Marxismo rivoluzionario n. 2 - filo rosso/ pietro
tresso ("blasco") 1893-1943
Ricorre
in questi giorni il sessantesimo anniversario dell’assassinio di Pietro
Tresso, già dirigente del Partito comunista d’Italia, amico di Antonio
Gramsci, oppositore dello stalinismo e fondatore della Quarta Internazionale,
assassinato dagli stalinisti durante la seconda guerra mondiale.
A
questa splendida figura di militante e dirigente comunista, colpevolmente
trascurata e ignorata anche da molti di coloro che pretendono che la
rifondazione comunista debba fare i conti con lo stalinismo, “MR” dedica
questo dossier che contiene:
•
l’ampio profilo biografico di Pietro Tresso tracciato da Ilaria Del Biondo;
•
una nota di Franco Grisolia sulle ragioni del suo assassinio e i punti oscuri
sui quali ancora non è stata fatta la luce dovuta;
•
uno scritto dello stesso Tresso del 1937 in morte di Antonio Gramsci;
•
un altro scritto del 1938 che discute delle ragioni che hanno condotto alla
vittoria del fascismo in Italia e della responsabilità dei riformisti nel
disarmare la classe operaia.
Con
queste pagine non intendiamo solo fare un omaggio alla memoria ma rivendicare la
continuità e l’attualità di un impegno e di un orientamento senza i quali
nessuna rifondazione del comunismo è possibile. [T.B.]
VITA
E MORTE DI UN COMUNISTA ANTISTALINISTA
Profilo
biografico del fondatore e dirigente del Partito comunista d’Italia e amico di
Gramsci, espulso per “trotskismo” dal partito nel 1930 per volontà di
Togliatti, fondatore della Quarta Internazionale, assassinato in Francia dagli
stalinisti durante la Resistenza
di
Ilaria Del Biondo
“E’
proprio perché siamo ancora
giovani che ci ritroviamo fuori dalle diverse chiese. Se noi fossimo diventati
vecchi avremmo ascoltato la voce dell’esperienza, saremmo diventati saggi,
saremmo ricorsi come tanti altri alla menzogna, alla doppiezza e alla reverenza
verso i differenti “figli del popolo”, ma questo non ci era possibile. Perché?
Perché siamo rimasti giovani, e perché siamo sempre insoddisfatti di ciò che
abbiamo, perché aspiriamo sempre a qualcosa di meglio. E chi non è rimasto
giovane è in realtà diventato cinico; per loro gli uomini e l’umanità non
sono che strumenti, mezzi che devono servire i loro scopi personali anche quando
questi scopi sono dissimulati sotto frasi d’ordine generale. Per noi invece
gli uomini e l’umanità sono le sole vie, le vere realtà esistenti.”
A sessant’anni dalla sua tragica scomparsa le parole di
questo straordinario militante del movimento operaio internazionale, vissuto tra
le due guerre mondiali, nel “secolo più violento della storia dell’umanità”,
caratterizzato dalla rivoluzione russa del 1917 e dalle sue ripercussioni
profonde ed universali, ci appaiono ancora di un’attualità e di una
freschezza inedita mostrandoci la morale e lo spirito che caratterizzò molti
dei militanti dell’epoca e che, oggi, hanno analoga forza nell’indicarci un
modo di affrontare la militanza.
La vicenda politico-esistenziale di Pietro Tresso, non priva
di qualche contraddizione, inizia con l’adesione alla Gioventù socialista,
passa attraverso l’esperienza del Pci, dove svolge un ruolo da dirigente del
lavoro clandestino nel periodo della dittatura fascista e, successivamente alla
sua espulsione nel 1930, lo troviamo nella fila del movimento trotskista, in
Italia e in Francia tra i dirigenti della Quarta Internazionale. Tratteggiando
il suo profilo biografico, cioè, ci si imbatte nelle vicende delle tante
“famiglie” all’interno del movimento socialista, comunista e trotskista, e
nella storia, più generale, del movimento operaio italiano come internazionale.
Nella storia di quel movimento del quale Tresso si è sempre sentito parte
integrante, non perdendo mai, pur entrando nel Pcd’I dopo il congresso di
Lione, come “rivoluzionario di professione”, il suo “essere operaio”.
Perfino la sua morte, a più di mezzo secolo di distanza ci parla di una di
quelle “famiglie”. Ci parla del fenomeno dello stalinismo e ci descrive la
morte in un campo partigiano di compagni tenuti come prigionieri. Oggi sulla
morte di Tresso nel 1943 dopo la spettacolare fuga dal carcere di Puy en Valey,
come sui crimini dello stalinismo si sa molto; il muro di silenzio “per non
nuocere al Partito”, elemento costitutivo della complicità sui crimini, è
venuto meno, si è incrinato di fronte alla parabola storica dell’Urss. La
verità è emersa come nelle interviste agli ex del Wodli di Raymond Vacheron
riportate nel libro di Pierre Broué (1 ); nelle voci piene di dubbi,
incertezze e astuzie di coloro che, stalinisti, furono a loro volta vittime
dello stalinismo.
La
gioventù socialista: 1908-1921
Tresso nasce il 30 gennaio 1893 a Magrè di Schio (nei pressi
di Vicenza). Nasce, in una terra, quella veneta, caratterizzata da una solida
tradizione religiosa quando la crisi della campagna, in coincidenza con lo
sviluppo industriale, produce trasformazioni sociali e un esodo migratorio tra i
più numerosi del secolo. Apprendista sarto dall’età di nove anni, svolge
attività politica di propaganda nel suo paese fondando il Circolo giovanile
socialista di Magrè. Verso il 1914 si dedica all’attività sindacale tra i
contadini, segnalato, infatti, come uno dei giovani più promettenti viene
inviato prima a Milano, per un corso sulla legislazione operaia
all’Umanitaria, e poi a Gravina di Puglia, uno dei più grossi centri agricoli
della Murgia, dove è in prima linea nella battaglia per il minimo salario
garantito e contro l’umiliante contrattazione individuale della forza lavoro
tra i contadini del luogo.
La sua esperienza sindacale s’interrompe nel 1915 quando
viene chiamato alle armi. Nei primi mesi del 1917 appare come imputato al
processo di Pradamano insieme ad altri soldati accusati di aver diffuso i
deliberati della Conferenza di Zimmerwald. Assolto per insufficienza di prove,
viene spedito al fronte ma nel 1917 ritorna a Schio. Qui il rafforzamento delle
organizzazioni di classe nel 1919 è straordinario, anche se esplodono i
contrasti tra le due correnti dei massimalisti e dei riformisti. Tresso,
esponente emergente del massimalismo, è nel 1920 redattore di “El Visentin”,
e consigliere comunale e provinciale. Pur essendo ancora legato alle posizioni
del massimalismo serratiano, iniziano a maturare in lui riflessioni che lo
portano spesso ad esprimere posizioni differenti da quelle dei suoi compagni di
partito. Lontano dall’esperienza torinese dell’”Ordine Nuovo”, di cui
coglie però l’importanza, senza per questo essere bordighista, di cui non
condivide le tesi astensioniste, Tresso si allontana dalla corrente dei
massimalisti.
La
clandestinità nel Pcd’I
Nel gennaio del 1921 aderisce al neonato Partito comunista
d’Italia e diviene direttore del nuovo periodico locale “La lotta
comunista”. Il dilagare della violenza fascista lo costringono nella primavera
del 1921 a partire per Milano e successivamente, dopo aver subito una
aggressione, si reca a Berlino. Qui, collabora alla “RGI”, la rivista
dell’Internazionale sindacale rossa (Isr), pubblicando una decina di articoli
sul fascismo e svolge un’attività clandestina a favore degli esuli. Nel
novembre del 1922 partecipa ai lavori del IV congresso dell’Internazionale
comunista (IC) e al II Congresso dell’Internazionale sindacale rossa, a Mosca
dove era giunto pochi mesi addietro. Ma dopo l’arresto di numerosi membri del
comitato esecutivo del Partito si pone, data anche la mancanza di quadri
sindacali, la necessità del suo rientro in Italia.
Nel giugno del 1923 si tiene il terzo esecutivo allargato
dell’IC, le polemiche e le analisi radicalmente opposte della maggioranza del
PCd’I e le presunte responsabilità di Bordiga nel fallimento
dell’unificazione pongono all’Internazionale il problema della direzione che
viene risolto da Mosca con la nomina di un nuovo comittao esecutivo del Partito.
Ha così inizio, un processo che porta alla formazione di un nuovo gruppo
dirigente intorno alla figura di Gramsci. Il dibattito, che nei primi mesi del
1924 investe il gruppo dirigente del PCd’I, raggiunge un momento assai
significativo durante la conferenza di Como nella metà di maggio. Emerge così
un atteggiamento largamente indicativo degli umori della base: irritazione e
sorpresa per dissensi interni che si ignoravano quasi del tutto, ostilità nei
confronti della destra e diffidenza verso l’atteggiamento equivoco del centro.
E’ questo l’atteggiamento dello stesso Tresso che per tutto il corso del
1924-25 si occupa quasi esclusivamente del lavoro sindacale, reso sempre più
complesso dal precipitare della situazione a seguito del restringimento dei
margini di legalità. Con il patto di Palazzo Vidoni (20 ottobre 1925) tra le
corporazioni fasciste e la Confindustria, il potere contrattuale della
Confederazione generale del lavoro (Cgl) è nullo. L’attività sindacale ormai
è relegata nella clandestinità. Le già difficili condizioni di lavoro
peggiorano alla fine di ottobre quando vengono varate le leggi fascistissime.
