1924
- 2004: a ottanta anni dalla scomparsa di Lenin
L'avvenire
appartiene al bolscevismo
di Ruggero Mantovani
La storiografia ufficiale
persino nel suo tratto formale sembrerebbe aver dimenticato che ottanta anni fa,
il 21 Gennaio del 1924, scompariva il più importante dirigente rivoluzionario,
che contribuì a determinare nel secolo scorso due fenomeni che hanno segnato
innegabilmente la vicenda del Novecento: la formazione del partito bolscevico e
la rivoluzione russa.
Una rimozione sistematica di
Lenin, delle sue opere e delle lotte politiche contro il revisionismo, che ha
accomunato negli ultimi decenni la cultura borghese, socialdemocratica e
stalinista, che seppur da versanti e con toni differenti ha assunto la finalità
di rimuovere un precedente pericoloso per le classi dominati e sicuramente
ingombrante per chi, nella sinistra italiana, è cresciuto all’ombra del
togliattismo.
Una rimozione obiettivamente
presente anche in Rifondazione Comunista, che spesso ha descritto le posizioni
“avanguardistiche” di Lenin segnate dalla contingenza storica, dichiarando
apertamente superato il problema della conquista del potere da parte della
classe operaia e costruendo da questo versante un’inaccettabile
identificazione tra Lenin e Stalin.
Un superamento di Lenin in nome
di un ritorno a Marx in definitiva privato del marxismo e dei suoi codici
essenziali: il partito comunista, avanguardia del movimento operaio e la
conquista del potere politico quale primo tassello per la costruzione del
socialismo.
L’obiettivo dichiarato è
stato, ed è tanto più oggi, dissolvere quel filo rosso che da Marx ed Engels
è giunto a Lenin e a quella generazione di rivoluzionari che, nei primi del
Novecento, fecero della battaglia contro il revisionismo socialdemocratico, e
successivamente contro lo stalinismo, per opera di Trotsky e della IV
Internazionale, il tratto essenziale del marxismo conseguente.
Lenin trascorse tutta la sua
esistenza coniugando la lotta teorica alla battaglia politica nella
socialdemocrazia russa (Posdr) e nella II Internazionale, nella costante
prospettiva di costruire quel partito bolscevico, che lungi dall’esser stato
“il fine” o peggio ancora un feticcio, era assunto come strumento
indispensabile per la liberazione delle masse oppresse e che fece ritener a Rosa
Luxemburg nel 1918: <<Quel che importa è distinguere nella politica dei
bolscevichi l’essenziale dall’accessorio, la sostanza dall’accidente… A
questo riguardo Lenin e Trotsky con i loro amici sono stati i primi che hanno
dato l’esempio al proletariato mondiale e sino ad ora sono stati gli unici che
possono gridare con Hutter: “Io ho osato”. Questo è l’elemento essenziale
e duraturo della politica bolscevica (…). In Russia il problema poteva essere
soltanto posto. Non poteva essere risolto in Russia. Ed è in questo senso che
l’avvenire appartiene dappertutto al “bolscevismo”>>.
In definitiva per Lenin, se il socialismo e la conquista del potere
politico costituivano il compito storico del proletariato, la dialettica
partito-masse ne rappresentava un fattore assolutamente ineliminabile:
<<dateci un’organizzazione di rivoluzionari e capovolgeremo la
Russia>> come scriveva nel Che
fare ? (1902).
Ma Lenin riteneva che la formazione dialettica e vivente di un partito
non era un atto d’auto-proclamazione, un fenomeno chimico ed elitario distinto
dal tratto materiale della lotta di classe. La costruzione di un partito
d’avanguardia era (ed è) un processo complesso, lungo e spesso drammatico,
che incontra momenti di raggruppamenti, scissioni e incessanti prove prima di
divenire il partito della classe operaia.
Per Lenin non esisteva la
variegata famiglia della sinistra, sia in versione moderata sia radicale, come
nel Prc ritiene la mistica bertinottiana e i cangianti satelliti della
maggioranza, destri e sinistri, che intorno ad essa gravitano. Lenin riteneva
che l’immensa maggioranza dei dirigenti sindacali e socialdemocratici erano
“agenti della borghesia” nel movimento operaio e che il compito del partito
era di conquistare un’egemonia alternativa nella prospettiva socialista.
