Islam, movimenti di liberazione nazionale, lotta di classe

L’islamismo politico: una concezione reazionaria

Cenni storici e prospettive politiche

 

 

di Antonino Marceca

 

Un recente sondaggio dell’Istituto repubblicano internazionale, un centro studi statunitense, pubblicato il 21 ottobre sul giornale Usa Today, stabilisce che se si svolgessero regolari elezioni nell’Irak occupato i candidati più votati sarebbero Abdel Aziz al-Hakim dello Sciri (Consiglio supremo della rivoluzione islamica) e Moqtada Sadr che ha accettato il disarmo parziale dell’Esercito del Mahdi: sono due esponenti dell’islamismo politico iracheno divisi rispetto al governo fantoccio di Iyad Allawi, i primi nel governo i secondi all’opposizione. Il sondaggio evidenzia la  mancanza di una direzione di classe e comunista della resistenza irachena.

L’islamismo politico presenta un radicamento non solo in Irak ma, con diversi gradi di influenza quantitativa, in diversi paesi a maggioranza religiosa musulmana. Si tratta di paesi dipendenti la cui proiezione geopolitica si estende dall’Africa del Nord e subsahariana al Medio Oriente, sino all’Asia centrale e del Sud-Est. Vediamone, necessariamente in modo schematico, i molteplici aspetti di ordine religioso, politico e sociale. Distinguiamo, per chiarezza, l’islamismo politico dalla professione di fede musulmana, essendo l’islamismo politico una delle correnti del pensiero politico borghese.

 

Origini politiche e riferimenti teorici  

Le origini politiche ed ideologiche dell’islamismo politico li possiamo individuare nell’associazione dei Fratelli Musulmani, fondata nel 1928 dall’egiziano Hasan al-Banna (1906-1949), il quale individua nell’unità islamica lo sbocco dei processi di indipendenza dei vari Stati arabi. I Fratelli Musulmani parteciparono, assieme agli Ufficiali liberi di Nasser, alla rivoluzione egiziana del 23 luglio 1952 che provocherà la caduta della monarchia di re Faruk.

Sayyid Qutb, responsabile della sezione ideologica dei Fratelli Musulmani, può essere considerato assieme al pakistano Abu al-Mawdudi il maggior teorico del movimento. La rottura tra il panislamismo dei Fratelli Musulmani e il nazionalismo di Nasser avrà come conseguenza la  repressione degli islamisti, Qutb verrà incarcerato nel 1954 e poi giustiziato nel 1966. In carcere scrive Fi zilal al-Quran (All’ombra del Corano) dove definisce i fondamenti teorici dell’islamismo politico. Per Qutb, per quanto la trascendenza divina obblighi a forme di sovranità umana, la sovranità appartiene esclusivamente a Dio che la esercita attraverso la Legge religiosa, da qui lo slogan che campeggia sulle bandiere dei movimenti islamisti: “il Corano è la nostra Costituzione”. Qutb auspica un ritorno alle origini, quando politica e religione erano strettamente legate e il Profeta Muhammad era insieme capo religioso e capo politico della umma, la comunità dei credenti, quindi è legittimo soltanto il potere politico che obbedisce alla Legge religiosa: Corano, Sunna (Tradizione) e Hadith, i detti e comportamenti del Profeta. Il governo islamico troverà una formulazione istituzionale nella Repubblica islamica iraniana di Khomeyni attraverso la figura del Velayat e-fagih (il giusto fagih), il governo del giurisperito.

Con Qutb l’islamismo politico non solo dichiara guerra “contro ogni potere umano” ma nello stesso tempo apre una lotta per l’egemonia nelle masse musulmane contro le correnti tradizionaliste dell’Islam: il quietismo. Il quietismo, attraverso la teoria dell’obbedienza dovuta, derivata dal versetto coranico “la fitna è peggio dell’assassinio” (intendendo per fitna la contrapposizione, la lotta, il disordine), ha storicamente legittimato il potere politico, comunque conquistato, a condizione che difenda la comunità musulmana dai nemici esterni e consenta le pratiche religiose. L’islamismo politico, sulla base del diritto alla proprietà privata sancito dal Corano, accetta il modo di produzione capitalistico, attenuandone le contraddizioni attraverso un sistema di assistenza sociale islamica. La lotta di classe, in quanto fattore di divisione dell’umma, la comunità islamica, è negata,  ne consegue il divieto di ogni attività sindacale e politica, dell’esistenza stessa del movimento operaio.

