): “per rifondazione il
centrosinistra non è più una gabbia, ben tornato Fausto”.
La costruzione di un rapporto
negoziale con l’Ulivo, segnata da contraddizioni laceranti, confligge persino
con la logica elementare degli avvenimenti.
Mentre il segretario dei Ds
Fassino, al congresso dei giovani imprenditori tenutosi a Riva del Garda, in
piena sintonia con D’Amato (presidente di Confindustria) giudicava il
referendum sull’estensione dell’art. 18 “dannoso
e inutile”, chiedendo esplicitamente “di
non partecipare al voto”, all’indomani dell’esito referendario,
Bertinotti apprezzava l’apertura fatta da Bassolino confermando “l’importanza dell’interlocuzione dell’Ulivo con il Prc” (Corriere
della Sera, 18 giugno 2003), facendo eco alle dichiarazioni del leader della
Margherita Rutelli, il quale riteneva che il risultato referendario non avrebbe
creato “sostanziali ostacoli nei rapporti politici futuri per le alleanze” (Manifesto,
17 giugno 2003).
E’ poi lo stesso Fassino, uno
dei massimi rappresentati del boicottaggio militante del referendum
sull’articolo 18, che nel spiegare su un paginone dedicatogli da Liberazione
(21 giugno 2003) la quinta essenza della “buona flessibilità”, rilanciava
l’intesa politico-programmatica da estendere persino ai movimenti sociali.
Il risultato delle
amministrative ha in realtà anestetizzato qualsiasi critica nei confronti di un
centrosinistra che ha visto uniti nel medesimo polo del boicottaggio attivo
Cofferati, Fassino Rutelli, Prodi, con Berlusconi, il centrodestra e la
Confindustria.
La grande rimozione del
risultato referendario, che ha segnato un attacco senza precedenti al movimento
operaio italiano, si è combinata all’esaltazione dei "laboratori
locali" quale trama su cui tessere l’intesa programmatica tra l’Ulivo e
Rifondazione: dalle elezioni per il rinnovo dei consigli provinciali di Roma,
con il candidato Gasbarra (ex democristiano di ferro) e del Friuli Venezia
Giulia con il candidato Illy, imprenditore del caffè legato per rapporti
politici e negoziali al leader xenofobo Haider, alla candidatura di Cofferati a
sindaco di Bologna, il quale alla festa di Liberazione
ha dichiarato che “tutti coloro che
hanno partecipato alla costruzione del programma hanno pari dignità. Non ci
sono quelli che contano dieci e quelli che contano uno” (L’Unità 7 settembre 2003), alludendo, nel nome del realismo
istituzionale, evidentemente alla ripartizione delle poltrone.
Una stretta negoziale con
l’Ulivo che in prospettiva apre la strada anche a possibili mutamenti radicali
dello stesso Prc.
Non è un caso che Bertinotti
nel faccia a faccia con Massimo D’Alema, alla festa di Liberazione a Venezia giudicava un “fatto nuovo” la lista
unitaria delle forze dell’Ulivo, nelle prossime elezioni europee e
amministrative del 2004 e successivamente in un'intervista giornalistica (Corriere della Sera, 8
settembre 2003) dichiarava che il Prc si faceva promotore della costruzione di
un nuovo soggetto politico che si colloca a sinistra dei riformisti, strutturato
nelle forme di club o associazione, una sorta di izquierda
unida super leggera.
Se questo è lo stato reale dei
rapporti tra l’Ulivo e il Prc, l’appello nazionale contro questo accordo e
l’indizione di un congresso straordinario diventa assolutamente centrale, sia
per la salvaguardia della rifondazione comunista come forza alternativa, sia per
dare una risposta dopo il 15 giugno agli 11 milioni di persone che hanno votato
per l’estensione dell’art. 18, alle decine di migliaia di militanti del
movimento operaio, della CGIL e del movimento antiglobal che hanno chiesto una
svolta sociale e politica radicale.
E’ questo dunque il punto
fondamentale: dinanzi ad un attacco profondo del governo su lavoro e pensioni,
dinanzi alle politiche neocoloniali dall’Afghanistan all’Irak, e
all’affondo plebiscitario del governo Berlusconi, accompagnato
dall’escalation reazionaria sul piano politico-istituzionale, con
l’obiettivo strategico di una repubblica presidenziale alla francese, ogni
unità con la borghesia liberale dell’Ulivo significherebbe sancire una
sconfitta storica per il movimento operaio italiano.
Non è un caso che le forze
politiche dell’Ulivo -sulle politiche fondamentali del sistema produttivo e
sociale- hanno di volta in volta praticato un’opposizione bipartizan: votato
la spedizione militare in Irak con il correlativo ampliamento delle spese
militari, condiviso il Lodo Maccanico (precostituendo un paracadute per le
inchieste Telekom Serbia), dato la disponibilità alla eventuale modifica di
legge costituzionale e condiviso con la Confindustria le critiche da un versante
liberista alle politiche economiche e sociali del governo Berlusconi.
Il centro liberale non può in
nome dei lavoratori radicalizzare un’opposizione contro il governo Berlusconi,
può esclusivamente denunciare alla borghesia la cattiva gestione delle
politiche dominanti e candidarsi al governo delle medesime politiche,
utilizzando l’elisir della concertazione e la limitazione preventiva del
conflitto sociale.
Solo il movimento operaio e la
sua avanguardia politicamente più avanzata può sviluppare contro Berlusconi
un’offensiva di massa, radicalizzando uno scontro sociale fino alla cacciata
del governo.
Solo l’avvio di una vertenza
generale del mondo del lavoro che prenda l’avvio dagli 11 milioni di Sì che
hanno votato l’estensione dell’Art. 18, dal movimento di massa che si è
costituito in questi mesi contro la guerra, dal movimento antiglobal e
dall’opposizione sviluppatasi a difesa della democrazia, può nascere
quell’esplosione sociale e radicale capace di spazzar via il governo
Berlusconi.
L’appello contro un nuovo
accordo tra Prc e Ulivo è dunque il presupposto essenziale per il Partito della
Rifondazione Comunista, per il movimento operaio e per tutti i movimenti sociali
che fin d’ora si sono sviluppati contro il governo di centrodestra,
opposizione che sarà tanto più forte e costituirà le premesse per
un’alternativa di governo di stretta rappresentanza del mondo del lavoro,
tanto più avverrà la rottura con il centro liberale borghese.
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NOTA
L'appello-petizione
a cui si fa riferimento nel testo di questo articolo è stato pubblicato su Progetto
Comunista nel numero di luglio-agosto ed è scaricabile (insieme al modulo
per la raccolta di firme) sul nostro sito web.