La costruzione del partito bolscevico a cui Lenin legò la sua
battaglia teorica e politica, oltre che tutta la sua esistenza, è stata il
frutto di un’incessante lotta di frazione all’interno di quelle forze che si
richiamavano alla prospettiva socialista. Nel Che fare?, in uno dei testi più importanti che Lenin scrisse sulla
concezione del partito, affermava che: <<Senza teoria rivoluzionaria non
vi può essere movimento rivoluzionario. (…) Bisogna essere ben miopi per
giudicare inopportune e superflue le discussioni di frazione e la rigorosa
definizione delle varie tendenze.Dal consolidarsi dell’una piuttosto
dell’altra “tendenza” può dipendere per lunghi anni l’avvenire della
socialdemocrazia russa>>[1].
La rimozione di Lenin, delle sue opere e persino dell’ottantesimo
anniversario della sua scomparsa, è anzitutto segnata dalla negazione di quella
democrazia operaia che ha fatto della libera discussione, della lotta tra
tendenze e frazione la migliore eredità del comunismo, liquidata in
quest’ultimi decenni dalle forze staliniste e semistaliniste della sinistra
italiana e dell’estrema sinistra sviluppatasi nel ’68 e ben interiorizzata
dalla pratica politica e organizzativa del Prc, nonostante gli astratti proclami sulla
democrazia interna e sul superamento dello stalinismo declamati al V congresso.
La produzione letteraria e la lotta politica di Lenin traducono, in
definitiva, l’indefessa militanza di un dirigente comunista, che lottò sia
contro l’opportunismo socialdemocratico e sia contro quel rivoluzionarismo
generico e populista (spesso presente nel movimento antiglobal e nel Prc),
entrambe tendenze che specularmente hanno prodotto profonde deformazione del
marxismo[2]
.
Lenin condusse una dura battaglia contro il movimento “populista”
(nato tra il 1870 e 1880), il quale ritenendo che la Russia, non avendo
conosciuto il capitalismo come i paesi europei,
sarebbe passata dalle piccole cellule rurali (i mir) al comunismo,
considerava ininfluente il ruolo della
classe operaia.
Ma con pari intensità Lenin
contrastò le tendenze terroristiche, contrapponendo al terrore il lavoro tra le
masse, l’organizzazione di milioni di uomini per conquistare la maggioranza
del proletariato politicamente attivo, alla prospettiva socialista, ritenendo
che la rivoluzione non fosse un pusch, o un colpo di stato, di una minoranza
distaccata dalla dialettica della lotta di classe, ma, nella prospettiva
storica, l’accumulo di forze maggioritarie che avrebbe decomposto l’ordine
capitalistico.
Già nel 1894, Lenin, in “Che cosa sono gli amici del popolo e come
lottano i socialdemocratici” esprime eloquentemente il concetto di
rivoluzione:
<<quando i rappresentanti di avanguardia della classe operaia,
avranno assimilato l’idea del socialismo scientifico, l’idea della funzione
storica dell’operaio, quando queste idee si saranno largamente diffuse e
quando gli operai avranno solide organizzazioni e trasformeranno la guerra
economica in lotta di classe cosciente, all‘ora l’operaio russo postosi alla
testa di tutti gli elementi democratici, condurrà, al fianco del proletariato
di tutti i paesi, sulla via diretta della lotta politica, alla vittoria della
rivoluzione comunista.>>.
La natura del partito e la
dialettica coscienza – spontaneità.
Con la nascita della
socialdemocrazia russa (a Minsk nel 1889), Lenin sviluppò una profonda
battaglia teorica e politica contro la destra del marxismo legale, di cui Struve
ne fu il più autorevole rappresentante. Questa tendenza rinnegando l’idea
dell’egemonia della classe operaia diede vita all’economicismo, e cioè ad
una deviazione della lotta economica. Da queste impostazioni nel Posdr nasceva
la frazione menscevica, la quale riteneva che gli operi dovevano interessarsi
solo alle rivendicazioni salariali e la borghesia liberale alla lotta politica.
E’ proprio nel Che fare? e
in particolare al II congresso del Posdr (1903) nello scontro con l’area
menscevica, che Lenin pose le questioni essenziali per il bolscevismo: il
rapporto partito-masse, il nesso direzione-spontaneità, il tema unità-democrazia.
