Marxismo rivoluzionario n. 5 – trent'anni fa la rivoluzione portoghese / analisi
LEZIONI ATTUALI DI UNA CRISI RIVOLUZIONARIA
Trent’anni fa la rivoluzione portoghese scosse
l’Europa. Dopo il maggio francese del ’68, si trattava della più grande
crisi rivoluzionaria che si fosse affacciata nel vecchio continente dagli anni
’50. Anzi se è vero che il maggio ’68 aveva conosciuto un’espressione più
concentrata della sollevazione operaia è anche vero che la vicenda portoghese
del 74-75 ha visto una combinazione più elevata di mobilitazione operaia e
crisi dello Stato, ponendo in termini diretti il nodo cruciale della conquista
del potere.
L’articolo che qui proponiamo -scritto dal compagno
Franco Grisolia nella seconda metà del 1975- riporta una lettura diretta degli
avvenimenti in corso da parte dei marxisti rivoluzionari e del loro bollettino (Il
Militante) Al di là dei riferimenti di dettaglio che essi contengono,
essendo stati scritti “a caldo”, questi articoli esprimono un’analisi di
fondo della dinamica rivoluzionaria e un approccio politico a questa che ci pare
utile riproporre. E’ un’analisi che si è contrapposta nel vivo di quella
vicenda alla lettura distorta che ne fecero rispettivamente il Pci e le
organizzazioni italiane di estrema sinistra (oltre alle organizzazioni
revisioniste del trotskismo sul piano internazionale). Il primo evocando lo
spettro del Cile e la necessità di un ordinato percorso di compromesso storico
contro ogni velleità avventuristica ed estremistica. Le seconde facendo da
cassa di risonanza alle mitologie dello spontaneismo e dell’onnipotenza della
rivoluzione sotto la guida… dell’Mfa. Entrambe rimuovendo, per interesse
proprio o incapacità, la lezione profonda della rivoluzione portoghese.
Una rivoluzione che ha riproposto ,invece, in forme
particolari, alcune indicazioni di valore universale.
Per usare la terminologia di Bloch, ogni esplosione
rivoluzionaria si genera dalla combinazione di “cause apparenti” e “cause
reali”. I fattori contingenti sono naturalmente importanti e per alcuni
aspetti decisivi. Ma solo nella misura in cui costituiscono il fattore
d’innesco di un materiale esplosivo da lungo tempo deportato e sedimentato. I
rovesci dell’esercito portoghese in Angola e Mozambico hanno sicuramente
determinato il distacco dell’esercito dal vecchio regime: ma se gli effetti
della rivoluzione coloniale hanno operato così nel profondo della società e
dello Stato portoghese è perché l’equilibrio sociale e politico del vecchio
regime era già logorato nelle sue fondamenta dal precipitare della crisi di
consenso della piccola borghesia, dalla graduale ripresa delle lotte operaie ( a
partire dagli scioperi della Lisnave del ‘61-‘62), dalle nuove necessità
poste dallo sviluppo del Mercato comune europeo. Da tempo le classi dominanti
volevano cambiare cavallo nell’impossibilità di perpetuare la forma
tradizionale del proprio dominio. Ciò che non prevedevano è di trovarsi
costrette a saltare sul cavallo selvaggio di una rivoluzione operaia e popolare.
Certo nessun soggetto sociale o politico ha voluto e pianificato la rivoluzione
portoghese: né le gerarchie militari che puntavano ad una transizione graduale
e ordinata; né il PCP che mirava unicamente
a costruire e consolidare il proprio ruolo d’apparato in una rifondata
democrazia borghese portoghese; né l’estrema sinistra, spesso segnata da una
confusa miscela di movimentismo e avventurismo minoritario.
Eppure ognuno di questi soggetti ha obiettivamente
concorso, suo malgrado, ad innescare la dinamica rivoluzionaria. Che è
ampiamente sfuggita alle loro previsioni e al loro controllo.
Contro tutti i detrattori “strutturalisti” della forza
delle masse la vicenda portoghese ha rivelato le potenzialità dirompenti di una
rivoluzione. La classe operaia industriale in Portogallo era una minoranza della
società portoghese. La sua esperienza ed organizzazione, erano state limitate e
compresse per lunghi decenni dal tallone di ferro della dittatura. Eppure la
crisi del regime, e il varco che questa ha aperto, ha richiamato un’irruzione
operaia e popolare di enorme portata, direttamente proporzionale al lungo
periodo di sofferenza passiva che il proletariato aveva subito. E la forza
operaia si è manifestata non solo nella determinazione e radicalità della
lotta, ma nel suo porsi come punto di riferimento centrale di aggregazione e
ricomposizione di un più vasto blocco sociale, a partire dalle masse povere
delle campagne. Così nell’arco di un anno e mezzo una classe operaia
universalmente considerata fanalino di coda del “colto”, “moderno”,
“sindacalizzato” proletariato europeo ha vissuto un’esperienza
obiettivamente ben più radicale di tante altre esperienze avanzate della classe
operaia continentale. E’ la conferma del carattere imprevedibile, “ineguale
e combinato” dei processi rivoluzionari. Come scriveva Trotsky nel 21 un
proletariato socialmente e politicamente arretrato può, talora, rivelarsi più
maturo per una rivoluzione di un proletariato esperto ed avanzato.
