Venezuela: istruzioni (bertinottiane) per l’uso.

di Valerio Torre

 

Finita l’ubriacatura per la gauche plurielle di Lionel Jospin, del quale resta memorabile solo l’involontaria ironia con cui Liberazione lo definiva “un socialista [che] s’aggira per l’Europa”; lasciato sullo sfondo a mo’ d’inoffensiva icona grafomane il subcomandante Marcos alle prese con i suoi caracoles, buoni tutt’al più per dare lo spunto per il titolo del campeggio 2004 dei Giovani comunisti; esaurito anche l’entusiasmo per Lula, rivelatosi un esecutore sin troppo fedele dei piani del Fmi, la maggioranza dirigente del Prc si è trovata nella necessità di individuare una figura politica di riferimento da cui avere il riscontro della propria attuale linea e che fungesse da accredito sulla scena internazionale. E la scelta è caduta su Hugo Chavez e la sua “rivoluzione bolivariana”.

Il “presidente dei poveri”.

Questo ex ufficiale dai falliti trascorsi golpisti - eletto presidente del Venezuela nel 1998, visto oggi come un liberatore, un rappresentante delle masse diseredate del sud del mondo, e definito addirittura da Fausto Bertinotti come “il presidente dei poveri” - gode indubbiamente di un vasto consenso popolare che gli ha consentito, facendo leva soprattutto sui gradi intermedi degli ufficiali dell’esercito, di passare indenne attraverso il golpe dell’aprile 2002 eterodiretto da Washington e di resistere ai due mesi di serrata padronale e di sabotaggio della produzione petrolifera.

Uscito da quella burrascosa fase, un’accorta politica di controllo dei settori dell’energia nell’amministrazione statale e delle forze armate fondata sull’epurazione dei dirigenti e dei generali reazionari legati ai settori golpisti e la loro sostituzione nei posti chiave con quadri fidati, ha consolidato il suo potere; mentre la realizzazione - sia pure confusa ed ambigua - di obiettivi di industrializzazione e redistribuzione, in favore delle classi meno abbienti e più emarginate, del differenziale della rendita derivante dalla produzione e dalla vendita del petrolio gli ha accresciuto l’appoggio delle masse.

E così, il recente referendum costituzionale per la revoca del mandato presidenziale (un istituto sancito dalla costituzione venezuelana, che consente di indire una consultazione popolare sulla continuazione della carica di presidente) ha visto trionfare Chavez su un’opposizione (la Coordinadora democratica) corrotta, divisa, senza idee e, soprattutto, piantata in asso dalla Casa Bianca e dal grande capitale.

 

La politica degli Usa verso il Venezuela.

In realtà, quella praticata dal governo Usa contro la “nazionalizzazione” del petrolio venezuelano è, allo stato, dopo il tentativo di golpe del 2002, un’opposizione di facciata, dato che le grandi compagnie petrolifere americane vantano solidi e redditizi contratti commerciali con la Pdvsa (l’impresa statale del petrolio di Caracas), mentre Bush non potrebbe permettersi di veder venire meno, causa la precarietà politica, il flusso di approvvigionamenti energetici proprio nel momento in cui il mancato controllo delle risorse irachene e l’instabilità dei mercati di greggio colpiscono il fabbisogno statunitense. Per converso, Chavez agita fra le masse adoranti lo spettro dell’imperialismo yankee mentre stipula un gigantesco accordo con la Exxon per un investimento di 3 miliardi di dollari nell’industria dello sfruttamento del gas. Ecco perché a Washington è risultato relativamente più facile “ingoiare il rospo”, piuttosto che patrocinare una soluzione di tipo “pinochettista” dagli esiti quasi certamente negativi.

D’altronde, gli analisti finanziari avevano dato rassicuranti segnali in tal senso nelle settimane che hanno preceduto il referendum del 15 agosto: il Financial Times ha più volte riferito che l’industria petrolifera americana auspicava la fine dell’instabilità politica in Venezuela determinata dalla (relativa) incertezza del risultato elettorale fomentata dall’opposizione reazionaria, trattandosi di un paese nel quale “nuovi investimenti sono più sicuri che nel Medio Oriente e Nigeria”, ed assicurava che gli Usa stavano “riorientando” la loro politica verso Caracas, “ammorbidendo” la propria posizione. Michael Shifter, del Interamerican Dialogue, ha in proposito sostenuto che “ora può iniziare un processo più conciliatore, più democratico, più stabile, che potrebbe sortire un effetto positivo per gli altri paesi”.

Niente di nuovo sotto il sole! L’imperialismo capitalista sceglie sempre, a seconda delle proprie convenienze, se utilizzare per la propria sopravvivenza un regime dittatoriale o un governo borghese “progressista”.

 

Nazionalismo borghese.

In realtà, il “chavismo” non è altro che un regime nazionalista borghese fondato su una buona dose di populismo e sul carisma del presidente, che gli ha consentito di incunearsi nel vuoto di potere derivato dalla corruzione diffusa del sistema politico agitando un antimperialismo verbale e praticando una crescente militarizzazione dell’intera amministrazione. L’impennata dei prezzi del greggio ha consentito a Chavez di dispiegare effettivamente un programma di riforme indirizzato per lo più a quei vasti settori popolari da sempre ai margini della società venezuelana investendo, appunto, il differenziale della rendita petrolifera: la qual cosa gli ha garantito il consenso delle masse.