Lenin si oppose tenacemente all’economicismo dei menscevichi, poiché
riteneva che il significato rivoluzionario di ogni conquista democratica,
disvelasse l’incapacità della borghesia ad essere conseguente con la propria
rivoluzione: solo il proletariato nella lotta per il socialismo avrebbe
realizzato il programma democratico abbandonato dalla borghesia.[3]
L’economicismo riteneva che la coscienza politica delle masse si
sviluppasse per moto spontaneo con il montare dei movimenti. Ma senza un partito
unitario e centralizzato, spiegava Lenin, le esigenze, i risultati, e le stesse
rivendicazioni del movimento non avrebbero trovato alcun’unità, e abbandonata
la sua spontaneità, il movimento si frantumava, si disperdeva e moriva
nell’apatia e nella sfiducia.
Il movimento, riteneva Lenin, poteva sviluppare solo frammenti di
tattica spesso contrastanti tra loro, ma la costruzione di un reale processo di
trasformazione sociale doveva incontrare una tattica unitaria, una prassi e
metodi di lotta generalizzabili, poiché la forma spontanea delle lotte
istintive scaturiva da “un’espressione emotiva di vendetta e di
disperazione”[4],
che nel suo stadio superiore pur emancipandosi in lotta sindacale, non diveniva
mai coscienza socialista
Per Lenin,dunque, la coscienza socialista non
nasceva mai spontaneamente (o ideologia
borghese o ideologia socialista come affermava nel Che Fare? )[5]
, ma proveniva dall’esterno delle lotte economiche e maturava tra le masse
nell’intensa lotta ideologica proprio contro la spontaneità delle trade
unions e delle tendenze riformiste. Una lezione straordinaria e estremamente
attuale. D’altronde, in questi anni, il rifiuto del Prc di costruire
all’interno dei movimenti una direzione di marcia, di conquistarne
un’egemonia alternativa, e di combattere le impostazioni neo riformiste e
piccolo borghesi, se da un lato ha minato profondamente l’anticapitalismo
latente nel movimento, dall’altro ha rappresentato il fattore principale di un
obiettivo ristagno del movimento stesso e della sua capacità propulsiva.
La prima vittima del movimentismo è, tanto più
oggi, il movimento stesso!
In definitiva il partito d’avanguardia non è mai stata la caricatura di un’elite separata dal movimento e
dalla classe operaia, così come ancora oggi i tristi epigoni del peggior
revisionismo tentano di dimostrare, ma un’articolazione organizzativa e
politica dei diversi livelli della coscienza di classe.
Il rapporto partito –masse,
direzione– spontaneità, era ricollegata da Lenin al centralismo democratico,
che non ha mai rappresentato (come asserivano gli economicisti) una visione
autoritaria, ma voleva indicare l’unità nella visione generale (teoria
rivoluzionaria, programma transitorio, generalizzazioni tattico-strategiche)
rappresentata da un gruppo dirigente, democraticamente eletto e sempre
sottoposto a revoca, che costruiva il partito quale raggruppamento
d’avanguardia.
La scissione dal menscevismo.
La guerra imperialista della Russia contro il Giappone è stato
l’avvenimento più importante del 1904 e fu decisiva per lo scoppio della
rivoluzione del 1905, senza la quale
sarebbe stato impossibile la rivoluzione del 1917.
I menscevichi fecero blocco con
i liberali che nel frattempo avevano ripreso vigore, sottoscrivendo petizioni
indirizzate allo zar e insistendo che non bisognava spaventare la borghesia.
Riproponevano l’idea di assegnare alla borghesia la lotta politica e al
proletariato le rivendicazioni economiche. Lenin sapeva che solo la classe
operaia era l’unica forza che avrebbe spezzato le catene dell’autocrazia
zarista e della nobiltà liberale.
Per questo motivo i bolscevichi ruppero con i menscevichi e decisero
per la scissione e al III congresso (nella metà del 1905) misero all’ordine
del giorno lo sciopero generale, l’insurrezione e la messa a punto di un
programma per la rivoluzione imminente. Quando l’autocrazia zarista
cominciò a fare concessioni e decise di convocare la Duma, mentre i menscevichi
videro l’inizio del parlamentarismo e la possibilità di un nuovo compromesso
con la borghesia, i bolscevichi sapendo che il tempo della rivoluzione era
maturato, rifiutarono qualsiasi partecipazione alla Duma e contribuirono alla
formazione del primo soviet a Pietroburgo, embrione del futuro governo
operaio.
