Una lunga stagione di lotte: l’applicazione della legge Bossi-Fini e le sue conseguenze.

di Federico Bacchiocchi

 

Il 10 settembre 2002 è entrato in vigore il DdL 795, meglio conosciuto come legge Bossi-Fini, che modifica il Testo Unico di legge in materia di immigrazione.

Questa data segna un nuovo attacco ai diritti e alle condizioni di vita dei lavoratori in Italia. E’ colpita specificatamente una parte della classe lavoratrice: la componente immigrata.

Le conseguenze, però, ricadono su tutti i lavoratori come è sempre accaduto nella storia del movimento operaio.

La “sanatoria” per i lavoratori irregolari impiegati nei servizi domestici e di cura (“colf” e “badanti”), nonché  per i lavoratori irregolari delle imprese private, scaduta il 10 novembre 2002, ha costituito una sorta di parentesi lunga due mesi dell’effettiva e piena applicazione della legge Bossi-Fini.

Occorre sgomberare ogni dubbio a tal proposito: la “sanatoria” non è stata un’opportunità reale di emersione per i lavoratori irregolari (tanto è vero che una grandissima parte delle quasi 600.000 domande di regolarizzazione presentate saranno respinte), quanto piuttosto il modo per condonare i “datori di lavoro” e legalizzare le condizioni di sfruttamento e precarietà a cui costringono i propri dipendenti.

Di contro i lavoratori immigrati sono stati costretti a sottostare a richieste ricattatorie di tangenti da parte dei propri padroni, non fosse altro che la richiesta di pagamento della quota forfettaria di contributi all’atto della presentazione della domanda, e in generale ad un vero e proprio mercato delle regolarizzazioni.

Al contrario dell’acquisizione di nuovi diritti, si è accentuata la condizione di ricattabilità e di subordinazione per questi lavoratori.

Il D.d.L. 795, promulgato con l’intenzione, secondo le dichiarazioni della destra al governo, di rendere più semplice ed efficace la gestione del problema “clandestinità”, ha invece il fine di rendere più difficile l’inserimento nel tessuto sociale del nostro paese da parte dei lavoratori immigrati. Si assiste infatti ad una ulteriore compressione dei diritti, gia lesi nelle fondamenta dal Testo unico di legge in materia di immigrazione, o legge Turco-Napolitano a suo tempo promossa dal governo di Centro-Sinistra e rivendicata ancora oggi da quelle forze politiche.

Da una parte la  possibilità di ingresso in Italia è ulteriormente limitata dall’istituzione di quote determinate annualmente sulla base delle esigenze delle imprese, così come dall’abolizione dello “sponsor”, ossia la figura di garante, sia esso un cittadino italiano o straniero, per il cittadino straniero in cerca di lavoro, e dalla drastica riduzione della possibilità di ricongiungimento familiare, mentre di fatto viene  ricondotto alla discrezionalità da parte delle autorità competenti, il diritto di asilo i cui richiedenti vengono rinchiusi, in attesa dell’esito della loro istanza, in speciali centri di “trattenimento”, i famigerati Centri di Permanenza Temporanea.

Dall’altra per il lavoratore già risiedente in Italia diviene più facile e probabile l’espulsione in caso di irregolarità documentale mentre non vi è possibilità di ricosro se non successivamente all’avvenuta espulsione stessa, ossia successivamente al ritorno nel proprio paese di origine.

Snodo fondamentale di questa politica razzista e repressiva sono i Centri di Permanenza Temporanea, istituti carcerari al di fuori dello stato di diritto, necessari alla detenzione dei lavoratori e cittadini  immigrati in attesa della formalizzazione del provvedimento di espulsione (quando non, addirittura, in attesa di asilo politico). Questi centri non sono frutto della politica della Destra, ma sono il prodotto del governo fili-padronale del Centro-Sinistra, il governo Prodi,  purtroppo la tempo sostenuto anche dal P.R.C. fino al punto di votare l’istituzione di tali mostruosità giuridiche. E’ evidente che la loro funzione non è semplicemente tecnica, finalizzata cioè a rendere effettivi e celeri i provvedimenti di espulsione, ma data la discrezionalità con la quale le autorità giudiziarie e le forze di polizia possono giovarsene, essi costituiscono strumenti di minaccia e costrizione nei confronti dei lavoratori immigrati per limitarne l’indipendenza e le possibilità di sottrarsi al ricatto padronale.