Ma è altrettanto vero che il “chavismo” rappresenta una variante progressista dell’“allendismo”, inteso come pratica della transizione pacifica ed istituzionale al socialismo entro la cornice legale e costituzionale fissata dal capitalismo, con la propensione di classe a cedere nei confronti dell’imperialismo capitalista. Chavez stesso ne ha fornito parecchi esempi. Alla vigilia della seconda aggressione all’Iraq, ebbe a dichiarare che il Venezuela avrebbe garantito agli Usa, in caso di guerra, le scorte di petrolio, aggiungendo: “Rispetteremo i contratti e gli impegni assunti” e preannunciando che stava per sottoscrivere un accordo per la vendita di petrolio a Washington della durata di 20 anni. Ha intrapreso i negoziati per concedere ad aerei nordamericani impegnati in operazioni militari previste dal Plan Colombia il diritto di sorvolo (in precedenza revocato) del territorio venezuelano, minacciando la chiusura delle frontiere per i guerriglieri delle Farc. Ha manifestato, insieme a Kirchner ed a Lula, appoggio politico al deposto presidente boliviano Sanchez de Lozada, condannando energicamente i moti popolari come “atti di violenza che mettono in pericolo l’ordine costituzionale”: e lo stesso Sanchez dichiarò in un’intervista (O Estado de Sao Paulo) che Chavez gli aveva offerto aiuti fino a poche ore prima della sua fuga dal paese.

Come è evidente, allora, quella che viene definita la “rivoluzione bolivariana” di Chavez rappresenta un regime che racchiude in sé, conciliandoli, il radicalismo verbale per far presa sulle masse di sfruttati ed emarginati ed il “realismo” politico indispensabile per trattare con il capitalismo imperialista, vagheggiando di condurre il popolo al socialismo pacificamente e nel rispetto delle leggi: musica, insomma, per le sensibili orecchie di un Fausto Bertinotti tutto proiettato verso il governo di collaborazione di classe di Prodi. Ed è questa, tutto sommato, la ragione per cui la maggioranza dirigente del Prc si spertica nelle lodi del “chavismo”, sistema perfettamente funzionale al disegno governista che essa persegue sempre più sfacciatamente.

 

Prospettive per il dopo referendum.

La schiacciante vittoria di Chavez nel referendum del 15 agosto ha per ora dissolto l’opposizione reazionaria interna, e ciò costituisce senza dubbio un risultato positivo per i lavoratori di tutto il mondo e per quelli venezuelani in particolare: tuttavia, la loro prospettiva non è e non può essere quella di restare invischiati nell’ennesimo fallimento di un’esperienza nazionalista borghese, com’è quella “chavista”, e nella ragnatela che essa ha tessuto e tesse con l’imperialismo. Essi dovranno - nel momento in cui, forti dell’acquisito risultato referendario, oseranno chiedere di più scontrandosi con lo stesso Chavez - comprendere i limiti insuperabili di quella politica di compromesso, contrapponendovi la costruzione di un partito operaio rivoluzionario indipendente che costituisca l’avanguardia operaia rivoluzionaria su cui costruire l’unità socialista dell’America Latina.

6 settembre 2004.


La dichiarazione del Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale

 

Il Coordinamento per la Rifondazione della Quarta Internazionale (Crqi) è risolutamente coi lavoratori del Venezuela, per respingere l'appello della destra oligarchica a revocare il mandato del presidente Hugo Chávez. 

Certamente nei due poli del referendum vi sono posizioni di alternanza capitalistica. Tuttavia la conclusione di questa nuova crisi nel regime capitalista del Venezuela (che ne ha conosciute già molte dal Caracazo del 1989) non è indifferente per i lavoratori di tutto il mondo.

Da un lato, vi è una destra oligarchica (National Endowment for Democracy), finanziata con fondi della Cia, che esprime una forma estrema dell'oppressione imperialista, rappresentata dalla consegna del petrolio. Si tratta anche di una variante estrema, pinochetista, che si manifestò brevemente durante il golpe dell'aprile 2002. Dall'altro lato, vi è il nazionalismo borghese, diretto dall'esercito, che intende ampliare la dominazione del capitalismo nazionale e giungere ad accordi con l'imperialismo su basi differenti da quelle del passato.

Si è creata quindi una situazione alla quale si applica esattamente la raccomandazione del Manifesto di Marx ed Engels: lottare insieme al nemico del nostro nemico: con Chávez contro la coalizione imperialista. Fare ciò non significa, è chiaro, riporre in lui nessuna fiducia. Il nemico del nostro nemico (Chavez) cercherà di fare in modo, come già fa, che la sconfitta del nemico gli serva per assicurare la dominazione padronale sulla classe operaia. Si tratta, allora, di colpire insieme e marciare separati, cioè di organizzare il proletariato in classe indipendente - specialmente rispetto al nazionalismo militare borghese. 

(Da Prensa Obrera, 5 agosto 2004)