L’inflessibilità nei fini che si coniugò costantemente con la
flessibilità della tattica, contraddistinse
la lotta teorica e politica di Lenin e rappresentò il tratto più
autentico del marxismo conseguente. Con la stessa determinatezza, quando nel
1907 lo Zar sciolse la II Duma, e si formò tra i bolscevichi una tendenza
maggioritaria (Otzovismo) per il boicottaggio delle elezioni, Lenin minacciò di
abbandonare quel partito bolscevico per cui aveva lottato tutta la sua vita,
spiegando che bisognava stare accanto agli operai, il che avrebbe comportato
l’entrata nella Duma arcireazionaria, nei sindacati, malgrado fossero
maggioritari i menscevichi, nelle cooperative e nei circoli.
Insomma non bisognava staccarsi dalle masse!
Se avesse vinto la tendenza antileninista il bolscevismo si sarebbe
trasformato in una setta. [6]
Al contempo proprio nel 1908 con il saggio dal titolo Marxismo
e revisionismo, Lenin continuava a combattere con nettezza e determinatezza
l’atteggiamento dei riformisti in merito ai blocchi elettorali con i liberali,
poiché riteneva:
<<Questi accordi non fanno che annebbiare la coscienza delle
masse, non accentuano ma attenuano l’importanza effettiva della loro lotta,
legando i combattenti agli elementi più inetti della lotta, più instabili ed
inclini al tradimento>>. L’inflessibilità contro qualsiasi compromesso
con la borghesia, con il social riformismo in occidente e con il riformismo
liberale (cadetti) in Russia, in Lenin si è sempre coniugata con la duttilità
di manovra, nella prospettiva dell’accumulo delle forze di avanguardia. Un
decennio più tardi Lenin pubblicava il testo L’estremismo malattia infantile del comunismo, contro quelle
tendenze ultrasinistre, eredi in parte dell’otzovismo. Un manuale di tattica
elettorale contro l’astensionismo, con cui Lenin dichiarava la necessità, in
certe condizioni, di accordi tattico-elettorale con i riformisti, definendo però
un “tradimento” gli accordi programmatici con la borghesia, poiché
avrebbero eliminato l’autonomia dei comunisti e in definitiva la loro stessa
esistenza.
Una lezione di straordinaria attualità, che fatte le dovute
differenze storiche, fa emergere la pericolosità per la rifondazione comunista
di un eventuale accordo di programma con i social riformisti attuali.
La rottura con i menscevichi si ebbe a Praga nel 1912, malgrado Lenin
la riteneva matura già nel 1910. Quando i bolscevichi ebbero la maggioranza,
garantiti anche da una nuova classe operaia che si era formata dal 1907 al 1911
durante il periodo della reazione e delle nuove mobilitazioni, rialzarono la
bandiera del bolscevismo e fondarono La
Pravda.
Nel
1913 e soprattutto nel 1914 il conflitto sociale si acutizzò: si videro le
prime barricate, con una classe operaia e contadina più avanzata e un partito
più forte. Ma la guerra portò alla distruzione del partito. Lenin esule
lanciava la parola d’ordine della trasformazione della guerra imperialista in
guerra civile, tentando di aprire un varco nella II Internazionale, che ormai
asservita alla borghesia votava i crediti di guerra. Quando scoppiò la guerra
tutte le tendenze russe erano socialscioviniste tranne il bolscevismo, che
continuò ridotto al lumicino a costituire una piccola tendenza di sinistra nel
movimento zimmerwaldiano. Una situazione che fece del bolscevismo ancora nel
febbraio del 1917 una forza piccolissima, ma quando il menscevismo fece di nuovo
l’accordo con la borghesia, legata mani e piedi all’imperialismo, seppe
realizzare quella rivoluzione che fu il filo conduttore della storia del
marxismo.