La legge accentua in questo modo la marginalità del lavoratore immigrato nella società per costringerlo alla maggiore flessibilità e subalternità possibile una volta al chiuso dei “cancelli delle fabbriche”.

Non si limita però a questo, ma, in ossequio alla sua natura classista, essa interviene anche all’interno del rapporto giuridico di lavoro. Istituisce infatti il Contratto di soggiorno per lavoro che sostituisce il Permesso di soggiorno. In questo modo il diritto al soggiorno in Italia viene legato indissolubilmente all’esistenza di un contratto di lavoro. Stabilita queste condizione è evidente che il lavoratore si trova in una posizione di maggior debolezza di fronte al padrone, il quale srà favorito nell’imporre le proprie condizioni contrattuali di fronte alla prospettiva reale dell’immediata espulsione per il lavoratore. Si consideri inoltre che la validità del contratto di soggiorno dura 2 anni dal momento della stipula del contratto di lavoro, trascorsi i quali il lavoratore torna a trovarsi nelle stesse condizioni di ricatto avendo solo 6 mesi per trovare un nuovo lavoro regolare. Il legislatore ha ritenuto di rendere permanete e continuamente rinnovabile la pressione vessatoria di classe contenuta nel proprio provvedimento legislativo.

In altre parole è istituito il caporalato di stato. Il “comitato di affari” della borghesia provvede efficacemente a fornire forza lavoro flessibile, precaria e subordinata al capitale nazionale in base alle esigenze fluttuanti del mercato.

Le conseguenze per il lavoratore immigrato sono durissime: segregazione sociale, lavoro nero o “clandestino senza garanzie né diritti, salari inferiori a parità di orario, occupazione nelle mansioni più alienanti e nocive (come possono attestare i medici del lavoro), allungamento della giornata lavorativa, pauperismo.

Una parte consistente del proletariato attivo ( si stima che gli immigrati costituiscano oltre il 3% della forza lavoro complessiva oggi impiegata in Italia) è duramente colpita e allo stesso tempo le sue condizioni di estrema subalternità servono al capitale per trascinare verso il basso i diritti e le condizioni di lavoro del proletariato italiano nel suo complesso, rompendo gli argini della rigidità operaia con il fine di diminuire drasticamente il costo della forza lavoro, ossia il salario sociale.

I proletari di origine straniera non sono però del tutto disarmati. Essi spesso occupano in modo pressoché esclusivo settori del sistema produttivo lasciati deserti dai lavoratori indigeni. Ciò è confermato dall’affannosa ricerca di operai specializzati da parte dell’imprenditoria italiana  soprattutto nelle regioni industrialmente più sviluppate. Molti imprenditori chiedono a gran voce l’afflusso di lavoratori stranieri con specifiche competenze ( è stato clamoroso, a tal proposito, il pronunciamento della Confindustria veneta contro la quale si è scatenata la polemica della Lega). Questa situazione favorisce la forza contrattuale di parte consistente della componente straniera della classe lavoratrice. La consapevolezza di tale forza sta infatti crescendo: lo dimostrano molti episodi di lotta degli ultimi mesi e soprattutto lo sciopero dei lavoratori immigrati contro la legge Bossi-Fini del 15 maggio 2002 nelle fabbriche del vicentino. La clamorosa riuscita dello sciopero, il fatto che molte fabbriche siano rimaste chiuse, segna un salto in avanti della coscienza e della capacità di lotta di questa parte dei lavoratori, a partire da se, dalla propria specificità, ma immediatamente con una valenza generale.

Diffondere le lotte contro la legge Bossi-fini, e in generale contro le condizioni di discriminazione e super-sfruttamento a cui sono sottoposti, ripetere l’esperienza di Vicenza modulandola sulle caratteristiche territoriali fino alla costruzione di uno sciopero nazionale, sviluppare le capacità di auto-organizzazione a partire da una vertenza al tempo stesso specifica ed unificante, sono le parole d’ordine che indicano agli operai di origine straniera la strada per connettersi al conflitto generale e generalizzato di tutti i lavoratori contro il grande capitale ed il suo piano per gestire la crisi economica ormai permanente.

Chi paga la crisi? Gli operai immigrati, prendendo coscienza della propria condizione, potranno unirsi a tutti i lavoratori nel rivendicare che la crisi la paghino i padroni!