Giovani Comunisti e Movimento dei Disobbedienti

 

Quando la disobbedienza s'inceppa

 

Alcune note su Impero, pratiche di piazza e collaborazione di classe

 

di Fabiana Stefanoni*

 

Attento osservatore e implacabile critico delle dirigenze riformiste nel movimento operaio, Marx ci insegnava che "ciarlatanismo scientifico e accomodamenti politici sono inseparabili": una verità che appare incontestabile anche a chi, come noi, si trova oggi costretto a confrontarsi con tendenze teoriche e politiche che, pur mantenendo invariata la tendenza all'accomodamento politico, non mancano di condire il pressappochismo teorico con le più vuote e contraddittorie astruserie. E' il caso delle recenti, ennesime elucubrazioni di Toni Negri e Michel Hardt, i teorici di riferimento di quei rappresentanti del movimento no-global che si richiamano alla disobbedienza. Dar conto del ciarlatanismo dei due non è certo impresa ardua: basta sfogliarne le ultime (copiose e redditizie) pubblicazioni per rendersi conto della leggerezza (faccia tosta, direbbero i più malevoli) con la quale affrontano l'incongruenza rispetto ai fatti della loro teoria dell'Impero.

Se in Empire pareva ormai certo il dissolversi di qualsiasi possibilità di guerra intesa nei termini classici di conflitto intercapitalistico a vantaggio dell'esplodere di fantasmagoriche "guerre civili" entro i confini dell'Impero; se si sosteneva l'avvenuto passaggio epocale alla nuova era del "lavoro immateriale" destinata a tradursi nel fatale cadere del movimento dei lavoratori nel dimenticatoio della storia; se si profetizzava l'avvento di "nuovi corpi cyborg" capaci di muoversi in spazi liberati in virtù della sola forza di volontà; ad oggi tutto questo ha ricevuto una clamorosa smentita dai fatti. Il movimento dei lavoratori e delle lavoratrici è sceso in piazza e si è fatto sentire con rinnovata forza (benché ancora una volta tradito da direzioni riformiste); l'ideologia degli "spazi liberati" ha rivelato il proprio carattere illusorio a fronte dell'aggravarsi delle condizioni materiali, di vita e di lavoro, delle nuove generazioni; soprattutto, lungi dall'essersi appianate in un'immaginifica Pax Imperii, le contraddizioni imperialiste sono esplose palesemente in occasione delle recenti guerre, con il succedersi di aggressioni da parte americana e, in particolare, con la contrapposizione tra gli interessi di Stati Uniti da una parte e, dall'altra, quelli di Francia e Germania, potenze traino dell'affermazione di un polo imperialista europeo in grado di sfidare la superpotenza sullo stesso terreno guerrafondaio e neocoloniale.

Un'evidenza -la suddetta contrapposizione- talmente eclatante da non lasciare indifferenti nemmeno i nostri due professori, che hanno dovuto quindi in qualche modo fare i conti con la storia. Ne sono usciti in maniera goffa, facendo affidamento sul fatto che la teoria dell'Impero era talmente fumosa da lasciare spazio alle più disparate interpretazioni. E' così che nella notte in cui tutti i gatti sono grigi del nuovo ordine imperiale è spuntata l'ammissione che sì, forse c'è qualcosa di imperialista nella pratica del governo statunitense; ma tutto questo non c'entra con l'Impero che è e resta un non-luogo, una "sovranità che non ha esterno", che non ha centro né confini, che è e che non è (si veda Guide: cinque lezioni su impero e dintorni di Toni Negri, una raccolta di saggi accuratamente scelti per supportare questi voli teorici). In che cosa consista questa "nuova sovranità" proprio non si capisce, ma Negri e Hardt ci consolano con benevolenza: non lo capiamo perché non si può dire, per ora, dove essa risieda, sicuramente non più negli stati nazionali, sicuramente altrove, probabilmente nell'Impero ma nessuna certezza è data: aspettiamo fiduciosi il calar della sera e tutto un dì sarà più chiaro.