E’ Trotsky, nel suo scritto Classe, partito e direzione, a ricordare che senza Lenin non vi
sarebbe stata la rivoluzione Russa e al contempo senza il partito bolscevico,
quale organismo di quadri e militanti formati in anni di lotte teoriche e
politiche, interne ed esterne al partito, Lenin non avrebbe potuto dirigere la
rivoluzione.
All’inizio del febbraio 1917 le imponenti manifestazioni
contro la guerra e la formazione dei Soviet portarono alla caduta dello Zar, ma
<<solo Lenin manteneva una concezione rivoluzionaria chiara e profonda. I
quadri del partito erano dispersi e notevolmente confusi>>,
come ricordava Trotsky nell’opera citata. Difatti, nella primavera del
1917, Lenin rientrato dall’esilio iniziò una dura battaglia, sia contro
l’ambigua posizione di Kamenev - Stalin, che tendeva né al sostegno né
all’opposizione al governo provvisorio Kerensky (di centrosinistra), e sia
contro quei quadri più radicali che, pur proponendo l’opposizione al governo,
non riuscivano ad articolare un programma per la presa del potere. Un
riorientamento del partito da parte di Lenin, in un momento decisivo della
rivoluzione Russa, né facile né scontato: è Stalin, difatti, ad impedire la
pubblicazione sulla Prava delle Tesi d’Aprile con cui Lenin rifiuta il sostegno al governo
provvisorio e lancia la parola d’ordine di trasformare “la guerra
imperialista in guerra civile”.
Ma le Tesi
d’Aprile furono assunte contro il governo Kerensky dalle grandi
manifestazioni dei Soviet che si svilupparono nel Luglio 1917, nonostante
l’impazienza delle masse portò a gravi scontri che il governo represse
duramente.
Anche Lenin, così come altri dirigenti bolscevichi fu
perseguitato dal governo e proprio dal suo nascondiglio, contro le
mistificazioni revisioniste di Plechanov e Kautsky, scriveva il saggio Il
Marxismo e lo Stato, che nel 1918 fu pubblicato con il titolo Stato
e rivoluzione. Un’opera di chiarezza teorica in merito alla natura dello
stato e ai compiti del proletariato, con cui Lenin puntava l’indice contro il
revisionismo: <<dei putrescenti partiti riformisti che avevano snaturato o
dimenticato gli insegnamenti della Comune di Parigi e l’analisi che ne ha
fatto Marx ed Engels>>.
E così, quando il generale
reazionario Kornilov nell’agosto del 1917 tentò il colpo di stato, Lenin
riteneva che bisognava “sostenere il
governo Kerensky come la corda sostiene l’impiccato”, ed ottenuta la maggioranza nei Soviet, nell’ottobre del 1917, il
comitato centrale del partito decise per l’insurrezione, risolvendo
il dualismo di potere nel gennaio del
1918, con lo scioglimento manu militari dell’assemblea costituente,
assegnando “ tutto il potere ai Soviet”. La trama che segnò gli otto mesi
della rivoluzione Russa fece emergere gli
assi fondamentali del bolscevismo: la conquista dell’egemonia su settori di
massa politicamente avanzati e la presa del potere politico.
Subito dopo la rivoluzione
Russa, Lenin torna sui temi già affrontati in Stato e rivoluzione pubblicando Il
rinnegato Kautsky. Si trattava di difendere la dittatura proletaria nata
dalla rivoluzione dagli attacchi dei Kautsky, che in quel periodo pubblicava La
dittatura del proletariato, con cui si erigeva a paladino dell’Assemblea
Costituente in nome della democrazia. Lenin sosteneva l’impossibilità di una
democrazia pura, di uno stato in cui vi fosse un’eguaglianza tra sfruttati e
sfruttatori, ricordando al rinnegato Kautsky che la “dittatura proletaria”
era stata l’essenza del marxismo, e che gli strumenti nati dai Soviet erano
“mille volte più democratici di qualsiasi democrazia borghese”, poiché in
essi vi era rappresentato il potere della stragrande maggioranza della
popolazione.
Una traiettoria che se da un
lato ha costruito l’essenza del bolscevismo, dall’altro ha costituito il
testamento di Lenin che lo portò, nel 1922 ormai profondamente colpito dalla
malattia, a condurre l’ultima sua battaglia contro Stalin, che il 3 Agosto
dello stesso anno era stato nominato Segretario generale del Partito.