E’ in questo periodo che Tresso assume un ruolo decisivo nella battaglia per
sconfiggere, nel generale senso di smarrimento prodotto dalla repressione
fascista, le due correnti liquidatrici nel partito e nella Cgl. Si occupa
dell’ufficio clandestino, ma gli strascichi di pesanti episodi di delazione lo
portano ad abbandonare momentaneamente l’Italia, mentre le vicende del PCd’I
si vanno sempre più intrecciando con quelle dell’IC e delle lotte interne al
partito russo, e il “caso Wittorf” porta alla formazione di un conseguente
“caso Tasca”.
Dal
dibattito sulla situazione italiana all’espulsione: 1928-1930
Mentre Tresso è a Berlino, incaricato del CC di
rappresentare il PCdI al XII congresso del partito tedesco, si svolge a Mosca il
X plenum del Comitato esecutivo internazionale (Cei, 3-19 giugno 1929). Esso
sancisce la disfatta dell’opposizione di destra guidata da Bucharin e la
capitolazione di alcuni noti esponenti dell’opposizione di sinistra a Stalin (Radek,
Préobrazensky e Smilza) e l’irrevocabile scelta di Togliatti, un totale atto
di fede nell’Internazionale. Al ritorno da Mosca della delegazione italiana
viene convocato l’UP nel quale dovrà essere recepita la nuova linea politica.
E’ da questo UP (28 agosto 1929) che all’interno del PCd’I si inizia a
manifestare un’opposizione, in particolare in merito all’organizzazione
politica conseguente alla cosiddetta “svolta del terzo periodo”. La linea
uscita dal X plenum, quella della crisi finale del capitalismo e della
radicalizzazione delle masse, era quella da sempre propugnata dalla
Federazione giovanile comunista (Fgc). Così è Longo ad elaborare tutta una
serie di proposte tese a adeguare l’attività del partito alla politica
dell’Internazionale, note come “progetto Gallo” (Gallo è lo psudonimo di
Longo), che trovano la massima espressione nella richiesta della ricostruzione
di un centro interno. A questa ipotesi si oppongono Tresso, Leonetti e
Ravazzoli che presentano un controprogetto, noto come “controprogetto
Blasco” (Blasco è già all’epoca il nome di battaglia di Tresso). I
rapporti tra la maggioranza e l’opposizione degenerano in breve tempo fino
alla frettolosa espulsione dei “tre” (a cui si sono aggiunti Teresa Recchia
e Mario Bavassano) sancita nel comitato centrale del 9 giugno 1930 per essersi
messi in contatto con i trotskisti, aver condotto una campagna calunniosa contro
il Pci e per avere una “errata valutazione delle prospettive del regime
fascista”.
Da
“La Vérité” alla Nuova opposizione italiana: 1930-1933
La lettera documento del 5 maggio 1930 redatta da Tresso e
trasmessa a Prinkipo, dove Trotsky si trovava in esilio dal 1929, sancisce
l’adesione dei cinque all’Opposizione di sinistra internazionale (Osi). E’
con questa lettera che si rivela una maturazione dell’analisi sia in merito
alla situazione politica italiana sia per quanto riguarda il dibattito
all’interno del movimento operaio. Le divergenze rispetto alla linea elaborata
dal PCd’I riguardano l’analisi della situazione italiana, la
riflessione sul ruolo della socialdemocrazia e sulla natura del fascismo
(inteso come “il metodo particolare di dominio al quale la borghesia
italiana, nell’attuale sua fase imperialista, è stata costretta a fare
ricorso per garantire il proprio potere”). Grandi sono le analogie con
l’analisi di Trotsky sul regime fascista quale intreccio tra due processi:
l’uno, la conversione delle classi dominanti all’autoritarismo aperto
determinante per la definizione del quadro generale della fase storica;
l’altro, la rivolta delle classi medie essenziale per definire la
configurazione politica specifica assunta da quel potere autoritario.
Dal momento della loro espulsione sino alla comparsa del
primo numero del loro Bollettino i “tre”, attraverso gli interventi su “La
Vérité”, pensano di poter allacciare contatti con l’immigrazione italiana
ed elaborano la Résolution de l’opposition italienne - La situation en
Italie et le taches du Parti comuniste, che fissa in 16 punti le
rivendicazioni di carattere transitorio ed immediato. A partire dall’aprile
1931 la Noi stampa un proprio bollettino che verrà pubblicato fino al giugno
1933 permettendo loro di replicare alle calunnie che vengono propagandate dalla
stampa del PCd’I.
L’Opposizione
di sinistra in Francia
Quando la Noi entra a far parte dell’Osi tutti i suoi
membri si trovavano in Francia, sicchè il processo di formazione della sezione
italiana si intreccia, a più riprese, con le vicende della Ligue Communiste.
L’Opposizione di sinistra in Francia nasce immediatamente dopo la XII
conferenza del partito bolscevico in Russia (gennaio 1924) quando Boris
Souvarine prende posizione in favore dell’Opposizione. Da quel momento nel Pcf
si susseguono una serie di espulsioni. Ma la situazione è nel 1929 fortemente
frammentata. Gli sforzi per la costituzione di un’opposizione unificata in
Francia trovano il loro coronamento solo con la creazione de la “La Vérité”
(15 agosto 1929) e la nascita nel 1930 della Ligue Communiste. Inizialmente i
rapporti tra la Noi e la Ligue sono dei migliori, ma ben presto gli oppositori
italiani si trovano coinvolti nella lotta di frazione che dilania la Ligue. Uno
dei motivi di contrasto con la Noi è il ruolo svolto da Tresso nella Ligue
(egli entra nel comitato esecutivo verso la fine del 1930).
La degenerazione dei rapporti porta Tresso ad optare per il
lavoro esclusivo nella Ligue. Le cause dell’allontanamento dalla Noi vanno
ricercate nella mancanza di legami con l’Italia tale da portare Blasco a
optare per il lavoro in un’organizzazione, la Ligue, con un peso reale nel
movimento operaio. Questa è l’occasione per dedicarsi anima e corpo al lavoro
sindacale. In realtà anche all’interno della Ligue ci si confronta su
questioni importanti. Tresso cerca di tenersi fuori dalle lotte di frazione ma
vi si trova coinvolto quando la polemica sull’intervento sindacale chiamerà
direttamente in causa la sua esperienza, facendo di lui l’artefice della
politica sindacale adottata dalla nuova direzione di Molinier (che in
quest’occasione s’impose sugli errori del gruppo Naville).
La
fine della Nuova opposizione italiana
Nel 1932 i rapporti tra la Noi, impegnata nel processo di
riorganizzazione interno ed esterno, e la Ligue sembrano più distesi. Ma ben
presto rinascono i problemi rispetto ai rapporti anche nella loro definizione
organizzativa tra le due sezioni. Intanto si tiene a Parigi l’importante
preconferenza internazionale dell’Osi (4-8 febbraio 1933) vi partecipano tre
italiani: Leonetti, Tresso e Barbara, la compagna di Blasco. L’obiettivo
principale è quello di preparare il terreno per lo svolgimento della prima
conferenza internazionale dell’Osi da tenersi nel luglio 1933. Il tema
centrale è l’analisi dagli avvenimenti tedeschi dopo la nomina di Hitler a
cancelliere.
E’ in questa occasione che Blasco entra a far parte del
segretariato internazionale. Con l’approvazione delle decisioni della
preconferenza, la Noi cambia denominazione e diviene la sezione italiana
dell’Opposizione internazionale di sinistra (bolscevico-leninista).
Ma i rapporti non migliorano all’interno e le divergenze
assumono la forma delle dimissioni, della richiesta di “autoscioglimento”
della Noi e infine, dell’immediata espulsione di Fosco e Blasco il 9 aprile
1933. Nonostante il ritiro delle espulsioni, sotto l’insistenza del
segretariato internazionale, non si arriva ad una normalizzazione dei rapporti.
Il “caso Blasco” trova la sua naturale soluzione solo
nello scioglimento di lì a pochi mesi, nel giugno 1933, dell’opposizione
italiana.
Il
movimento trotskista in Francia e in Italia: 1933-1938
L’esperienza tedesca nel periodo che va dal 1928 al 1933,
è un vero e proprio banco di prova non solo per il Partito comunista tedesco,
ma per la stessa Internazionale e per l’Osi. Già alla preconferenza
dell’Osi, esso aveva monopolizzato l’attenzione. In quell’assise la
vittoria del nazismo veniva considerata ancora evitabile e si rilanciava la
parola d’ordine del fronte unico delle organizzazioni proletarie tedesche. Ma
il 27 febbraio, quando il Reichtag viene incendiato dai nazisti e prende avvio
una sanguinosa repressione contro comunisti e socialisti emergono le
responsabilità dell’IC e del Partito comunista tedesco che con la propria
opposizione all’unità di azione tra tutti i lavoratori avevano determinato
l’inerzia, la passività e la mancanza di una ben che minima resistenza del
proletariato tedesco nei confronti del crescente pericolo nazista.
Trotsky pone la questione della creazione del nuovo partito
in Germania, l’importanza della sua riflessione fa emergere dei problemi,
soprattutto in merito alla tattica da adottare nei confronti dell’IC. La
decisione di costruire il nuovo partito – e molti militanti ritenevano
necessario non limitare questa esperienza alla sola Germania – reca in sé la
prospettiva della costituzione di una nuova internazionale. Ma appunto in
prospettiva: infatti, solo dopo aver costatato, nei mesi che seguirono, tra il
marzo e il luglio 1933, la totale passività dell’IC e dei militanti
comunisti, Trotsky, nell’agosto, invita l’opposizione internazionale a
lavorare per la costituzione della Quarta.
