Resistenza
Irachena
Per
una rivoluzione araba e socialista
di Valerio Torre
Da
tempo, ormai, i mezzi d’informazione parlano sempre più spesso, nel
commentare la situazione irachena, del “pantano” nel quale le forze della
coalizione - e segnatamente quelle americane - si troverebbero invischiate.
Tuttavia, tale espressione pare essere stata acriticamente assunta, non
essendosi riflettuto a sufficienza sul fatto che un pantano è rappresentato da
una zona di terreno con acqua bassa e stagnante, nel quale la vita scorre
lentamente.
Al
contrario, non passa giorno in Iraq senza che gli eserciti occupanti siano
sottoposti a continui attacchi e tenuti costantemente impegnati in combattimenti
sanguinosi. E non è paradossale che ciò avvenga a distanza di oltre un anno da
quando Bush proclamò “per decreto” la fine della guerra? Questo scenario,
dunque, non costituisce affatto un “pantano”. E neanche l’accezione
figurata di “intrigo”, “impiccio” che l’etimologia dà di questa
parola, sembra poter descrivere appropriatamente il quadro che si è venuto
determinando dall’invasione dell’Iraq in poi.
Senza
dubbio, l’amministrazione statunitense aveva sottovalutato talune variabili
che hanno poi condotto alla realtà di cui ci parla la cronaca quotidiana,
avendo fatto affidamento sulla mostruosa potenza di fuoco del proprio esercito,
sul senso di “gratitudine” che il popolo iracheno le avrebbe espresso per
essere stato liberato da Saddam Hussein e sull’idea che lo smembramento dello
Stato, acuendosi le rivalità religiose fra sciiti e sunniti, avrebbe facilitato
la realizzazione del progetto di occupazione coloniale.
Nulla
di più sbagliato! Se almeno all’amministrazione del proconsole Bremer, oppure
oggi al governo fantoccio e collaborazionista di Allawi, fosse riuscito di
avviare l’opera di ricostruzione di cui comunque una popolazione martoriata da
oltre un decennio di embargo e massacrata da tonnellate di bombe aveva bisogno,
forse sarebbe stato possibile allentare la tensione sociale e perseguire uno
degli obiettivi per cui, in fondo, gli Usa hanno fortemente voluto
quest’aggressione: il controllo del petrolio. Invece, una resistenza pungente
tiene in scacco le forze d’occupazione, facendo raggiungere al solo esercito
americano la cifra record di circa mille soldati morti dall’inizio della
guerra (di cui oltre ottocento dopo la proclamazione ufficiale della sua fine).
In
realtà, l’occupazione militare non ha fatto sortire gli effetti sperati: di
fronte alle iniziali avvisaglie delle difficoltà a venire, l’amministrazione
Bush ha dapprima provveduto a rimuovere il generale Jay Garner - designato per
la ricostruzione - sostituendolo con Paul Bremer (il cui curriculum
brilla per essere egli il principale esperto di antiterrorismo del partito
repubblicano); quindi, confidando che un’amministrazione “indigena”
avrebbe incontrato maggiormente il favore della popolazione, ha cercato di
affrettare i tempi per il passaggio di consegne al governo fantoccio Allawi
preparandogli una base di consenso con la cooptazione dei capi tribali in
funzione di controllo delle masse.
Ma
nulla di tutto ciò è servito: tranne che nella regione del Kurdistan iracheno
(dove decenni di feroce repressione saddamita hanno indotto i kurdi a
collaborare con l’occupante nella speranza della concessione
dell’autonomia), le forze della coalizione non controllano il territorio e la
resistenza la fa da padrona. Dopo un primo periodo in cui le strade erano per lo
più luoghi di scorrerie di bande armate dedite al saccheggio e a terrorizzare i
civili, l’ostilità contro gli “invasori” si è estesa puntando
all’obiettivo della liberazione ed ha incrociato la contrarietà
all’occupazione dei settori clericali di religione sunnita e di quelli sciiti
più radicali coagulandosi in una resistenza di tipo nazionalista
particolarmente attiva.
Scontro
di civiltà?
Tuttavia,
sarebbe sbagliato vedere in questa guerriglia contro gli americani ed i loro
sodali una sorta di scontro di religioni o di civiltà: a dispetto dei proclami
marcatamente religiosi, è proprio la liberazione dell’Iraq dagli eserciti
occupanti l’obiettivo scoperto della resistenza. Lo stesso lunghissimo e
sanguinoso braccio di ferro fra l’esercito statunitense e la nuova polizia
irachena al soldo di Allawi da un lato e, dall’altro, l’esercito del Mahdi
guidato dal leader radicale Moqtada al Sadr, sta, nel suo svolgimento e nel suo
epilogo, a dimostrarlo: la connotazione religiosa della guerriglia si è
mostrata un eccezionale collante per avvicinare, attorno all’obiettivo della
difesa della città santa di Najaf e dei luoghi della tradizione islamica, le
componenti - storicamente divise - sunnita e sciita ed aggregare le masse. Ma
l’odio che in esse è cresciuto per gli occupanti si è coagulato in istanza
di liberazione. Basti pensare al fatto che i 3000 miliziani dell’esercito del Mahdi
asserragliati nel mausoleo di Alì erano sostenuti, nei giorni dell’assedio,
da oltre 10.000 persone giunte a Najaf da ogni dove, mentre la resistenza
sunnita inviava uomini ed aiuti.