Ma non finisce qui. Nel giro di pochi mesi nelle librerie è comparsa un'altra raccolta di saggi negriani, L'Europa e l'Impero (manifestolibri 2003), che, per com'è impostata, ribalta clamorosamente la recente insistenza sulla nebulosità dell'Impero: il potere imperiale torna a coincidere -perlopiù- con gli Usa, la cui "incontrastata egemonia" è data per incontestabile. Negri si sveglia un bel mattino e si ricorda di aver già dato un volto e un nome alla "forza eccessiva e straripante" (sic!) della moltitudo: Europa Unita. Di fronte allo strapotere statunitense, l'Europa -quasi entità metafisica- rappresenta "un segno di efficienza produttiva, di maturità degli spiriti, di modernizzazione culturale". Da qui l'esaltazione dell'introduzione dell'euro, di Francia e Germania quali incarnazioni delle forze più vive europee, dell'Europa politica, del mercato unico, della "centralizzazione di politica estera e militare", dello sviluppo di strutture federali: tutto ciò, secondo Negri, gioverebbe al "proletariato europeo del postfordismo" (non si capisce il perché, esattamente come non si capisce in cosa tale proletariato consista). La prospettiva di un altro mondo possibile si riduce al far dispetto alla superpotenza america: dato che il potere imperiale Usa non vuole l'unità politica dell'Europa di conseguenza va bene per noi, evidente no? Non solo: tutti coloro cui conviene la costituzione dell'Europa Unita diventano inesorabilmente nostri alleati, a partire dalle "imprese europee che si sono ristrutturate sullo spazio multinazionale" e dalla "borghesia tecnocratica e intellettuale che pone il problema dell'unità politica europea come terreno di trasferimento (e di consolidamento) del privilegio tecnocratico e amministrativo" (sic!). L'espressione di Marx -"ciarlatanismo scientifico"- conserva intatta la sua efficacia.

Ma Marx diceva anche che cialtroneria teorica e accomodamenti politici vanno a braccetto. Se Negri e Hardt si occupano perlopiù della prima, Casarini e i dirigenti del "partito" disobbediente si dedicano ai secondi. Al di là dei richiami generici al disobbedire, alla resistenza dei corpi e delle menti, alla "guerra civile" nell'Impero -parole d'ordine che esercitano una notevole influenza su tanti giovani convinti così a torto di abbracciare una causa se non rivoluzionaria quantomeno radicale e antagonista- la disobbedienza di Casarini & Co. è un progetto politico dai netti caratteri riformisti, sostanziato dalla collaborazione di classe e dalla esplicita rivendicazione di esperienze di governo in combutta con la borghesia. L'"esperimento Nord-Est" è la concretizzazione, sul terreno locale, di questo progetto e la giunta di Venezia n'è l'espressione (ahinoi) più avanzata. Qui i Disobbedienti di Casarini vantano un rapporto privilegiato coi dirigenti dei Verdi -che amministrano la giunta di Venezia insieme a Margherita (il sindaco Costa è di questo partito), Ds e maggioranza del Prc-, ricevendo anche cospicui finanziamenti in cambio del "controllo" del dissenso giovanile. Che poi quella giunta comunale sia in Italia all'avanguardia nello smantellamento dei servizi pubblici (si pensi alla recente privatizzazione del trasporto urbano) per Casarini e compagnia poco conta: la collaborazione di classe a Venezia è per i leaders disobbedienti un'esperienza indubbiamente proficua... E' solo uno dei tanti esempi che ci confermano la giustezza di un principio fondamentale del marxismo rivoluzionario: se manca la discriminante di classe, se non si parte dall'idea che qualsiasi alleanza di governo, anche locale, con i partiti della borghesia è destinata a tradursi nel tradimento delle classi lavoratrici, a poco vale rifugiarsi in generici richiami alla guerriglia o in estemporanei e teatrali scontri di piazza (spesso, tra l'altro, nel caso dei Disobbedienti, concordati con le questure).