Militante
del movimento operaio francese: 1934-1937
La ripresa dell’attività della classe operaia ed
un’improvvisa radicalizzazione delle masse tra la fine del 1933 e gli inizi
del 1934, legata alla situazione interna francese, ribalta la tendenza degli
anni precedenti. Il 12 febbraio operai socialisti e comunisti si confondono
spontaneamente in una grande, sola, manifestazione; l’unità diventa così un
fatto concreto. Inizia un processo tra la Sfio e il Pcf che li porterà, il 27
luglio, a siglare un patto d’unità d’azione, caratterizzato dalla difesa
nei confronti del movimento fascista, ma senza la prospettiva di rovesciare la
borghesia e che si pronuncerà poi per la collaborazione di classe. Ciò
nondimeno il 1934 segna per la Francia una svolta politica.
Anche la Ligue è chiamata ad una svolta. Paradossalmente,
proprio nel momento in cui i lavoratori francesi impongono l’unità ai propri
dirigenti, sancendo una vittoria politica per la Ligue (che ha sempre condotto
la propria azione all’insegna del fronte unico), il rischio dell’isolamento
diviene quanto mai pericoloso.
Di fronte a questa nuova situazione Trotsky propone alla
sezione francese una tattica “entrista” nella Sfio, con l’obiettivo della
creazione di un polo bolscevico per la Quarta Internazionale, passando per la
scissione del Partito socialista. Concepito in questo senso, l’ingresso nella
Sfio non si configura come una svolta dal punto di visto dei principi, ma nella
Ligue la nuova tattica suscita grosse reticenze e perplessità. Il 14 settembre
1934, quindi, quando l’ingresso dei trotskisti viene ufficialmente
annunciato sulle colonne de “Le Populaire”, il gruppo Naville-Tresso, che
non condivide la scelta, smentisce la notizia e fonda il Groupe Communiste
Internationaliste (Gci); poco dopo, tuttavia entra anch’esso nella Sfio. Con
l’approssimarsi del congresso socialista i due gruppi trotskisti sono indotti
ad elaborare una piattaforma comune. Inizia una stretta collaborazione fino
all’annuncio della fusione nel “Bulletin intérieur aux membres du Gbl”
dell’agosto 1935.
Ma la vita dei trotskisti all’interno della Sfio si fa
sempre più difficile. E’ Trotsky a considerare per primo, analizzando la
nuova situazione realizzatasi con l’Union Sacrée, la possibilità di
porre fine alla “attica entrista e quindi alla permanenza nella Sfio. La
maggioranza dei Gbl considera l’uscita prematura e non comprende la necessità
della nuova svolta, e la minoranza mostra delle esitazioni ad opporsi
apertamente al “Fronte popolare”. Trotsky segue con sgomento e interesse le
vicende del Gbl fino alla costituzione il 2 giugno 1936 del Parti Ouvrier
Internationaliste (2 ).
Militante
del movimento operaio italiano: 1934-1937
Il 1933 segna, come si è già detto la fine della Noi.
Bavassano e la sua compagna Teresa Recchia si legano al gruppo “juif”
che si oppone alla svolta verso la Quarta Internazionale e Ravazzoli si
allontana definitivamente dall’organizzazione trotskista.
Oltre alle tensioni create dalle divergenze più prettamente
politiche, esplode il “caso Leonetti”, frutto di una provocazione del Pci.
Solo nei primi mesi del 1934 la sezione italiana ritrova una certa stabilità
politica. Il processo di riorganizzazione della Noi trae linfa dall’afflusso
di nuove forze. Così, nel marzo 1934 appare “La Verità”. Il giornale viene
stampato su quattro pagine, e il suo titolo richiama alla memoria la
“Pravda” bolscevica e “La Vérité” francese. A spingere i trotskisti
italiani verso questo ambizioso progetto sono senza dubbio gli avvenimenti del
febbraio in Francia.
L’esperienza de “La Vérité” viene salutata
calorosamente da Trotsky e riceve alcuni consensi importanti nell’ambiente
dell’emigrazione. Ma il giornale non sopravvive al difficile retroterra
politico formatosi alle spalle dei due principali militanti italiani, Tresso e
Leonetti. Ciò che porta alla fine di questa esperienza è la loro rottura con
una consistente minoranza, guidata da Di Bartolomeo. Nella primavera del 1934 il
gruppo di minoranza abbandona la sezione italiana dell’opposizione per dare
vita a “La nostra parola”. Il nuovo clima e il mutamento della strategia
comunista, che nel luglio del 1934 si modifica bruscamente, favoriscono la
realizzazione di un’unità d’azione tra i due maggiori partiti operai
italiani. Il patto, sul modello francese è siglato il 17 agosto 1935. Anche per
i due gruppi trotskisti italiani si pone il problema della tattica entrista. E
due mesi dopo l’adesione di Tresso, inizialmente contrario, avvenuta nel
febbraio 1935, anche il gruppo “La Nostra Parola” entra nelle file del Psi.
Cosicché a partire dalla primavera del 1935 tutti i trotskisti italiani, ad
eccezione di Leonetti, si trovano all’interno del PSI, divisi in due gruppi:
il Gbl di Tresso aderenti al Psi e il gruppo “La nostra parola”. Nei mesi
successivi si assiste ad un lento avvicinamento tra i due gruppi fino alla
costruzione del Gbl unificato nel maggio.
La ripresa mussoliniana dell’iniziativa in politica estera
con l’invasione dell’Etiopia crea, secondo Tresso, un’occasione unica, la
prima dall’assassinio di Matteotti, da sfruttare contro il fascismo; ma nel
quadro del fronte popolare, e in scia alla linea del VII congresso (3 )
dell’IC, il PCd’I arriva fino al punto di proporre un allargamento di
quest’ultimo a settori dei fascisti stessi e a redigere l’”Appello ai
fratelli in camicia nera”, facendo fallire questa possibilità.
A partire dal luglio-agosto 1936 le notizie relative al
gruppo dei bolscevichi-leninisti italiani divengono più frammentarie. Di sicuro
si sa che Tresso partecipa, assieme a Leonetti, alla conferenza internazionale
per la Quarta (Parigi, 29-31 luglio 1936). E’ questo per le forze trotskiste
italiane un periodo complesso: la partenza di numerosi militanti per la Spagna
ridimensiona il loro organico e ciò fa sì che il n. 2 del “Bollettino
d’informazione” (1 agosto 1936) sia anche l’ultimo. In agosto le minacce
di espulsione da parte del Psi si fanno sempre più pressanti, ma la repressione
antitroskista viene sospesa a causa dell’indignazione che suscita il primo dei
processi di Mosca che si svolge nello stesso mese. In questo clima pesante,
fatto di vere e proprie persecuzioni da parte del PCd’I e dei fascisti c’è
chi nelle file trotskiste abbandona la lotta: tra questi un dirigente di lunga
data, Leonetti.
Fondatore
della Quarta Internazionale
Negli ultimi giorni di settembre, dopo un intenso lavorio
diplomatico, si arriva ad una vera svolta che provoca il crollo del quadro di
riferimento internazionale della politica di Fronte popolare. Il 30 settembre si
incontrano a Monaco di Baviera Chamberlain, Daladier, Hitler e Mussolini. La
diplomazia sovietica, che da anni lavorava per stabilire un rapporto organico
con le democrazie occidentali e in particolare con la Francia, viene esclusa
dal vertice.
A partire dall’inverno 1937-1938 in Francia la tensione
sociale si fa nuovamente alta, in risposta alle provocazione del padronato e del
governo. A marzo è la volta dei metallurgici e proprio in seguito a questa
nuova manifestazione della combattività operaia cadono Chautemps e un
successivo governo Blum per lasciare il posto ad un governo radicale con il
sostegno astensionista di Sfio e Pcf (12 aprile). Ma gli apparati burocratici
dei due partiti maggiori della classe operaia mantengono la loro egemonia,
guadagnano la guida degli scioperi e ne determinano le disastrose conclusioni
come testimonia il tragico fallimento dello sciopero generale del 30 novembre,
proclamato tardivamente, senza convinzione, in condizioni tali da renderne il
fallimento certo. Da questo momento la borghesia è finalmente in grado di
scatenare la propria offensiva. Arresti e licenziamenti in massa sono
all’ordine del giorno e chiudono così la pagina del governo di Fronte
popolare.
Il 23 agosto 1939 è annunciato il patto Stalin-Hitler, che
sconvolge lo stesso panorama politico della Francia. Dal 25 agosto cominciano i
sequestri dei giornali dei grossi partiti operai e delle organizzazioni
sindacali. Il primo settembre Hitler invade la Polonia e due giorni più tardi
la Francia è in guerra contro i nazisti. Il 26 settembre il Pcf è messo
fuori legge. Il 16 giugno, con le truppe tedesche a Parigi, il governo in fuga a
Bordeaux, il parlamento conferisce i pieni poteri al generale Pétain, libero di
collaborare con i nazisti sui resti della Francia libera.
Nel precipitare degli eventi Tresso partecipa in qualità di
delegato, con lo pseudonimo di Julian, alla conferenza di fondazione della
Quarta Internazionale (3 settembre 1938). Essa si tiene a Perigny, nei dintorni
di Parigi, clandestinamente per timore d’azioni della Gpu. Vi partecipano 21
delegati in rappresentanza di 12 paesi (altre 17-18 sezioni non furono in grado
di inviare i propri rappresentanti). Il dibattito congressuale ruota
principalmente attorno al progetto di programma elaborato da Trotsky intitolato L’agonia
del capitalismo e i compiti della Quarta internazionale, noto anche come Il
programma di transizione. La fondazione della Quarta risponde per Trotsky
alla necessità di radunare attorno ad un programma politico rivoluzionario i
militanti e le organizzazioni che lottano in differenti paesi contro le
conseguenze della degenerazione delle due precedenti Internazionali, per
costruire i nuovi partiti rivoluzionari. Sicuramente la fondazione della
Quarta e l’adozione del programma consentiranno al movimento trotskista di
resistere alle tremende pressioni dei nuovi, tragici, avvenimenti che si
delineano all’orizzonte, frenando la disgregazione organizzativa provocata
dagli eventi bellici.