Il
disegno Usa di “normalizzare” una volta per tutte Najaf servendosi a mo’
d’ariete della polizia di Allawi (per evitare di commettere il
“sacrilegio” di invadere i luoghi sacri: la qual cosa avrebbe scatenato una
reazione di massa generalizzata) è poi fallito, superato in
extremis dall’accordo politico siglato dall’ayatollah Al Sistani che ha consentito ad al Sadr di portare a casa,
oltre alla pelle, le armi delle sue milizie ed una patente di finissimo uomo
politico. Il risultato finale di quella che poteva essere una carneficina, ma
che comunque ha avuto come esito centinaia di morti, è stato il lievitare
dell’antiamericanismo anche all’interno di quei partiti sciiti e gruppi
religiosi schieratisi per l’occupazione Usa, alcuni dei quali a rischio di
scissione.
La
situazione è oggi quella che, riuscendo a filtrare attraverso la cortina
imposta ai mezzi di comunicazione dagli occupanti, possiamo leggere sui
giornali: aumenta considerevolmente il rifiuto dell’occupazione angloamericana
da parte della popolazione irachena; gli attacchi quotidiani da parte della
resistenza si fanno sempre più frequenti (fonti dello stesso Pentagono
riferiscono di una media di venticinque operazioni al giorno); il ritmo delle
morti fra gli eserciti occupanti - e, segnatamente, quello americano - si fa
sempre più rapido; si fanno stime (ovviamente non verificabili con precisione)
di una cifra fra i diecimila ed i trentamila caduti civili dall’inizio
dell’aggressione; fra miliziani ribelli e forze di polizia locale
(riorganizzate dagli Usa) si conterebbero all’incirca quattromila uccisi;
inoltre, la resistenza annovererebbe un numero di combattenti in tutto l’Iraq
pari a circa centotrentamila. Inoltre, lo scenario nella zona di influenza delle
truppe italiane - Nassiriya - appare relativamente più “tranquillo” per la
capacità dei comandi dell’esercito italiano di trattare una sorta di accordo
con le locali milizie ribelli, un’intesa che prevede “un profilo più basso,
con una presenza più discreta in città” (dichiarazione del gen. Dalzini,
comandante della task force in Iraq):
in altri termini, una suddivisione in zone di Nassiriya, alcune delle quali off
limit per i nostri militari.
Se
questo è lo scenario “militare”, quello civile ed economico è ancor meno
rassicurante: la “ricostruzione” non può materialmente decollare, poiché
l’intero paese si trova ancora nel pieno delle operazioni belliche, con
pesanti e sanguinosi bombardamenti su alcune città; le imprese degli Stati
della coalizione occupante che si sono garantite i lauti contratti sono ancora
ferme al palo, con l’aggravante di dover pagare le migliaia di mercenari
assoldati per la difesa del personale civile delle industrie e le
infrastrutture; l’estrazione e la distribuzione del greggio è sostanzialmente
bloccata a causa dei contini sabotaggi degli impianti petroliferi da parte della
guerriglia; sempre più frequentemente, fra la popolazione sorgono, nonostante i
divieti imposti dalle autorità, spontanee manifestazioni di massa in cui alle
rivendicazioni di tipo economico si affianca quella che esprime la contrarietà
all’occupazione.
La
resistenza, la non violenza e la prospettiva rivoluzionaria
È
evidente che questo quadro di forte instabilità militare, politica, economica e
sociale, in tanto si è venuto a determinare in quanto una resistenza - sia pure
in prevalenza attraversata da istanze religiose, nazionaliste e borghesi, sia
pure come prodotto di un coacervo dei più disparati gruppi emersi dalla
dissoluzione dello Stato baathista - esiste ed agisce per la liberazione del
popolo iracheno: utilizzando non gli strumenti previsti dalle “nuove” teorie
non violente elaborate dalla maggioranza dirigente del Prc (lo sciopero della
fame, l’esposizione della nudità dei corpi, l’astensione … dai rapporti
sessuali, come suggerito da Liberazione),
bensì quelli “vecchi” dell’insurrezione in armi per sconfiggere
militarmente gli occupanti!
Bertinotti,
coerentemente con il suo progetto governista, teorizza l’aggressione
all’Iraq e la lotta per la liberazione come i due anelli della tanto famosa -
quanto trita ed assolutamente infondata - “spirale guerra‑terrorismo”;
il responsabile esteri del partito, Migliore, disconosce addirittura la presenza
stessa di una lotta di liberazione, che liquida come una “lunga sequenza di
attentati terroristici, la cui unica strategia è la generazione di panico”.
Noi
lasciamo volentieri al segretario ed ai suoi il “fantastico mondo della non
violenza”: i comunisti distinguono sempre gli aggressori imperialisti dai
paesi dipendenti ed oppressi.
In
questo senso, Progetto comunista è da
sempre contro il fondamentalismo islamico e la logica terroristica di Al Qaeda.
Ma riconosce il pieno diritto del
popolo irakeno ed arabo a resistere all’occupazione coloniale, a sollevarsi
con tutte le proprie forze contro le truppe occupanti, a lottare sino in fondo
per la propria autodeterminazione e libertà contro un governo fantoccio
sostenuto dall’imperialismo, nella consapevolezza che solo la rivolta delle
masse arabe contro il colonialismo in una coerente visione antimperialista può
emarginare le suggestioni fondamentaliste o nazionaliste.
Progetto comunista
non solo auspica, ma lavora incessantemente, come membro del Coordinamento per
la rifondazione della Quarta Internazionale, per la costruzione di un’altra
direzione della resistenza, una direzione marxista rivoluzionaria che si ponga
questi obiettivi, nella prospettiva di una rivoluzione socialista nel quadro di
una unità araba e socialista.
8
settembre 2004