Tutti i teorici saccenti dell’attualità della non
violenza in nome dell’impotenza della forza dovrebbero studiare con attenzione
la storia della rivoluzione portoghese. Chi nega le possibilità di una
rivoluzione in base alla comparazione statica delle forze militari in campo non
si confronta con la dialettica viva di una rivoluzione reale. Una rivoluzione
quanto più è profonda, tanto più sposta i rapporti di forza: sia perché
organizza le più grandi masse, trascinandole nell’arena politica sia perché
approfondisce le contraddizioni interne dell’apparato dello Stato. Nessun
apparato dello Stato è impermeabile a un processo rivoluzionario. La
rivoluzione portoghese del 74-75 ne è un esempio. Un apparato militare
repressivo rodato da decenni di dittatura è stato letteralmente scompaginato
dalla sollevazione popolare: che ha prodotto fratture nelle gerarchie, ha diviso
strati inferiori e superiori, ha disarticolato l’unicità del comando. Nessun
fatale rapporto di forza, nel 74-75 ha impedito la vittoria rivoluzionaria delle
masse.
Se la rivoluzione portoghese è stata sconfitta lo si deve
in ultima analisi, solo e unicamente all’assenza di un partito rivoluzionario.
E alla relativa egemonia di direzioni e apparati burocratici che hanno militato
con tutte le proprie forze contro una prospettiva rivoluzionaria vincente.
Il ruolo controrivoluzionario del Ps di Mario Soares non
merita particolari sottolineature (se non per la grottesca rimozione di quel
ruolo da parte di un settore del movimento trotskista internazionale che
addirittura vide nel Ps il canale d’espressione della classe operaia e delle
sue domande democratiche contro lo stalinismo). E’ il ruolo del Pcp che va
indagato nella sua realtà, ben diversa dal mito di cui è circondato dalla
agiografia staliniana. Il gruppo dirigente del Pcp è stato l’organizzatore
della sconfitta della rivoluzione portoghese: nel suo affidamento strategico
al blocco con l’Mfa in funzione della propria (illusoria) autodifesa
dalla reazione; nella sua azione metodica di contenimento e disarmo delle spinte
più radicali della classe e della sua stessa base sociale e militante; nella
sua predica quotidiana del carattere “democratico” della rivoluzione contro
la prospettiva del potere; nel suo metodo burocratico amministrativo di
autoimposizione all’interno del movimento operaio che purtroppo regalò al Ps
il consenso di settori arretrati e “democratici” delle masse. L’ultimo
libro di Cunhal che ancora difende contro le calunnie di Soares, la fedeltà del
Pcp al capitalismo portoghese, la sua rinuncia alla dittatura del proletariato,
la sua cultura legalitaria e istituzionale, è un involontaria e patetica
documentazione delle responsabilità storiche del Pcp nella sconfitta della
rivoluzione portoghese.
Sta di fatto che nessuna delle forze dell’estrema
sinistra portoghese, nel ‘74-‘75, si è rivelata capace di affrontare o
anche solo di porsi seriamente, il problema di scalzare l’egemonia del Pcp
nella classe operaia. Oscillando tra la subordinazione codina a Cunhal (vedi la
costituzione del Fur il 25 agosto 75) e il blocco con la reazione contro il Pcp
e i lavoratori (vedi i maoisti del Mrpp). Soprattutto nessuna di quelle forze si
è posta nella prospettiva strategica dell’alternativa di potere della classe
operaia e delle masse. Nessuna di esse ha posto la centralità
dell’organizzazione indipendente dei soldati, dell’armamento dei lavoratori,
della centralizzazione nazionale degli organismi embrionali dell’autorganizzazione
di massa e del loro sviluppo. Nessuna di esse ha fondato la propria politica
sull’autonomia del proletariato dalle direzioni dell’esercito portoghese.
E questo paradossalmente nel momento stesso del processo
di disgregazione di quell’esercito come sottoprodotto dell’ascesa di massa.
Come diceva Trotsky vi sono tre condizioni per la vittoria
di una rivoluzione: un partito, ancora un partito, sempre un partito.
La rivoluzione portoghese di trent’anni fa ne è
un’ulteriore conferma. E per questo racchiude una lezione che riguarda il
futuro.
Settembre 2004