Dalla
clandestinità all’arresto
Dalla fondazione dell’Internazionale gli eventi si
susseguono assai rapidamente. Nel 1938 si manifestano con chiarezza la sconfitta
della rivoluzione spagnola e quella dei lavoratori francesi. Lo scenario che
delinea la seconda guerra mondiale è quello di una scompaginazione e di una
dispersione nelle organizzazioni operaie. Il Segetariato internazionale della
Quarta è costretto a trasferirsi a New York dove si riunisce una Conferenza
straordinaria (detta anche “di emergenza”, 19-26 maggio 1940) della nuova
Internazionale trotskista. Il Manifesto, redatto per l’occasione da
Trotsky è il suo ultimo documento programmatico. La sua morte in Messico, il 20
agosto 1940, per mano di un sicario di Stalin, arreca un durissimo colpo al
movimento. Per di più, le difficili condizioni di lavoro politico imposte dalla
guerra accentuano ulteriormente la debolezza soggettiva delle organizzazioni
trotskiste ed evidenziano la profonda crisi delle loro direzioni.
La sezione francese non fa eccezione a questa norma generale.
Tresso, nella zona occupata, continua il lavoro politico clandestino, ridotto,
almeno in un primo tempo, a qualche incontro difficile da organizzare e a
qualche discussione sul da farsi e sull’orientamento da assumere. Ricercato
dalla Gestapo, alla fine del luglio 1941 lascia Parigi e raggiunge la “Francia
libera” a Marsiglia. E’ in contatto con Albert Demazière a quel tempo
responsabile politico dei Comitati per la Quarta Internazionale. Nascosto sotto
l’identità di Julien Pierotti, riceve i soldi che dagli Stati Uniti il
Segretariato internazionale invia in Francia per la riorganizzazione del Parti
Ouvrier Internationaliste. Diviene anche collaboratore del Centre Américan de
Secours (Acs), che provvede all’espatrio delle vittime della repressione
fascista e nazista.
Nel giugno del 1942 Tresso, Barbara e Demazière sono
arrestati assieme ad altri cinque militanti “di primo piano” dalla polizia
di Vichy. Processati, il 30 settembre 1942 vengono condannati, a
eccezione di Barbara, a pene diverse per aver “esercitato un’attività
proibita avente direttamente o indirettamente per obiettivo la propaganda di
parole d’ordine emananti o attinenti alla Terza Internazionale”: quella di
Stalin, il colmo per dei trotskisti. Tresso, Demazière e Reboul vengono quindi
trasferiti in una prigione militare e successivamente al campo di Mauzac (in
Dordogna). Nel campo la tensione tra i trotskisti e gli altri detenuti è
fortissima e decresce solo dove, con grandi difficoltà, si riesce ad instaurare
una discussione elementare.
Il 18 dicembre 1942 Tresso, Demazière e Reboul vengono
spostati al carcere di Puy-en-Velay. Qui ritrovano altri militanti trotskisti:
Maurice Ségal e Abraham Sadek.
Nell’autunno viene organizzata l’evasione di 79
prigionieri politici e del loro guardiano dalla prigione di Le Puy. E’ una
sfida enorme: il secondino è un militante socialista in contatto con la rete
dello Special Operations Executive inglese, specializzata nelle evasioni dalle
prigioni. La notte del 1 ottobre 1943 tutti i prigionieri, compresi i cinque
trotskisti, vengono liberati. Divisi in due drappelli, il gruppo di cui fa parte
Tresso, si installa nel campo “Wodli”, in località detta Raffy (Haute-Loire).
Demazière riesce a fuggire, Tresso, Reboul, Ségal e Sadek rimangono invece nel
maquis, dove “soggiornano” fino alla metà di novembre del 1943.
In questo periodo i quattro compagni sono costantemente
sorvegliati: non sono formalmente prigionieri ma la tensione e l’odio cresce.
A partire da questo momento si perde ogni traccia di loro. I
quattro militanti trotskisti scompaiono fra la fine di ottobre del 1943 e il
giugno del 1944, quando il campo “Wodli” si reinstalla a Sestrières. Per un
lungo tempo sulla loro sorte circolano ipotesi e voci più o meno credibili che
cercano di occultare l’unica evidente verità: la loro eliminazione per mano
degli stalinisti.
Una ricerca storica accurata e un libro, dopo il crollo dello
stalinismo che ha scucito molte bocche, hanno alzato il velo della menzogna e
ricostruito gli ultimi giorni di quei militanti, e in particolare l’assassinio
del più noto di loro, il fondatore e dirigente del Partito comunista d’Italia
Pietro Tresso (4 ). A sessant’anni di distanza, oggi sappiamo che cosa è
avvenuto in quei giorni della fine di ottobre del 1943.
Dopo la fuga, Pietro Tresso, Pierre Salini (Maurice Sieglmann),
Abraham Sadek e Jean Reboul sono stati uccisi, probabilmente mentre tentavano di
sfuggire ai loro assassini, il 26 o il 27 ottobre 1943, da un piccolo gruppo di
killer venuti per ordine del comandante del maquis Ftp (5 ) Giovanni
Sosso, l’uomo forte degli Ftp della zona, molto probabilmente un uomo dei
servizi di Mosca. Ancora non è stata fatta chiarezza invece su chi, nella
gerarchia stalinista al di sopra di Sosso, ai vertici del Pcf, del Pci e
dell’Internazionale, abbia dato l’ordine, o il via libera, per
l’esecuzione di Pietro Tresso.
Conosciamo, invece, le responsabilità degli uomini del Wodli,
che hanno negato l’omicidio, e addirittura la sua possibilità, proteggendo un
tale crimine e diventandone complici. Molti di loro erano giovani militanti che
avevano dato prove di coraggio straordinario, rischiando la propria vita per combattere
la barbarie nazista. In qualche modo anch’essi degli “eroi”, che intorno
alla lotta ed alla sofferenza comune erano riusciti a saldare una “fratellanza
umana” tale da creare un analogo ed opposto sentimento di esclusione nei
confronti di coloro che, pur condividendo la stessa lotta antinazista, non
appartenevano al loro gruppo che professava un pensiero meccanico ed acritico.
Da qui il lungo silenzio su quel crimine, quel silenzio sui
crimini dello stalinismo che anche il ricordo e la verità sulla vicenda di
questo militante e dirigente del movimento operaio italiano e internazionale
vuole rompere.
[Agosto 2003]
Note
(1) P. Broué e R. Vacheron, Assassini nel maquis. La
tragica morte di Pietro Tresso, Prospettiva, Roma, 1995. Più in generale
sulla vita di Tresso di veda Paolo Casciola, Vita di Blasco, Odeon
Libri,Vicenza, 1985.
(2) Esso deriva dall’unificazione del Por (a sua volta il
risultato dell’unione del 30-31 maggio 1936 tra Gbl e la Jsr) e il Pci.
(3) Il VII congresso dell’Internazionale comunista che si
apre a Mosca il 25 luglio 1935 segna una decisa svolta nella sua politica. Oltre
a rifiutare la definizione della socialdemocrazia come socialfascismo e del
fronte unico solo “dal basso”, esso si pone l’obiettivo
dell’unificazione sindacale e propone un maggiore decentramento dell’IC; ma
i due elementi nuovi e di fondamentale importanza sono: il rilievo dato alla
lotta contro la guerra presentata come un obiettivo politico da perseguirsi
con fermezza e convinzione, senza alternative e senza riserve, e l’ipotesi di
lottare per governi di “fronte popolare”, che dovrebbero combattere la
minaccia del fascismo e attuare una serie di riforme senza uscire dai limiti
della democrazia borghese.
(4) P. Broué e R. Vacheron, Assassini nel maquis. La
tragica morte di Pietro Tresso, Prospettiva edizioni, Roma, 1995. Si veda la
recensione che ne ha fatto la rivista “Proposta” nel n. 17 del luglio-agosto
1997.
(5)
La sigla Ftp sta per francs-tireurs et partisans, franchi tiratori e
partigiani, l’organizzazione partigiana controllata dal Pcf.
PERCHÉ
PIETRO TRESSO DOVEVA MORIRE
di
Franco Grisolia
Ripubblichiamo
una nota di Franco Grisolia a proposito del libro di Vacheron e Broué Assassinii
nel Maquis. La tragica morte di Pietro Tresso, pubblicata nel n. 17 di
“Proposta”.
Le edizioni Prospettiva hanno pubblicato (…) la traduzione
italiana del libro Meurtres au Maquis, pubblicato in Francia nel 1995,
la dettagliata ricerca sulle modalità della morte di Pietro Tresso e di altri
militanti trotskisti, scritta da Raymond Vacheron e Pierre Broué. Già
sindacalista e poi storico della Resistenza il primo, notissimo storico del
movimento operaio il secondo, autore di molti testi importanti di cui molti
tradotti anche in italiano (fra i quali: Storia del Pcus; Rivoluzione
in Germania 1917-1923; La rivoluzione e la guerra di Spagna, con E.
Temine; La rivoluzione perduta. Vita di Trotsky).
