di Marco Ferrando
(articolo pubblicato su "Liberazione", 25 gennaio 2006)
La vicenda di "bancopoli" non è un'improvvisa patologia ma la punta emergente di un sistema che vede i potentati finanziari promuovere l'uno contro l'altro l'espropriazione della ricchezza del Paese
La cosiddetta vicenda di "bancopoli" ripropone a sinistra questioni
di fondo, sociali e politiche insieme.
Grazie anche al vasto processo di privatizzazione e concentrazione
attivato nella lunga legislatura di centrosinistra degli anni 90, il settore
bancario è l'ambito del capitalismo italiano che ha meglio resistito
all'agguerrita competizione interna e internazionale. Gli utili delle banche
italiane sono semplicemente enormi, come emerge dall'aumento medio dei
profitti netti del 46,8% per i quattro maggiori istituti bancari lungo
i primi nove mesi del 2004. Le loro proiezioni internazionali sono in ascesa,
come si evince dal posizionamento di punta in Europa di Banca Intesa e
Unicredito, reduce dalla felice fusione con la banca tedesca Hypovereins
ed oggi dominatrice della intera finanza polacca. Il loro peso complessivo
nell'economia nazionale si è sviluppato in misura direttamente proporzionale
alla crisi di sovrapproduzione della grande industria esportatrice (automobilistica
ed alimentare in primis) e alla crisi dei tradizionali distretti della
piccola e media impresa: e ciò sia attraverso il crescente indebitamento
bancario delle imprese sia attraverso la corrispondente estensione della
compartecipazione azionaria delle imprese da parte delle banche. In sostanza,
il declino del capitalismo italiano nella produzione capitalistica internazionale
si è tradotto in un potente sviluppo del capitale finanziario e
in un intreccio sempre più inestricabile ed esteso tra rendita finanziaria
e profitto.
Le banche della rapina
Proprio questo sviluppo ha rilanciato una lotta selvaggia tra pescecani
capitalisti per la "spartizione del bottino" e il controllo dei gangli
vitali dell'economia: una lotta lastricata di rapine ai danni dei piccoli
risparmiatori, consumatori, correntisti (vivi o morti); ai danni dei lavoratori
di tante imprese travolte; ai danni di un'economia meridionale sempre più
colonizzata dai colossi bancari del nord, come nella migliore tradizione
storica del capitalismo italiano. Le scalate incrociate di Antonveneta
e Bnl da parte di una cordata di nuovi faccendieri di diversa estrazione
e provenienza non è dunque un'improvvisa patologia ma la punta emergente
della quotidianità capitalistica e della sua legge della giungla.
Qui sta davvero l'autentico scandalo: non (solo) nell'illegalità
manifesta di un pugno di parvenù, ma in quella tradizionale legalità
quotidiana che ha visto e vede l'insieme dei potentati finanziari del paese
promuovere l'uno contro l'altro la comune espropriazione della ricchezza
sociale. A partire da quelle grandi e rispettabili banche del salotto buono
del capitalismo italiano che portano il nome di Banca Intesa, Unicredito,
San Paolo, Capitalia, Monte dei Paschi: che fanno leva sui costi bancari
più alti d'Europa per finanziare i propri affari speculativi; che
sono protagoniste, dirette o indirette, di tutti i grandi crimini finanziari
degli ultimi anni (Cirio, Parmalat, Bond argentiniÉ); che sono state
negli ultimi dieci anni all'avanguardia, a fianco di Confindustria, nell'imporre
sacrifici alle grandi masse, così come oggi sono in prima fila nel
commissionare a Prodi nuove "riforme impopolari"; sempre col supporto di
quella stampa nazionale che proprio le grandi banche controllano (a partire
dal Corriere).
Le sinistre e il potere bancario
Di fronte a tutto questo emerge, tanto più oggi, la subalternità
profonda della sinistra italiana alle classi dominanti del paese. Non parlo
della maggioranza dirigente dei Ds, unicamente impegnata a scalare politicamente
la rappresentanza centrale del capitalismo italiano in concorrenza aperta
con la Margherita e per questo fiancheggiatrice incauta di aspiranti banchieri
di Unipol come ieri dei capitani coraggiosi di Telecom. Parlo dei gruppi
dirigenti della sinistra che si definisce "radicale": che certo criticano
(molto sommessamente) "gli eccessi di disinvoltura" dei Ds e la cosiddetta
"finanziarizzazione dell'economia"; ma d'altro lato, pur di apparire affidabili
agli stessi Ds e alla Margherita, come futuri partners di governo, rinunciano
a mettere in discussione il potere bancario e la sua funzione di rapina,
limitandosi a rivendicare improbabili "codici etici" o a chiedere la tassazione
delle rendite finanziarie al tasso europeo: una richiesta in sé
talmente minimale e così poco discriminante da essere oggi avanzata
dalla stessa Confindustria di Montezemolo sia come mezzo di razionalizzazione
capitalistica e di ridimensionamento dei parvenu della finanza sia come
leva di un ulteriore trasferimento di ricchezze ai profitti della grande
industria esportatrice (sostegno alla esportazioni, alle ristrutturazioni,
alla ricerca tecnologica etc). Non è davvero impressionate questo
divario tra la radicalità della rapina capitalista e il moderatismo
programmatico di una sinistra che pur si vuole "alternativa"?
