INTERVENTO DI FRANCESCO RICCI AL V CONGRESSO PRC



Cari compagni, care compagne,
due linee (con le rispettive articolazioni interne) si sono confrontate in questo congresso. Due linee strategicamente differenti, pur nel quadro comune della rifondazione. In conclusione di questo dibattito la minoranza resta minoranza ma con diversi elementi di soddisfazione politica.

Siamo soddisfatti della discussione che, pur non priva di qualche eccesso polemico, è stata probabilmente la più ampia mai affrontata dal nostro partito.

Siamo soddisfatti, poi, come compagni della minoranza, per il risultato congressuale del nostro documento. Un risultato che è ben più ampio di quello che ci pronosticavano alcuni compagni, forse preoccupati di una nostra scomparsa a questo congresso.

Ma la soddisfazione maggiore sta nel fatto che gli avvenimenti degli ultimi mesi, successivi alla stesura dei due documenti, ci pare confermino gli assi centrali della proposta politica delle nostre tesi mentre il documento di maggioranza necessiterebbe già oggi (permettetemi una piccola provocazione) di essere riscritto sia nel suo impianto strategico sia per quanto riguarda la sua proposta politica.

Per quanto riguarda il piano strategico. Entrambi i documenti hanno proposto il tema del “socialismo” e della “rivoluzione” come unica risposta alla barbarie quotidiana del capitalismo. Ma il documento di maggioranza ha coniugato il tema della “rivoluzione” con un “superamento del comunismo novecentesco” che prevede la rimozione del concetto di partito d’avanguardia e soprattutto la rimozione, nei fatti, dell’obiettivo storico di un Ordine Nuovo basato sulla democrazia dei consigli dei lavoratori, rimpiazzato nelle tesi dall’idea che i lavoratori possano al più dare consigli ai governi della borghesia (sul modello del “bilancio partecipativo”), sostituendo così l’obiettivo strategico di un governo dei lavoratori con quello –definito “irrinunciabile”- di un governo riformatore o di sinistra plurale (che, come la storia ci ha insegnato, non è mai stata una tappa verso l’alternativa di sistema ma al contrario un ostacolo).

Ebbene, due esperienze internazionali hanno già smentito questo impianto. In Argentina la crescita anticapitalistica del movimento è avvenuta proprio grazie alla presenza di un partito d’avanguardia nel vasto movimento popolare che ha cacciato in poche settimane i governi della borghesia, di centrosinistra e di centrodestra. Se le parole d’ordine centrali del movimento in Argentina non ruotano attorno alla tobin tax, se assemblee di massa rifiutano ogni ipotesi di partecipazione popolare alla definizione del bilancio borghese e avanzano viceversa la parola d’ordine dell’esproprio degli espropriatori, se l’assemblea nazionale del movimento (a metà febbraio) si chiude indicando l’obiettivo della cacciata del governo Duhalde per sostituirlo con un governo dei lavoratori, basato sui comitati popolari, ciò è dovuto anche alla battaglia di egemonia su queste posizioni che è stata sviluppata dalle forze rivoluzionarie (in primo luogo il Partito Obrero, presente con una propria delegazione qui a questo congresso).

Viceversa in Francia, quel governo della sinistra plurale che è stato per anni il modello della maggioranza dirigente del nostro partito esplicita sempre più la sua vera natura di classe. Dopo anni di privatizzazioni e controriforme, Jospin si avvia alle prossime presidenziali dicendo che bisogna “guardare al centro”. Il PCF che ha cercato per anni di imprimere una “svolta a sinistra” alle politiche jospiniane è al suo minimo storico ed è sorpassato dalle formazioni della sinistra rivoluzionaria che sono all’opposizione della sinistra plurale.

A me sembra che da queste due esperienze internazionali venga una evidente smentita a buona parte delle tesi di maggioranza mentre viene confermata l’attualità e l’urgenza ma anche la praticabilità dell’obiettivo storico dei comunisti. Che era e resta non quello della costruzione di un governo riformatore di sinistra plurale. Era e resta viceversa quello di guadagnare la maggioranza del proletariato, nel corso delle sue lotte quotidiane, alla comprensione dell'impossibilità di riformare il capitalismo attraverso governi riformatori e alla conseguente necessità di mirare alla costruzione di un governo dei lavoratori per i lavoratori.

Ma anche a livello politico, mi pare, vengono alcune importanti conferme alle posizioni sostenute nel documento di minoranza.

Dopo aver fatto un dibattito congressuale all’insegna della “svolta a sinistra”, dopo che in molti dibattiti è stato ripetuto che non si ipotizzava alcun riavvicinamento al centrosinistra, che la minoranza faceva un “processo alle intenzioni”, a quindici giorni dal congresso nazionale la segreteria rilancia un’apertura all’Ulivo con quella che qualcuno (ad esempio Parlato sul Manifesto) ha definito una “svolta” e che io credo sia piuttosto l’esplicitazione della proposta politica mai abbandonata dal gruppo dirigente (e peraltro contenuta anche nella famosa tesi 37 del documento di maggioranza).