La
figura di Pietro Tresso – fondatore e dirigente del Pcd’I, compagno e amico
di Gramsci, oppositore dello stalinismo, fondatore e dirigente della Quarta
Internazionale – è già ben nota ai lettori di “Proposta” (…). Con una
indagine accurata e paziente il testo ricostruisce con esattezza gli accadimenti
fino ad individuare le modalità, il luogo e il giorno preciso in cui Pietro
Tresso e i suoi compagni Jean Reboul, Abraham Sadek e Maurice Sieglmann (Pierre
Salini) furono assassinati dai partigiani stalinisti dopo l’evasione da un
carcere fascista. Ricostruisce anche – sulla base degli indizi e delle
testimonianze raccolti – la probabile dinamica della decisione di procedere
all’uccisione di Tresso, la cui soppressione, per la personalità della
vittima, non è stata certo una “questione locale”. La responsabilità
immediata viene così individuata nella persona del comandante partigiano della
zona, l’italo-belga Giovanni Sosso, verosimilmente da molti anni agente dei
servizi sovietici in seno al Pcf. Ma viene evidenziata l’alta probabilità che
il via libera sia giunto direttamente da Mosca, con cui il Pcf era in contatto
radio, e si ipotizza che la decisione sia stata presa da Giulio Cerati, alto
dirigente italiano dell’apparato stalinista dell’Internazionale e nel
dopoguerra membro del comitato centrale del Pci. Togliatti, dal canto suo, pur
senza aver preso parte alla decisione, avrebbe coperto, allora e in seguito, il
tutto, come del resto fece sempre verso l’insieme dei crimini staliniani, in
particolare verso i comunisti italiani.
L’assassinio
di Pietro Tresso si inquadra del resto in quel vero e proprio sterminio dei
trotskisti che lo stalinismo intraprese e realizzò in molti paesi prima,
durante e dopo la seconda guerra mondiale (per fare solo i due esempi più
tragici: centinaia di militanti trotskisti furono assassinati in Vietnam e in
Grecia nel 1945). Lo stalinismo temeva sopra ogni cosa, infatti, i marxisti
rivoluzionari, coloro che avrebbero potuto indirizzare il proletariato verso una
vera rivoluzione socialista che avrebbe messo in questione gli inganni, i
compromessi col nemico di classe, la dittatura poliziesca dello stalinismo.
Al di là
di ogni aspetto contingente, fu questa la ragione vera e profonda della
decisione di assassinare il dirigente comunista Pietro Tresso. Se oggi Vacheron
e Broué riescono a descrivere i dettagli del fatto è perché, a oltre
cinquant’anni dagli avvenimenti, di fronte al crollo dello stalinismo sul
piano internazionale, “le bocche si sono aperte”. Molti di coloro che
allora furono autori o complici diretti del crimine, vittime anch’essi delle
loro illusioni di “difendere la causa del comunismo”, hanno collaborato a
ristabilire la verità. E forse la parte più commovente del libro è quella che
riporta le dichiarazioni di questi vecchi partigiani che oggi finalmente
capiscono: “Eravamo folgorati. Quando un capo ci diceva “È bianco”
dicevamo “E’ bianco”. Ci hanno ingannati, ci hanno fatto passare per
idioti. Abbiamo preso Stalin per un dio vivente…”. “Ah, se si
potesse tornare indietro, per questo e per molte altre cose”.
Il libro
di Broué e Vacheron e la loro inchiesta hanno avuto in Francia una larga eco.
Si è aperto un dibattuto all’interno del Pcf e lo stesso segretario Hue ha
scritto a Broué dichiarandosi commosso dal libro e completamente a favore della
ricerca della verità. Auspichiamo che una maggiore attenzione a questo tragico
evento storico, e alla bella figura di Pietro Tresso, si sviluppi anche in
Italia.
Rimangono
del resto alcuni elementi importanti da verificare, in particolare rispetto alle
responsabilità della decisione di uccidere Tresso e del tentativo di cancellare
successivamente le tracce del crimine. Nel libro si riporta la testimonianza di
Gianfranco Berardi, giornalista dell’“Unità” e militante del Pds. Berardi
era amico di Alfonso Leonetti, uno dei massimi dirigenti del Pci espulso con
Tresso nel 1930 per essersi opposto alla “svolta”, dirigente trotskista
negli anni trenta, che ha abbandonato il marxismo rivoluzionario rientrando nel
dopoguerra nel Pci. Secondo Berardi – che ha scritto sulla morte di Tresso
accennando anche a questa questione sull’“Unità” del 3 gennaio 1993 –
Leonetti, pochi giorni prima di morire, il 26 dicembre del 1984, gli aveva
rivelato di essere stato in possesso di documenti che provavano chiaramente le
responsabilità nella decisione e di aver ricevuto pochi giorni prima la visita
di due persone inviate dall’ufficio di segreteria del Pci (all’epoca era
segretario Alessandro Natta, vice Achille Occhetto e componente di segreteria
Massimo D’Alema) che gli avevano chiesto il permesso di distruggere tutta la
documentazione o, almeno, una lettera autografa di Togliatti del 1964 nella
quale l’allora segretario del Pci gli chiedeva di non sollevare la questione
Tresso. Leonetti aveva rifiutato tale permesso ma le carte erano finite in mani
non sicure; vicino alla fine, chiedeva all’amico Berardi l’impegno a
sollevare la cosa, ma non prima di dieci anni e della maturazione di determinate
condizioni politiche, “per non fare un favore a Craxi”.
E’
giunto il momento perché su questo episodio sia fatta piena luce e la
documentazione in questione, se non già distrutta, sia finalmente resa pubblica
[…].
[Giugno
1997]
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/ Un testo del 1917
UN
GRANDE MILITANTE E' MORTO… GRAMSCI
di
Blasco /Pietro Tresso)
Dopo undici anni di prigione, Antonio
Gramsci è morto per un’apoplessia in una clinica di Roma dove, da due anni,
la bestia le repressione fascista era costretta a trasferirlo per evitare che
l’uomo più amato dal proletariato d’Italia morisse nel fondo della sua
cella.
Antonio Gramsci era arrivato al socialismo negli anni
immediatamente precedenti la guerra del 1914, quando, giovane studente figlio di
poveri contadini, dalla nativa Sardegna era arrivato a Torino per continuare gli
studi. E nella capitale del Piemonte, a contatto con il proletariato industriale
più concentrato e più sperimentato d’Italia, fece i suoi primi passi sul
cammino della rivoluzione.
Anche se d’aspetto molto trascurato e con un fisico
sofferente, provocava subito un’enorme impressione in quanti lo incontravano.
Mussolini che nel 1914, prima del suo rinnegamento, era stato chiamato a Torino
dagli studenti socialisti si ricordava proprio di lui quando, otto anni dopo,
scrisse che il Partito comunista era diretto da un piccolo gobbo,
straordinariamente intelligente e scaltro...
La tormenta del 1914 e l’entrata in guerra dell’Italia nel
1915 trovarono Gramsci, ancora ignorato, ancora sconosciuto, al suo posto di
combattimento. Non si piegò per nulla. Le dicerie secondo cui egli avrebbe
avuto delle esitazioni, o addirittura delle simpatie per il movimento
“interventista”, sono solo insinuazioni abilmente diffuse da certi
“discepoli” dell’ultima ora che vogliono giustificare la loro
diserzione e la loro viltà.
Nel 1917, nell’anno più duro della guerra, nel momento in
cui la reazione si accaniva spietatamente contro i rivoluzionari, mentre Ercoli
(attuale segretario dell’Internazionale comunista) rinnegava il partito in
nome della “Magna Anglia”, Gramsci continua il suo modesto lavoro,
assicura il servizio di corrispondenza per l’organo centrale del partito,
l’“Avanti!”, e assicura i collegamenti con i compagni rimasti a Torino o
che ritornano dalla zona di guerra. Gramsci stesso mi ha assicurato, nel 1922,
che non era mai stato interventista.
Ma è solo nel 1919 che Gramsci rivela tutte le sue qualità
di polemista, di mente e di cuore della classe operaia e più in particolare,
del proletariato industriale del Piemonte. Nel 1919 il proletariato italiano è
in piena effervescenza rivoluzionaria. Gli arretramenti successivi della
borghesia avvicinano, agli occhi della classe operaia e delle masse lavoratrici,
la possibilità della vittoria definitiva, del trionfo della rivoluzione. Le
notizie che arrivano dalla Russia sulle vittorie e il consolidamento del potere
sovietico, caricano d’entusiasmo le masse. L’emblema della falce e del
martello copre i muri delle città e dei paesi da una parte all’altra
d’Italia. I nomi di Lenin e Trotsky sono acclamati come incitamento alla lotta
da milioni di operai, di soldati, di piccoli contadini. Il partito socialista,
che si rafforza di giorno in giorno, si rivela assolutamente impotente a
coordinare il movimento delle masse, a organizzare la rivoluzione. Anche
gli elementi più coscienti e decisi avanzano con passo incerto.
Emergono due nomi: Bordiga e Gramsci.
Bordiga, conosciuto dai giovani già prima della guerra, e che
meglio di Gramsci conosceva gli uomini del Partito socialista e il partito
stesso, fonda a Napoli il settimanale “Il soviet” e organizza in
tutta Italia la sua frazione (che più tardi sarà chiamata “frazione degli
astensionisti” perché sostenne l’astensione alle elezioni parlamentari). La
lotta di Bordiga è la lotta per la scissione dai riformisti e dai centristi; la
lotta per la costruzione di un partito rivoluzionario. Da più di un anno si
batte da solo per questo scopo. Gramsci non vede ancora questa necessità.
Dall’esperienza fresca della rivoluzione d’Ottobre e delle rivoluzioni in
altri paesi ricava soprattutto il fenomeno della crescita e dello sviluppo dei
“consigli di fabbrica”. Vede in questi consigli la forma, scaturita dalla
storia, dell’autogoverno delle masse lavoratrici, le cellule viventi
dell’“Ordine Nuovo”.