Distinguiamo nell’islamismo politico, a grandi linee, due modalità strategiche di conquista del potere: radicale e neotradizionalista. Per i radicali la conquista del potere passa per via insurrezionale, solo mezzo per rigenerare una società musulmana fortemente segnata dalla “corruzione morale e materiale”: strumento necessario è il partito d’avanguardia, il partito islamista. Per la corrente neotradizionalista prima della conquista del potere politico, posta comunque come obiettivo, è necessaria una fase di radicamento nella società attraverso la rinascita di comunità islamiche centrate attorno a moschee emancipate dal potere politico. Il sistema di assistenza islamico nel frattempo realizzato, attraverso una serie di servizi assistenziali e caritatevoli (le mense per i poveri, la gestione di ospedali, le scuole religiose), contribuisce a consolidare il consenso e prefigura la società rigenerata. Il mantenimento e la gestione di questo apparato è assicurato da risorse finanziarie provenienti sia dalla zakat (imposta islamica) sia dai finanziamenti provenienti dai paesi del Golfo (Arabia Saudita). Attraverso queste attività, gestite da confraternite, i Fratelli Musulmani d’Egitto hanno notevolmente accresciuto la loro influenza nella società egiziana e in particolare tra le masse popolari del paese. I neotradizionalisti non escludono l’utilizzo delle elezioni quale mezzo per la conquista del potere.

 

La base sociale dell’islamismo

La sconfitta nel 1967 delle armate arabe nella guerra dei sei giorni contro Israele segna l’inizio della crisi del nazionalismo arabo. Una crisi organica: economica, politica ed istituzionale. La crisi investe il paese chiave del nazionalismo arabo, l’Egitto di Nasser. Una crisi che si manifesta nel fallimento di una politica di sviluppo economico e di giustizia sociale, nella sottomissione crescente all’imperialismo, nel mancato raggiungimento dell’obiettivo dell’unificazione della Nazione Araba, nell’aumento delle politiche repressive all’interno.

La crisi economica internazionale, all’inizio degli anni ’70, si abbatte come un uragano sui paesi della periferia capitalistica. Il debole sviluppo economico realizzatosi negli anni precedenti si blocca, mentre la sovranità nazionale di recente acquisizione non modifica i rapporti di dipendenza con l’imperialismo. Lo Stato nato dall’indipendenza, delimitato da frontiere disegnate dalle potenze coloniali, si riduce sempre più ad uno strumento di potere al servizio degli interessi economici della frazione borghese dominante, del clan al potere. Un potere privo di legittimità, basato su un sistema clientelare promotore di una diffusa corruzione elevata a sistema banditesco e di scambio. Un potere arbitrario mantenuto da una feroce repressione poliziesca. A questo si riduce a partire dagli anni ’70 il potere nazionalista. Dittature che una dopo l’altra (Egitto, Tunisia, Marocco, Algeria, ecc) attuano le soluzioni a senso unico imposte dal Fondo Monetario internazionale. Le nuove generazioni provenienti dai ceti commerciali e burocratici di recente urbanizzazione, dopo aver conseguito diplomi, si trovano sbarrata la strada dell’inserimento sia nella pubblica amministrazione sia nel mercato del lavoro: assieme agli strati di piccola e media borghesia colpiti dalla crisi economica ed emarginati dai clan al potere, agli strati popolari diseredati assistiti dall’assistenza islamica, costituiranno la base sociale dell’islamismo politico.

L’insurrezione Khomeynista del 1979 in Iran diviene modello di riferimento e forza propulsiva. Gli scioperi e le rivolte che investono i paesi arabi negli anni ’80 (Egitto nel 1981 e nel 1986, Tunisia nel 1984, Algeria nel 1988, Giordania nel 1989) rappresentano un momento di crescita e di radicamento dell’islamismo politico in tutto il Medio Oriente e nell’Africa. Nel suo crollo, politico e teorico, il nazionalismo trascina la sinistra araba, in maggioranza stalinista, che ad esso si era alleata, producendo un vuoto che sarà velocemente riempito dal progetto islamista.