Que se vayan todos
Al contrario lo scandalo bancario dovrebbe richiamare più che
mai l'attualità di un programma di alternativa vera. Di un programma
la cui radicalità di classe sia eguale e contraria alla radicalità
quotidiana del capitalismo in crisi. Di un programma che, partendo dall'esperienza
concreta di milioni di lavoratori, consumatori, correntisti, abbia il coraggio
di rivendicare apertamente la nazionalizzazione delle banche, senza indennizzo
(perché ne hanno avuti sin troppi) e sotto controllo dei lavoratori.
E' questa una misura indispensabile di igiene morale e di riappropriazione
sociale della ricchezza espropriata; è una misura indispensabile
per cancellare alla radice quella cinica roulette russa del capitale finanziario
che affida il destino sociale di milioni di uomini ai giochi di società
di una minoranza privilegiata di parassiti sociali; è una misura
indispensabile per riconsegnare nelle mani del popolo una leva decisiva
di riorganizzazione sociale dell'economia. Una petizione "ideologica e
astratta"? E' vero l'opposto. Una lotta dell'insieme del movimento operaio
per la nazionalizzazione delle banche risponderebbe alla diffusa ostilità
sociale contro lo strozzinaggio quotidiano del potere bancario; potrebbe
mobilitare ampi settori di lavoratori e piccoli risparmiatori, saldando
attorno alla classe operaia un più vasto blocco sociale alternativo;
potrebbe sottrarre alla demagogia reazionaria di Berlusconi il classico
argomento sulla "sinistra amica dei banchieri", inserendosi invece attivamente
nelle contraddizioni del blocco sociale delle destre. Potrebbe insomma
tradurre una prospettiva socialista in un linguaggio popolare e comprensibile
per vaste masse.
Certo una lotta di massa per la nazionalizzazione delle banche è
incompatibile con ogni alleanza con Confindustria, con i banchieri sostenitori
di Prodi, con i portavoce e fiancheggiatori di Unipol. Richiede una rottura
di fondo con le classi dirigenti del paese e una prospettiva di alternativa
di società e di potere: in cui siano i lavoratori e le lavoratrici
a guidare l'Italia, non più i loro padroni e i loro strozzini. "Que
se vayan todos! ": è la consegna semplice e chiara che da anni accompagna
l'ascesa di massa in tanta parte dell'America latina. La crisi sociale
e morale delle classi dirigenti del nostro paese non mostra forse l'attualità
straordinaria in Italia di questa consegna? Perché la sinistra italiana
invece di contendersi i favori di Prodi non unisce le proprie forze attorno
a questa parola d'ordine elementare? Perché non lavora a ricondurre
ogni obiettivo immediato, ogni lotta concreta, ogni movimento a questa
prospettiva generale, sviluppando la coscienza politica dei lavoratori?
So che i cantori del "realismo" reagiscono con scetticismo di fronte
a tanta "utopia". Ma la vera utopia è immaginare un capitalismo
"etico" e progressista, magari garantito da un paio di ministri di sinistra
in un governo guidato dai banchieri e dai loro partiti: come ci mostra
l'intera storia della società borghese, dal millerandismo di fine
800 sino al Brasile corrotto di Lula. E viceversa il vero realismo in questa
epoca di crisi è più che mai anticapitalista e rivoluzionario.
Perché realisticamente non vi sarà alcun nuovo mondo possibile
all'ombra dei capitalisti e in collaborazione con questi. Perché
realisticamente solo la rottura col capitalismo può sgomberare il
campo ad una nuova società. Perché realisticamente solo una
lotta radicale anticapitalista può strappare già oggi, come
suo sottoprodotto, risultati parziali, riforme, nuove conquiste o difesa
delle vecchie. E viceversa ogni rinuncia ad una prospettiva capitalista
nel nome dei governi con i liberali comporta, già oggi, arretramenti,
rinunce, controriforme, con la pesante corresponsabilità delle sinistre.
Collaborazione con i capitalisti o rottura con i capitalisti? Governare
coi banchieri o lottare per la nazionalizzazione delle banche? Questo è
dunque il vero bivio che si pone, ancora una volta, di fronte alla sinistra
italiana, e non solo. Ogni "terza via" riposa nella letteratura (sempre
florida) dei pii desideri.