Si parla di “un clima nuovo” tra noi e il centrosinistra. Così, dopo aver ripetuto per mesi che “l’Ulivo è morto” lo facciamo resuscitare –subito dopo la Pasqua- con i tanti accordi elettorali e di governo locale per le elezioni del 26 maggio. Come sempre si dice –con apparente pragmatismo- che gli accordi si faranno solo sulla base di reali convergenze programmatiche. Ma in realtà l’intera esperienza del nostro partito –in decine di giunte- ha già ampiamente dimostrato che il centrosinistra non è schizzofrenico, non pratica a livello locale politiche diverse da quelle che ha praticato a livello nazionale.
Anche a livello amministrativo le “svolte” rimangono una vana attesa, mentre la realtà è fatta di politiche antioperaie e di una difficoltà nostra di radicarci dovendo talvolta stare contemporaneamente nelle piazze contro le politiche borghesi dell’Ulivo e nelle giunte che quelle politiche promuovono.

Ma ciò che è più grave è che la proposta politica delle tesi venga esplicitata e riaffermata di fronte a uno scenario che è ben diverso da quello in cui quelle tesi sono state scritte.

Un quadro politico in cui abbiamo da una parte la volontà del governo Berlusconi di andare allo sfondamento di ogni residuo argine dei lavoratori; dall’altra abbiamo una reazione di massa, imponente, di quella classe operaia che molti davano prematuramente per morta, una crescita esponenziale delle ore di sciopero, una disponibilità a radicalizzare lo scontro col governo.
In mezzo abbiamo i tentativi dell’Ulivo, delle burocrazie dei DS e della CGIL di incanalare questa generosa disponibilità di lotta dei lavoratori nella ricerca di un nuovo spazio concertativo o, nel migliore dei casi, in uno strumento dell’alternanza borghese, come fu nel 1994, per tornare a governare come hanno fatto nella scorsa legislatura in nome e per conto della grande borghesia.

Di fronte a tutto ciò può il nostro partito alimentare nuove illusioni in quelle burocrazie parlando di “accantonare le differenze”? O viceversa dovremmo aver chiaro che questo movimento può crescere solo se riesce a riguadagnare una propria indipendenza di classe dal centrosinistra e dalle stesse burocrazie sindacali?

Si dice: ma noi proponiamo solo un’unità d’azione contro il governo, non un’unità politica. A parte il fatto che gli accordi per governare nelle città non li definirei “unità d’azione”. Ma in ogni caso: quale unità d’azione è mai possibile, mi chiedo, coi Rutelli e coi D’Alema, con gli Amato e Treu che propongono “lo statuto dei lavori”? Non c’è un solo terreno importante (scuola, immigrazione, guerra, lavoro) su cui nella sostanza centrodestra e centrosinistra non convergano. Quello che è necessario, allora, è un’unità dei lavoratori e dei giovani. Un’unità di classe che può essere costruita solo su un programma di opposizione di classe alle politiche della borghesia praticate da entrambi i poli dell’alternanza.

Questo movimento può e deve crescere oltre lo sciopero generale, dotandosi di forme di autorganizzazione sui luoghi di lavoro, non affidandosi in nessun modo a quelle burocrazie che sono responsabili di decenni di sconfitte e che hanno regalato l’Italia a Berlusconi! E’ questo il compito che il nostro partito dovrebbe assumere come centrale (prendendo esempio dalla Francia
del 1995): lo sviluppo del movimento, e quindi della sua piattaforma, e quindi di forme di lotta in grado di bloccare il Paese, fino alla coerente traduzione della lotta: e cioè fino alla cacciata del governo Berlusconi!

E’ questo il vero obiettivo che è alla portata del movimento e della gigantesca forza che ha messo in campo il 23 marzo. Non una ripresa della concertazione ma la piena sconfitta del governo. E non per riaprire la strada al centrosinistra, a nuovi governi d’alternanza ulivisti o di sinistra plurale. Ma per costruire nelle lotte reali, nelle lotte presenti, un’alternativa di classe.

Perché l’unico possibile progetto comunista, l’unico fine a cui vale la pena di sacrificare i nostri sforzi quotidiani è ancora oggi quello che Marx così indicava in una celebre lettera scritta dopo la Comune di Parigi:
 “il movimento politico della classe operaia ha, naturalmente, come fine ultimo la conquista del potere politico per la classe operaia stessa.”
La Comune sfiorò soltanto quell’obiettivo; il partito di Lenin e Trotsky lo realizzò nel ’17 ma per pochi anni. Lo stesso compito si ripone storicamente di fronte a noi: mettere fine alla barbarie del capitalismo trasformando il proletariato in classe dominante. E’ un’impresa che può sembrare impossibile ma che, a dispetto della sfiducia degli scettici e del loro presunto realismo, costituisce il senso stesso della rifondazione comunista.