 

Gli anni ’90, strategia insurrezionale e sostegno Usa

La “rivolta del cous cous” che investe l’Algeria nell’ottobre del 1988 rappresenta una cesura nella storia del paese del dopo indipendenza. L’islamismo politico algerino, che fino ad allora aveva lavorato in modo sotterraneo, cavalca la rivolta spontanea delle masse, nel periodo seguente si imporrà come una delle forze decisive del panorama politico algerino. Dopo le elezioni amministrative, le prime elezioni politiche pluraliste sono fissate per il 27 giugno 1991. Il Fis (Fronte islamico di salvezza) -finanziato dall’Arabia Saudita e appoggiato dagli Usa e per questo fortemente condizionato ed ambiguo rispetto alla prima guerra scatenata dall’imperialismo contro l’Irak in seguito all’invasione del Kuwait- vince il primo turno elettorale con il 47.27% dei voti espressi. Il colpo di stato nazionalista annulla il primo turno delle elezioni legislative e interrompe il processo elettorale. Gli islamisti scatenano la guerriglia e poi il terrorismo.

In Afghanistan il 27 settembre 1996 le forze armate dei Taliban, studenti coranici, entrano a Kabul ed istaurano l’Emirato islamico. I Taleban, islamisti radicali appartenenti all’etnia maggioritaria dei Pashtun, nascono nel 1994 nelle madrase, scuole coraniche pakistane, sotto la guida del mullah Omar: grazie al sostegno economico, politico e militare del Pakistan, dell’Arabia Saudita e degli Usa in soli due anni conquistano il potere. Osama Bin Laden, imprenditore saudita, sostiene attivamente e finanziariamente la guerra contro l’occupazione dell’Afghanistan da parte dell’Urss e per questo suo ruolo riceve appoggi da parte degli Usa e del Pakistan. Dal 1996 vive sotto la tutela del regime islamista dei Taliban. Nei campi di addestramento in Afghanistan, dove convergono islamisti da tutto il mondo, Bin Laden fonda Al Qaeda (la base), l’egiziano Aywan al-Zawahiri sarà il massimo teorico del movimento. La jihad, trionfante in Afghanistan, viene sconfitta in Algeria e Bosnia, mentre le azioni islamiste non innescano una mobilitazione popolare musulmana in Egitto e in Arabia Saudita. Queste sconfitte portano la frazione facente riferimento alla rete di Al Qaeda ad operare una svolta, ad optare per una strategia terrorista, funzionale ad accrescere il consenso e l’imitazione tra le masse musulmane, a conquistare il potere attraverso una via “putshista” basata su un’avanguardia ristretta, opposta quindi alla mobilitazione popolare musulmana. Le azioni terroriste sono prevalentemente indirizzate contro i protettori internazionali dei dirigenti “apostati” del Medio Oriente e dell’Africa del Nord, segnatamente gli Usa, Israele e le potenze imperialiste europee, ovunque questi si trovino, ma non risparmiano gli stessi musulmani. Una strada senza vie d’uscita.

 

Un pericolo mortale per il movimento operaio

La conquista del potere da parte dell’islamismo politico e la conseguente realizzazione dello Stato islamico, sulle basi teoriche sopra ricordate, pur nelle diverse forme istituzionali (Iran, Afghanistan, Sudan), ha sempre comportato la distruzione delle organizzazioni del movimento operaio. In negativo l’esperienza iraniana è fonte di insegnamenti anche per l’oggi. Le  due più influenti organizzazioni della sinistra iraniana, i Fedayyin-e Khalq della linea Aksariyyat (“maggioranza”) e il Tudè (“masse”, il partito comunista iraniano), sostengono la teoria stalinista della rivoluzione a tappe di cui una sarebbe stata quella democratica e antimperialista. Date queste premesse teoriche ricercheranno l’alleanza con la borghesia nazionale, dopo aver sostenuto le forze nazionaliste, sosterranno nel corso della rivoluzione islamica del 1978-1979 la direzione islamista di Khomeyni. Tale politica comporta la rinuncia ad ogni indipendenza politica e strategica da parte del movimento operaio e la subordinazione alle direzioni borghesi, nel caso specifico gli islamisti. Pagheranno caro questo crimine: il regime del Velayat-e Fagih di Khomeyni distruggerà le organizzazioni del movimento operaio iraniano, i suoi dirigenti e militanti saranno incarcerati, torturati e impiccati in piazza.

La riapertura di una prospettiva socialista, unica soluzione alla barbarie, è oggi come ieri legata alla salvaguardia dell’indipendenza di classe del proletariato dalle diverse frazioni della borghesia; alla direzione dei partiti comunisti, sulla base dei principi teorici della rivoluzione permanente, delle lotte del proletariato e delle masse popolari nei paesi dipendenti, della resistenza in Irak e in Palestina contro l’imperialismo e il colonialismo; alla Rifondazione della IV Internazionale e delle sue sezioni.

01.11.2004