Fuorviante da questo punto di vista è il "teatrino sulle pratiche" che, da qualche tempo a questa parte, anima il dibattito nel movimento no-global, coinvolgendo in primo luogo Disobbedienti e Giovani Comunisti. Come tutti abbiamo visto, dopo la manifestazione all'Eur in particolare (ma il tutto rimanda alla querelle sullo sfascio degli sportelli del bancomat di qualche mese fa), si è accesa una pomposa discussione sulla giustezza o meno degli scontri di piazza di quel giorno. I dirigenti dei Disobbedienti casariniani, preso atto della radicale perdita di consenso tra i giovani del movimento -anche a vantaggio di gruppi di autonomi e anarchici, come è apparso evidente dalle dinamiche di piazza delle ultime manifestazioni-, stanno disperatamente tentando di uscire dall'impasse per mezzo di una "radicalizzazione di facciata": nell'assemblea nazionale del Movimento delle/dei disobbedienti che si è svolta a Roma all'indomani della manifestazione del 4 ottobre è uscito un documento che rivendica "fino in fondo la contestazione del vertice, in tutte le sue articolazioni". Si tratta del grossolano (e disperato) tentativo di compensare ancora una volta con la recita di piazza la mancanza di un progetto di reale alternativa di sistema e di guadagnarsi uno spazio di visibilità a fronte del rapido sfoltirsi delle proprie fila.

E' qui che s'inserisce la controversia coi dirigenti di maggioranza dei Giovani Comunisti che, come sappiamo, hanno aderito fin dagli inizi al Movimento dei disobbedienti. Il Prc sta procedendo a larghe falcate verso un'alleanza di governo con l'Ulivo per la prossima legislatura e -a testimonianza di come sia urgente la necessità di un Congresso straordinario che interrompa questo processo- ciò condiziona e compromette fin d'ora l'intervento politico del nostro partito, anche nei movimenti. Il Centro borghese dell'Ulivo chiede alla maggioranza del Prc di ammantarsi di credibilità agli occhi del padronato italiano, dei cui interessi il Centrosinistra resta il rappresentante privilegiato: certe scene di guerriglia urbana non vanno proprio giù ai dirigenti dell'Ulivo (e a Confindustria), occorre che il Prc, se vuole candidarsi a partito di governo, si dia una regolata (il caso D'Erme è emblematico). Così si spiega la sferzata pacifista che ultimamente segna gli interventi dei dirigenti di maggioranza: l'Esecutivo nazionale Gc pubblica su Liberazione (16 ottobre 2003) un lungo documento in cui si prendono le distanze da qualsiasi forma di violenza; Fausto Bertinotti dà una pacca sulla spalla ai dirigenti dei Gc ricordando che la nonviolenza è una scelta strategica discriminante anche per il movimento dei movimenti (Liberazione, 24 ottobre 2003).

A questo punto, i Disobbedienti di Casarini colgono la palla al balzo per dare il benservito ai Giovani Comunisti Disobbedienti (arrivando fino alla provocazione di Lutrario, del Centro sociale Corto Circuito di Roma, che chiede ai Gc di sciogliersi): non accettate queste pratiche di piazza? Ovvio, siete servi del vostro partito che sta trattando con Prodi. Vero. Ma è il caso di ricordare a Casarini che il partito con cui lui flirta in allegria (i Verdi) fa la stessa cosa, anzi di più: è parte organica dell'Ulivo e si è reso complice, nella passata legislatura, di gravissime politiche neoliberiste e guerrafondaie. Ci viene il sospetto che l'apparenza del ragionamento di Casarini vada esattamente rovesciata. Forse è proprio perché il Prc con un accordo nazionale col Centrosinistra rischia di insidiare ancor di più i Verdi Disobbedienti sullo stesso triste terreno -quello della collaborazione di classe- che si arriva alla resa dei conti.