“L’Ordine Nuovo” sarà quindi il titolo del
settimanale che fonda a Torino e di cui prende la direzione. Tutta l’autentica
personalità di Gramsci, la sua originalità, la sua grandezza si trovano in
questo giornale. Per due anni, in articoli dallo stile molto personale, ma che
riflettono tutto il tormento e tutto lo sforzo creativo dell’avanguardia
rivoluzionaria del proletariato torinese, Gramsci dà fondo ai tesori della sua
intelligenza, della sua cultura e della sua passione rivoluzionaria, per dare
impulso ai consigli di fabbrica, per dimostrarne il valore distruttivo
dell’ordine capitalista e la loro necessità, in quanto cellule
costitutive dell’“Ordine Nuovo”, per l’ordine socialista e
comunista. Gli operai avanzati delle grandi fabbriche di Torino, i membri delle
“commissioni interne” si stringono intorno a lui. I burocrati sindacali lo
accusano di minare l’autorità e le funzioni dei sindacati, ma lui risponde
guadagnando alla sua linea la maggioranza sindacale e trasformando così i
sindacati in potenti sostegni dei consigli di fabbrica anziché essere
loro avversari.
La disfatta subita nel settembre 1920 dal proletariato
italiano, in seguito all’abbandono delle fabbriche occupate, segnerà anche la
fine del movimento dei consigli di fabbrica, a cui Gramsci ha dedicato il meglio
della sua vita. “L’Ordine Nuovo” si trasforma da settimanale a quotidiano,
ma sarà ormai un’altra cosa rispetto a quello che aveva fondato
Gramsci.
I filistei e i burocrati, quelli che oggi cercano di sfruttare
Gramsci a vantaggio del tradimento e della truffa staliniana, già ci presentano
un Gramsci truccato, irriconoscibile agli occhi di coloro che lo hanno
conosciuto e a lui stesso, se fosse ancora vivo. Noi invece possiamo dire che
anche Gramsci, malgrado le sue notevoli qualità, si è sbagliato, e su problemi
importanti. E possiamo aggiungere che ne era pienamente cosciente e che non
aveva timore a dirlo. La prova è che per tanti anni si è rifiutato a
raccogliere in un volume i suoi scritti. Alla fine si è deciso a farlo, e aveva
cominciato a scrivere una prefazione (aveva già riempito circa cento foglietti
con la sua piccolissima ma chiara calligrafia) in cui criticava se stesso con
quell’onestà intellettuale che lo caratterizzava. Questo progetto è stato
spezzato dal suo arresto, avvenuto all’epoca delle leggi eccezionali, e ora
dalla sua morte.
Non sappiamo quale sia stata l’evoluzione di Gramsci durante
gli undici anni di prigione, ma possiamo affermare questo: tutta l’attività
di Gramsci, tutta la sua concezione dello sviluppo del partito e del movimento
operaio si oppongono in modo totale allo stalinismo, alle sue infamie politiche,
alle sue spudorate falsificazioni. Una delle ultime azioni politiche di Gramsci,
prima del suo arresto, nel 1926, è stata il fare approvare dall’Ufficio
politico del partito italiano una lettera indirizzata all’Up del partito russo
in cui gli si chiedeva di mantenersi, nei confronti del compagno Trotsky, nei
limiti di una discussione fra compagni e di non adottare metodi che potessero
falsare í problemi in discussione e impedire al partito e all’Internazionale
di pronunciarsi con piena cognizione di causa. Questa lettera fu approvata anche
da Grieco (Garlandi), Camilla Ravera e Mauro Scoccimarro. Ma la lettera fu
inviata su un “binario morto” attraverso Ercoli [Togliatti] che, essendo a
Mosca e avendo sondato i destinatari, credette bene tenersela in tasca.
Possiamo affermare anche che, almeno dal 1931 e fino al 1935,
la rottura morale e politica di Gramsci con il partito stalinizzato era
completa. Come prova sarebbe sufficiente il fatto che durante questi anni la
stampa aveva messo in sordina la campagna per la liberazione di Gramsci, ma c’è
anche il fatto che Gramsci era stato ufficialmente destituito come “capo”
del partito e che al suo posto era stato collocato quel clown buono per tutti
gli usi che risponde al nome di Ercoli!
I compagni usciti di prigione ci hanno comunicato anche che,
due anni fa, Gramsci era stato espulso dal partito, espulsione che la direzione
aveva deciso di tener nascosta almeno fino a quando Gramsci avesse potuto
parlare liberamente. E ciò per poter sfruttare la personalità di Gramsci a
proprio fine. In ogni caso i burocrati staliniani si sono dati da fare per
seppellire Gramsci politicamente, prima che il regime mussoliniano non vi
riuscisse fisicamente.
Gramsci è morto, ma per il proletariato, per le giovani
generazioni che arrivano alla rivoluzione attraverso l’inferno fascista,
resterà sempre colui che, durante gli ultimi vent’anni, meglio di ogni altro
ha incarnato le sofferenze, le aspirazioni e la volontà degli operai e dei
contadini poveri d’Italia. Resterà un esempio di dirittura morale e di onestà
intellettuale assolutamente inconcepibile per la congrega dei leccapiatti
staliniani la cui parola d’ordine è “arrangiarsi”.
Gramsci è morto, ma dopo aver assistito alla decomposizione e
alla morte del partito che egli aveva potentemente aiutato a costruire, e dopo
aver sentito nelle sue orecchie i colpi di pistola caricati da Stalin che hanno
abbattuto tutta una generazione di vecchi bolscevichi. Gramsci è morto, ma dopo
aver saputo che altri vecchi bolscevichi, come Bucharin, Rikov e Rakovski erano
già pronti per il macello. Gramsci è morto per un colpo al cuore, forse non
sapremo mal che cosa ha contribuito di più ad ucciderlo: se gli undici anni di
sofferenza nelle prigioni mussoliniane o i colpi di pistola che Stalin ha fatto
tirare nella nuca di Zinoviev, di Kamenev, di Smirnov, di Piatakov e dei loro
compagni nei sotterranei della Ghepeù.
Addio Gramsci.
[Pubblicato
per la prima volta in “La Lutte Ouvrière”, giornale dei trotskisti
francesi, nel n. 44, del 14 maggio 1937]
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/ Un testo del 1938
MUSSOLINI
POTEVA ESSERE FERMATO?
Recensione
di "Nascita del fascismo: l'Italia dal 1918 al 1922" di A. Tasca
di
Blasco (Pietro Tresso)
L’articolo
che segue, comparso in francese a firma “Blasco” nel numero 11,
dell’agosto 1938, di “Quatrième Internationale”, è una recensione del
libro sulla nascita del fascismo di A. Rossi, pseudonimo di Angelo Tasca, già
dirigente del Partito comunista d’Italia, in seguito esponente della tendenza
della destra “buchariniana” ai vertici del partito, infine espulso e
approdato a lidi socialdemocratici. Temi e argomenti di questo saggio sono, a
sessantacinque anni di distanza, ancora straordinariamente attuali (si pensi
alla tragedia cilena di trent’anni fa, o ai giorni nostri la questione della
lotta contro Berlusconi) e la lezione di Tresso ci sembra più che mai
stimolante.
A.
Rossi, l’autore di questo libro, si propone di spiegare, vale a dire di
ricostruire con la massima approssimazione possibile, il dramma sociale che, il
29 ottobre 1922, sfociò nell’avvento del fascismo italiano al potere.
Per
giungere a ciò, A. Rossi (Angelo Tasca) comincia il suo studio considerando la
situazione italiana nel momento in cui l’ultimatum dell’Austria alla Serbia
attraversò come un lampo l’Europa, precipitandola nella spaventosa
carneficina imperialista del 1914-18. L’Italia si trovava in piena crisi
politica e sociale. Appena uscita dalla guerra di Libia, essa era attraversata
da una profonda agitazione, il cui momento culminante fu la “settimana
rossa” di Ancona, definita da Rossi come “rivolta anarchica”, ma che, in
realtà, fu una grandiosa esplosione del grave malcontento che da anni pervadeva
le masse operaie della Penisola, soprattutto a causa della corruzione delle
classi dirigenti italiane e della loro impotenza a risolvere i problemi posti
dalla storia. La “settimana rossa”, durante la quale il proletariato della
provincia di Ancona e della Romagna lasciò più di cento suoi appartenenti sul
selciato, fu il segnale indicante che l’Italia era veramente impregnata di
Rivoluzione.
Mussolini,
allora direttore dell’organo centrale del Partito socialista Italiano,
l’“Avanti!”, esalta nei suoi articoli infiammati il movimento, mentre i
capi riformisti del partito e della Cgil lo sconfessano e lo denigrano.
Poi
viene la guerra mondiale. Mussolini è d’accordo, come tutto il Partito
socialista, fermamente neutralista. Egli denuncia i veri scopi imperialisti
della guerra, si fa beffe della “farsa sentimentale” montata attorno al
“Belgio martire” e invita il proletariato a non cadere nella rete che i
compari reazionari e democratici gli tendono, per trascinarlo al massacro per i
loro sporchi interessi di classe. Ma improvvisamente, illuminato dai sacchi
d’oro che, attraverso Marcel Cachin, gli vengono inviati dall’ambasciata di
Francia, cambia bandiera, passa nel campo degli “interventisti”, fonda il
“Popolo d’Italia”, costituisce i Fasci d’azione rivoluzionari e si
lancia in una campagna sfrenata, che riesce, per mezzo delle manifestazioni di
piazza, a trascinare l’Italia nel conflitto.