Il giovane stato operaio era
stato letteralmente sfiancato dalla guerra civile, una situazione che produsse
una crisi economica che in parte la Nep aveva risollevato, facendo però
emergere una strisciante ristrutturazione capitalista , di cui la
nuova borghesia dei nepman e i kulaki ne furono eloquenti riferimenti. La
gravissima crisi del 1921, di cui la tragedia di Kronstadt ne era stata la
diretta traduzione, aveva indotto Lenin alla soppressione momentanea del diritto
di frazione, che doveva essere accompagnata dall’epurazione dal partito dei
malfattori e degli opportunisti, spesso anche di origine zarista, che avrebbe
dovuto incoraggiare la rigenerazione di nuove leve rivoluzionarie, anche per
supplire alle perdite di una parte rilevante di quei bolscevichi morti durante
la guerra civile. Lenin lottò duramente nei suoi due ultimi anni di vita, sia
contro la burocrazia del partito e sia contro la politica sciovinista sulla
nazionalità di Stalin e di Ordionikidze, entrambi fenomeni nati dall’incultura,
dall’arretratezza, oltre che dall’isolamento dello stato sovietico.
Una battaglia che si acutizzò nel dicembre del 1922
quando Lenin con una lettera al Comitato Centrale del partito, nota come
Testamento, insieme al proscritto (del 4 gennaio 1923) e alla lettera del 31
dicembre sulla nazionalità, sconfessava la politica di Stalin, denunciando la
brutalità della russificazione della Georgia e del progetto di annessione
all’URSS delle repubbliche causasiche. Una politica apertamente sciovinista
che stracciava la stessa
costituzione sovietica del 1918 e il principio di autodeterminazione dei popoli.
Quando nel gennaio 1924 Lenin muore, la sua straordinaria elaborazione teorica e
l’ineguagliabile esperienza rivoluzionaria, che ne costituiscono l’autentico
testamento, era raccolta da Trotsky, che iniziava la battaglia antiburocratica,
il cui esito nel 1938 fu la nascita della IV Internazionale, nel momento in cui
lo stalinismo divenne a metà degli anni trenta con Fronti Popolari una forza
organicamente antirivoluzionaria.
Ad ottant’anni dalla scomparsa
di Lenin, il suo pensiero lungi dall’essere un dogma o peggio ancora
un’icona da celebrare, ha segnato la traduzione coerente del marxismo e una
guida per l’azione, che tanto più oggi costituisce uno strumento
ineliminabile per la rifondazione di una teoria e di una prassi del comunismo e,
per dirla con le parole di Rosa Luxemburg, lascia sperare che l’avvenire possa
appartenere ancora al bolscevismo e a quell’ineliminabile aspirazione di
liberazione delle masse oppresse.
[1] Sulle divergenze tra bolscevichi e menscevichi a proposito della rivoluzione e della forma che questa avrebbe assunto si vedano, tra i molti scritti di Lenin, i seguenti: Due tattiche; Proletariato e democrazia Borghese; Il proletariato e i contadini; La socialdemocrazia e il governo rivoluzionario provvisorio; La dittatura democratica del proletariato e dei contadini; I compiti democratici del proletariato rivoluzionario – Opere Complete, cit. VIII. Due Tattiche della socialdemocrazia nella rivoluzione democratica; Opere complete cit. IX La rivoluzione russa e i compiti del proletariato – Opere complete cit. X; Prefazione a “Forze motrici e prospettive della rivoluzione russa” di K. Kautsky – Opere Complete cit. XI
[2] Nel 1912 il Posdr si divideva,secondo un elenco steso da Rosa Luxemburg in 12 frazioni. Quella bolscevica era la più importante.Il partito che diresse la rivoluzione fu in realtà il prodotto della unione di bolscevichi di cinque frazioni (tra cui quella di Trotsky) e minoranze significative di tre.
[3] Lenin, Un passo in avanti e due indietro, Roma, Editori Riuniti.
[4] Lenin, Che Fare?, Roma, Editori Riuniti.
[5] “Coscienza spontanea e coscienza socialista”, in Lenin, Che Fare?, Roma, Editori Riuniti.
[6] Grigorij Evseevic Zinov’ev, La formazione del partito bolscevico, Graphos.