Del resto, non è la prima volta che la co-implicazione di Verdi disobbedienti e Maggioranza Prc in alleanze di governo con la borghesia sfocia in un conflitto acceso per la difesa autoreferenziale di privilegi istituzionali. Anche in questo senso, il "Laboratorio Venezia" è fonte inesauribile di esempi negativi. Da tempo Venezia è teatro di scaramucce tra Verdi disobbedienti e maggioranza del Prc per l'assegnazione della gestione dei servizi sociali alle rispettive cooperative di riferimento, le quali, tra l'altro, sfruttano i lavoratori con contratti addirittura peggiorativi rispetto agli accordi collettivi nazionali di lavoro: tra i protagonisti della bagarre hanno un ruolo di primo piano gli assessori che si giostrano i finanziamenti da destinarsi alle cooperative stesse, ovvero Beppe Caccia (Verdi disobbedienti) e Paolo Cacciari (maggioranza Prc). Se non si parte da questo dato si fa ben fatica a comprendere le reali ragioni -"materiali", è il caso di dire- che stanno alla base della recente diatriba sulle foibe. I fatti sono presto detti. Il Prosindaco di Venezia Bettin (altro amico dei Disobbedienti) e il sindaco Costa, con il voto a favore dell'assessore del Prc Cacciari (!), decretano il cambio di nome a Piazzale Tommaseo a Marghera, intitolandolo "ai martiri giuliano-dalmati delle foibe". Sul palco, al momento dell'inaugurazione, ci sono Costa, il verde disobbediente Bettin e... autorevoli esponenti di An, ben contenti di ricevere l'inaspettato regalo dalla giunta di centrosinistra; nel piazzale, rappresentanti dell'Associazione nazionale carabinieri e diversi corpi dell'esercito tra i quali alpini e bersaglieri con le relative insegne in pompa magna (come s'evince da questo quadretto, l'altro mondo possibile cui i disobbedienti hanno dato vita a Venezia assomiglia terribilmente al vecchio). Alcuni circoli del Prc organizzano, insieme a Cobas Scuola, Rete Antirazzista e Verdi Colomba, un sit-in di protesta ed espongono uno striscione con la scritta "Vergogna". A questo punto una quarantina di Disobbedienti del centro sociale Rivolta (di stretta osservanza casariniana) intervengono inizialmente con insulti e grida, poi con calci e pugni ai danni dei compagni del Prc. S'affacciano anche alcuni ultrà di An che si beccano pure loro (quest'ultima cosa non ci rammarica) una bella dose di legnate. Tutta la caciara induce Bettin a ventilare le dimissioni, proposito che rientra ben presto. I comunicati di solidarietà al Prosindaco arrivano da tutte le parti: Casarini è il primo, che rincara la dose accusando di "stalinismo" i circoli del Prc e rivendicando in pieno l'operato di Bettin ("rappresenta un tipo di sinistra che non è classica"); subito dopo giunge quello del governatore del Lazio Storace ("il fatto che un esponente della cultura socialista rivendichi il patrimonio e la memoria per i Caduti delle Foibe significa che una battaglia decennale condotta dalla destra in questo Paese si fa strada").

La vicenda si commenta da sola ed è emblematica perché chiarisce in modo eclatante come la mancanza, nei Disobbedienti, di un chiaro programma anticapitalista li porti a farsi complici di gravi politiche di collaborazione con la borghesia, fino ad arrivare alla rivendicazione confusa e pericolosa di un cavallo di battaglia della Destra. Pure, molti giovani, anche nel nostro partito, hanno abbracciato la parola d'ordine della disobbedienza intendendola, diversamente, come espressione di radicalità e quale vettore possibile di un'alternativa di sistema. In questo senso, proprio le migliori potenzialità della disobbedienza vengono tradite e liquidate sia dalle politiche di collaborazione di classe dei Verdi disobbedienti di Casarini sia dalla prospettiva di un accordo di governo tra Prc e Ulivo. Per questo, Progetto Comunista rivolge l'appello per il Congresso Straordinario e per la salvaguardia di una reale autonomia di classe dei movimenti anche a quei tanti Giovani Comunisti che non accettano di veder capovolte le migliori ragioni della disobbedienza nell'obbedienza a Prodi e all'Europa dei padroni.

 

*Coordinamento nazionale Giovani Comunisti/e