Proprio
in questi Fasci d’azione rivoluzionari si deve situare l’origine del
movimento che, con le trasformazioni successive, diventerà il fascismo sotto il
cui giogo i lavoratori sono tuttora schiacciati.
La
guerra non ha risolto nessuno dei problemi che l’Italia si trovava di fronte
già quattro anni prima. Li ha aggravati, aggiungendovene altri, ancor più
pesanti e spinosi. Pur facendo parte della coalizione degli Stati vincitori,
l’Italia si è trovata, in realtà, nelle condizioni di uno Stato quasi vinto.
Nella ripartizione del bottino imperialista, il brigante italiano si è visto in
qualche modo spogliato dai suoi compagni di strada, i briganti
dell’imperialismo anglo-franco-americano. Al malcontento delle masse
lavoratrici, che sapevano di aver fatto la guerra per conto dei loro
sfruttatori, e che non avevano visto mantenuta nessuna delle promesse che erano
state fatte loro per convincerle a restare al fronte, si aggiunge dunque il
malcontento dei “responsabili” della carneficina, i quali pure si accorgono
di essere stati lo zimbello del re di Prussia. La tensione politica in Italia
diviene enorme. E’ un formidabile vulcano, dal quale la lava sgorga e si
insinua in ogni spaccatura della società italiana.
Tutte le
classi sono in ebollizione. Nel corso degli anni 1919-1920, gli operai e i
salariati agricoli si lanciano in scioperi quasi a getto continuo, spinti a ciò
non solo da una condizione di spirito che vuole “cambiare il mondo”,
seguendo l’esempio dei loro fratelli russi che, nel 1917, hanno preso il
potere, ma anche dalla necessità di difendere le loro condizioni immediate di
vita, che peggiorano continuamente, nel marasma generale e per l’aumento del
costo della vita.
Le
“vittorie” li trascinano avanti, le sconfitte li temprano. Le tappe di
questa agitazione straripante, profonda e spontanea, sono costituite
dall’ammutinamento delle truppe inviate in Albania, ammutinamento che indica
il livello di dissoluzione dell’esercito italiano e lo spirito rivoluzionario
che regna tra le truppe, e dal vasto movimento contro il carovita, movimento che
in pochi giorni infiamma l’Italia da Nord a Sud, e nel corso del quale sui
prezzi praticati alla vendita vengono imposti ribassi fino al 50%. La potenza di
questo movimento è tale che quasi dovunque i commercianti si presentano alle
Camere del lavoro e alle sezioni sindacali per affidare loro le chiavi delle
botteghe. I soldati fraternizzano con la folla, aiutandola nelle sue azioni
contro gli “speculatori” ed offrendole armi. Viene poi il grave sciopero
dell’aprile 1920, a Torino, sciopero provocato dal padronato col pretesto di
introdurre l’ora legale, ma in realtà per cercare di farla finita coi
Consigli di fabbrica, che, soprattutto in quella città, si sono molto
sviluppati. Infine, vi sono le occupazioni delle fabbriche nel mese di settembre
del 1920, occupazione che non si limita a balli e partite a bocce, come in
Francia nel 1936, ma che costituisce un notevole tentativo di mettere
effettivamente mano all’apparato della produzione.
Da parte
loro, i salariati agricoli marciano senza esitazioni sullo stesso cammino
tracciato dai loro fratelli, gli operai delle città. In tutte le province
italiane essi riescono a imporre contratti di lavoro, e completano il loro
movimento rivendicativo con tentativi ed anche con effettive occupazioni di
terre. I ceti medi seguono, soprattutto all’inizio, manifestando simpatia per
l’inarrestabile movimento.
Dall’altra
parte della barricata, ma con caratteri complessi che avrebbero potuto, in larga
misura, essere utilizzati, anche direttamente, dal proletariato, si ha il
movimento dei Legionari fiumani, il cui capo è D’Annunzio, e il cui scopo
principale è l’occupazione di Fiume, piccola città di frontiera, per
annetterla all’Italia. E poi si ha la nascita e lo sviluppo… del fascismo.
E’
impossibile riassumere qui tutte le vicissitudini attraverso le quali il
movimento fascista riuscì ad affermarsi fino ad impadronirsi del potere. Il
libro di Rossi illustra con notevole abbondanza le diverse fasi di questa
fulminante avanzata, ma, a nostro avviso, esso trascura o nega del tutto i veri
problemi. Con ogni evidenza, Rossi, attraverso la descrizione, spesso
emozionante, dello straripamento fascista e dell’incapacità, del
“nullismo” politico dei partiti proletari, mira a giustificare e ad esaltare
la politica del “Fronte popolare” che ha trionfato in Francia nel 1936. Dal
libro di Rossi si evince nettamente che una politica da Fronte popolare avrebbe
preservato l’Italia dal fascismo.
Il
dilemma di fronte al quale si trovava e si trova l’Italia – socialismo o
fascismo – non solo viene negato da Rossi, ma viene etichettato come
“perfido”. Tuttavia, perfido o no, è proprio questo il dilemma che la
storia ci pone sotto gli occhi, qui e, come mostra lo sviluppo della lotta, in
tutti i paesi del mondo, non solo in Italia. Rossi ha ragione quando afferma che
il movimento operaio è stato vinto in Italia non dal fascismo ma
dall’inettitudine, dalla dissoluzione interna e dall’inesperienza dei
partiti che dovevano condurlo alla vittoria. E’ un fatto che il fascismo si è
aperto la strada non mediante la distruzione diretta delle organizzazioni
proletarie (e ciò nonostante l’appoggio e la collaborazione attiva ottenuti
da parte di tutti i governi “democratici” che si sono succeduti in Italia
dalla fine della guerra fino all’ottobre del 1922), ma grazie al ristagno e
alla paralisi nella quale, ad un certo momento, si trovò bloccato il movimento
operaio. Ma, quand’anche fossero state utilizzate, le ricette indicate da
Rossi come suscettibili di evitare la catastrofe ci appaiono come cataplasmi
inutili, assolutamente inadeguati a salvare le masse lavoratrici italiane dalla
schiavitù fascista.
Per
Rossi, il vero problema da risolvere in Italia era quello dell’integrazione di
ampie masse popolari, e soprattutto del proletariato, nello Stato.
Bisognava creare lo Stato popolare italiano. In concreto, ciò significa
che allo Stato borghese, che correva il rischio di dissolversi sotto gli
attacchi congiunti delle varie forze sociali italiane, occorreva fornire una
base di massa, per salvarlo e al tempo stesso impedire che quella base gli
venisse fornita dalle forze ostili al proletariato.
Ricordiamo
prima di tutto che quest’idea non ha nulla di originale, nemmeno in ambito
italiano. Possiamo affermare che, dal 1900, essa ha ispirato tutta la politica
di Giolitti, il più grande corruttore della vita politica italiana. Essa ha
ispirato anche la politica dei riformisti. Questa politica fece fallimento già
nel clima relativamente tranquillo di anteguerra, perché l’integrazione delle
masse popolari nello Stato (borghese) non poteva significare per esse,
soprattutto in Italia, se non la rinuncia passiva ad ogni miglioramento e ad
ogni progresso reale. Così pure, essa non poteva significare altro che la morte
di ogni coscienza di classe del proletariato italiano, i cui diversi tronconi
non sarebbero serviti che da supporto alla politica dei diversi raggruppamenti
industriali e agrari della Penisola. Gli “eccidi proletari” che
insanguinarono, con frequenza tristemente famosa, la vita politica italiana nei
quattordici anni che precedettero la guerra mondiale, hanno dimostrato che
questa integrazione (integrazione volontaria e di collaborazione,
naturalmente: l’integrazione per mezzo della forza il fascismo l’ha attuata)
non era altro che un sogno. Tanto più chimerica essa doveva apparire – e lo
era – nella situazione del dopo guerra, quando tutte le masse erano lanciate
in avanti verso nuove conquiste politiche e sociali, e quando, per poter
continuare ad esistere, le classi sfruttatrici avevano bisogno di ricacciarle
indietro. Integrare le masse nello Stato, dopo la guerra, non avrebbe
significato – come pensa Rossi – permettere loro di utilizzare i suoi
meccanismi per consolidare ed estendere le proprie conquiste, ma avrebbe
significato spezzarne le forze e sottometterle spontaneamente (per mezzo delle
mitragliatrici socialdemocratiche) allo sfruttamento ancor più forte dei
capitalisti e degli agrari.
Ma ciò
avrebbe almeno risparmiato all’Italia la dominazione fascista? Rispondere con
un sì o con un no a questa domanda sembra una questione un po’ fuori tempo…
I fatti hanno risolto il problema a modo loro. Tuttavia bisogna considerare
questo: abbiamo già avuto esperienze simili a quelle preconizzate da Rossi; tra
le altre, in Austria e in Germania, e più recentemente in Francia e in Spagna.
Nei primi due casi, il fascismo ha vinto quasi senza combattere: la resistenza
opposta dagli operai viennesi nel 1934 contraddice i mezzi preconizzati da
Rossi. L’integrazione delle masse nello Stato, operata in Austria e in
Germania mediante la collaborazione della socialdemocrazia al governo, è
servita solo, come primo passo, ad arrestare il cammino della rivoluzione, per
poi torcerle il collo definitivamente.
In
Francia, il passaggio di Blum al governo non ha in nulla modificato
l’atteggiamento dello Stato in favore della classe operaia. E’ riuscito solo
a farle mandar giù una politica d’insieme che nessun governo non di Fronte
popolare, negli attuali rapporti di forza, sarebbe stato capace di imporle. Non
appena Blum ha accennato ad un gesto di resistenza – se vogliamo chiamarlo così
– è stato messo gentilmente alla porta. In Spagna, una battuta d’arresto
contro Franco è stata data dalle masse insorte contro il tentativo fascista e
contro… lo Stato “repubblicano”. Esso, non solo con tutte le sue
strutture, ma perfino coi membri del suo governo, o passa apertamente a Franco o
è pronto alla capitolazione. Nella misura in cui le masse della Spagna
“repubblicana” sono state “integrate” nello Stato borghese dopo il
luglio 1936, la guerra civile contro il fascismo è stata trasformata sempre più
in una guerra tra clan legati agli imperialismi rivali. Gli scopi specifici del
proletariato e delle masse nella lotta contro il fascismo vengono messi in
disparte ogni giorno di più, e al loro posto vengono adottati fini
borghesi-imperialisti, cosicché le masse vedono sempre meno chiaramente perché
esse stanno versando il proprio sangue; il che si traduce in un notevole aiuto a
Franco. I veri disfattisti della lotta antifascista sono ancora una volta coloro
che, al servizio della borghesia nazionale e dell’imperialismo straniero,
privano le masse delle ragioni essenziali della loro dedizione e resistenza fino
alla morte.
Questi
pochi esempi ci autorizzano ad affermare che l’integrazione delle masse
italiane nello Stato (ammesso che essa fosse stata possibile) non avrebbe
evitato il fascismo; eventualmente, essa gli avrebbe aperto un’altra strada
per raggiungere il suo scopo. Bisogna inoltre sottolineare che il fascismo non
è stato solo un mezzo per garantire alla borghesia lo sfruttamento
“pacifico” delle masse all’interno del paese. Esso è stato soprattutto un
mezzo per sviluppare la sua potenza esterna. Sfruttamento “pacifico”
all’interno e potenza esterna sono le condizioni necessarie senza le quali
ogni borghesia nazionale è votata alla decadenza e alla morte. Si pone dunque
questa questione: o le masse “integrate” si prestano volontariamente,
spontaneamente, alla politica di autoschiavizzazione e di saccheggio imperialista,
o vengono ben presto de-integrate e schiacciate senza pietà, vale a dire che
vengono “integrate” nello Stato alla maniera fascista. Non vi erano altre
alternative possibili in Italia per coloro che, come Rossi, si basano sul
mantenimento del capitalismo e del suo Stato.
Da
questa posizione iniziale deriva anche la posizione di Rossi su tutti gli altri
problemi sollevati nel suo libro: procederemo per sommi capi.
Tutta la
critica di Rossi alla socialdemocrazia italiana si riduce a questo: essa
doveva entrare nel Governo. Per far che? Per impedire che il posto…
venisse occupato da altri! Solo che non basta occupare il posto: bisogna anche,
tra l’altro, decidere chi paga le spese di guerra. La borghesia? Ma allora non
rimane altra risorsa che espropriarla e abbatterla. Ma Rossi sa molto bene che
non per questo era stata sollecitata la collaborazione socialista. Del resto,
quella sarebbe stata la sola collaborazione alla quale i “socialisti” alla
Turati si sarebbero risolutamente rifiutati con tutte le loro forze. Forse il
proletariato e le masse lavoratrici? Senza dubbio… ma allora occorrerà
domarle, perché esse non possono e non vogliono più vivere nelle condizioni
attuali. Il “perfido” dilemma si ripresenta sempre. I “socialisti”, che
erano fondamentalmente ostili ad ogni rivoluzione in Italia, hanno certo
commesso un crimine rifiutando la collaborazione di governo. Sarebbe stato mille
volte meglio che essi avessero svolto apertamente il loro ruolo (e in questo
caso, anche indirettamente, la classe operaia poteva ricavarne dei vantaggi),
piuttosto che ridursi a pugnalare la rivoluzione tra le quinte. Perché il
“nullismo” massimalista e, più tardi, l’inesperienza dei giovani quadri
comunisti, non possono in alcun modo “giustificare” o attenuare il
tradimento degli altri.
Del
resto, esaminandola come fa Rossi, la collaborazione dei socialisti al governo
non avrebbe fatto altro che ridurli al ruolo di semplici fantocci nelle mani dei
loro “alleati”. Rossi, in effetti, pone la questione in questi termini: sul
terreno della forza nel paese, il proletariato e le masse lavoratrici non
potevano che essere battute. Bisogna dunque entrare nel governo per utilizzare
le forze dello Stato. Ma se questo è vero, allora coloro che entrano nel
governo devono farlo accettando le condizioni imposte dall’avversario
(l’avversario delle masse lavoratrici). E questi non è così stupido da
offrire a colui che si trova alla sua mercè le armi per farsi abbattere;
d’altronde, tutti coloro che hanno offerto la “collaborazione” ai
socialisti (Nitti, Giolitti ecc.), hanno fatto loro questo semplice discorso: o
voi entrate nel governo e ci aiutate a strangolare il movimento operaio, o
saremo obbligati a farlo con la Guardia reale e con le bande fasciste. Tutta la
strategia di Rossi consiste nell’accettazione di questa collaborazione.
Per
questa ragione egli nutre solo disprezzo per quei poveri socialisti bolognesi
che, di fronte alle minacce fasciste, apertamente ed ostensibilmente sostenute
dal governo che offriva ai socialisti di collaborare, decidono di difendersi da
soli. Occorreva, secondo lui, chiedere allo Stato di difendere le sue stesse
istituzioni. E poi? Se lo Stato ritiene che per difendere le sue istituzioni è
necessario cacciarne i socialisti eletti dalle masse? Se, per arrivare a ciò,
esso arma i fascisti, li inquadra come ufficiali dell’esercito e li spinge
all’attacco protetti dalle forze di polizia? I profeti disarmati sono votati
alla disfatta, ma colui che si mette sotto la protezione delle armi
dell’avversario che vuole abbatterlo non ha maggiori chance di sfuggire
ad essa. Rossi giustamente critica Matteotti, quando questi invita i contadini
del Polesine a non resistere con le armi ai fascisti, ma lo critica perché,
secondo lui, la non-resistenza alla base doveva avere come complemento
un’azione ancor più energica a Roma. Ma quale azione energica potevano
attuare a Roma coloro che vi arrivavano dalla provincia in qualità di
postulanti, con la coda e le orecchie lacerate dai morsi dei lupi fascisti che
Roma proteggeva con le armi? Non è forse evidente che essi potevano solo essere
oggetto della cortesia ironica dei portieri dei ministeri? Non è evidente che
per pesare a Roma bisognava essere in condizioni di distruggere i nidi fascisti
che la capitale organizzava in provincia? E in tal caso, dove andare a cercare
la “collaborazione”?
Nel suo
libro Rossi dibatte anche il problema dei soviet, dei Comuni e delle camere del
lavoro. Invece di inseguire fantomatici soviet, estranei all’esperienza
italiana, occorreva, secondo Rossi, appoggiarsi alle camere del lavoro e ai
Comuni: questi due organismi avrebbero potuto sostituire efficacemente i soviet.
Sostituirli per far che? Per entrare in un’alleanza ministeriale col cappio al
collo? Certamente: per far ciò i soviet sono inutili. Ma l’esperienza
italiana ha dimostrato anch’essa che il soviet non è affatto un organismo
specificamente russo. Nelle fabbriche, durante gli scioperi, durante le
manifestazioni contro il carovita, in mille altre occasioni, gli operai e le
masse hanno dato vita spontaneamente ad organismi che li riunivano e li
dirigevano, al di fuori ed oltre i limiti delle camere del lavoro (senza parlare
dei Comuni, istituzioni dello Stato borghese).
Il fatto
che i dirigenti del Partito socialista italiano (i Bombacci, i Gennari ed altri
stolidi di questa specie), invece di appoggiarsi sull’esperienza delle masse,
volessero creare dei “soviet” così come li vedevano nel loro povero
cervello, non toglie nulla al fatto che questi organismi venivano scoperti
spontaneamente dalle masse, almeno nella loro forma embrionale, ogni volta che
esse ne avevano bisogno. Ciò spiaceva molto ai mandarini riformisti e ai loro
avvocati, ma era un fatto.
Nonostante
le idee del suo autore, noi raccomandiamo particolarmente ai giovani la lettura
del libro di Rossi. Essi vi potranno apprendere molte cose. Prima di tutto,
l’incapacità, la carenza, il tradimento dei dirigenti dei partiti proletari
italiani di fronte al fascismo insegneranno loro – speriamo – a trovare
altre strade per vincere questo terribile nemico. Vedranno poi mediante quali
mezzi il fascismo italiano, guidato da Mussolini, è giunto al potere. Vedranno
prima di tutto che il fascismo si è presentato sin dal primo momento come
un’organizzazione di combattimento, un’organizzazione armata. Ha saputo
sfruttare a fondo i mezzi legali e quelli illegali per raggiungere il suo scopo.
Ha ampiamente utilizzato le forze dello Stato per proteggere la sua azione, ma
in ogni momento si è preoccupato di avere una forza armata propria, dipendente
solo da se stesso. E non solo una forza armata, ma anche una polizia, e mezzi di
comunicazione e di collegamento: insomma, tutto ciò che devono avere
un’organizzazione e un partito che vogliano effettivamente prendere il potere.
Dal libro di Rossi derivano lezioni di strategia e di tattica politica della
massima importanza per i giovani, i quali, rompendo col socialismo alla Blum, si
riuniscono sotto la bandiera della Quarta Internazionale per vincere ove altri
hanno perso, fallito e tradito.
[Pubblicato
per la prima volta in “Quatrième Internationale”, n. 11, agosto
1938. Traduzione di Giuliano Corà.]